Quello sviluppato di seguito è un tema mirato e particolare, per avviare una riflessione che possa anche avere un seguito, basata su un approccio estremamente costruttivo e fiducioso, che possa davvero guardare più lontano. In ordine alla Musica sacra, richiamo l'attenzione sull'indice dei numerosi articoli qui pubblicati.
Riproponiamo qui la falsariga di una sua agile messa a punto dottrinale per trarne allora le conseguenze della necessità di alcune riconsiderazioni ermeneutiche su quelli che furono gli antefatti della riforma liturgica stessa.
Prenderemo allora le mosse a ritroso dalla Sacrosanctum Concilium, che al paragrafo 118 del capitolo VI dice:
E, cosa le rubriche dicevano, dobbiamo allora vederlo subito.“Si promuova con impegno il canto religioso popolare in modo che nei pii e sacri esercizi, come pure nelle stesse azioni liturgiche, secondo le norme stabilite dalle rubriche, possano risuonare le voci dei fedeli.” Notiamo che vi si indica di promuovere con impegno il canto religioso popolare, e, questo termine va qui decifrato; badiamo bene che il canto popolare non è il canto liturgico, che, a norma dell’articolo 116, è il canto gregoriano e in subordine la polifonia.Il canto popolare è esso a venirvi detto “religioso”, e tale termine individua quei repertori non volti agli impieghi liturgici ma, a diverse situazioni devozionali, come era ribadito nei documenti preconciliari. Si potrebbe obiettare che nel paragrafo 118 invece si afferma che questo canto può avere posto “nelle stesse azioni liturgiche” ma, e non è trascurabile, “secondo le norme stabilite dalle rubriche.”
Ci rivolgiamo al motu proprio di San Pio X “tra le sollecitudini” (22/11/1903). Al capitolo III, paragrafo 7, indica qualcosa che già non dà adito a fraintendimenti:
“La lingua propria della Chiesa Romana è la latina. È quindi proibito nelle solenni funzioni liturgiche cantare in volgare qualsiasivoglia cosa; molto più poi cantare in volgare le parti variabili o comuni della messa e dell’officio.”
Si intende dunque che qui si sta parlando in genere della messa e dell'officio come tali, e non invece a modo particolare come quando le messe vi ci fossero considerate solo per quelle di esse che restituissero speciali celebrazioni più solenni. Infatti il testo assumeva, al contrario, che le "funzioni" delle messe, solenni e lo sono già poi per il fatto di esserne sempre e comunque liturgiche.
Al canto in volgare, si allude più avanti (VI, 21), quando si dice:
“Nelle processioni fuori di chiesa può esser permessa dall’Ordinario la banda musicale, purchè non si eseguiscano in nessun modo pezzi profani. Sarebbe desiderabile in tali occasioni che il concerto musicale si restringesse ad accompagnare qualche cantico spirituale in latino o volgare, proposto dai cantori o dalle pie congregazioni che prendono parte alla processione.” Il canto religioso popolare (per quanto non vi sia ancora chiamato così esplicitamente), pertanto è estraneo al rito liturgico. Nella Divini cultus sanctitatem (20/12/1928), papa Pio XI si rifà alle medesime prescrizioni di Pio X, particolarmente laddove si richiama quel coinvolgimento del popolo al canto liturgico il quale debba allora risolversene in una maggiore partecipazione di esso popolo al canto gregoriano stesso (“Affinché i fedeli prendano una parte più attiva al divin culto, il canto gregoriano, in ciò che spetta al popolo, sia restituito nell’uso del popolo. Occorre infatti che i fedeli, non come estranei o muti spettatori, ma, compresi veramente e penetrati dalla bellezza della liturgia, assistano in tal modo alle sacre funzioni – anche allorché si celebrano processioni solenni – da alternare la loro voce secondo le dovute norme, a quelle del sacerdote o della schola cantorum; se ciò accadrà felicemente, non si avrà più a lamentare quel triste spettacolo in cui un popolo non risponde affatto, o appena con un mormorio sommesso e indistinto, alle preghiere più comuni proposte in lingua liturgica ed anche in volgare.” (IX)).
Qui notiamo che si ribadisce il principio che il non assistere come estranei o muti spettatori presupponga proprio di attenersi a quella partecipazione attiva alla liturgia in cui al popolo sia restituito in ciò che gli spetta il canto gregoriano latino, e, non di meno, si evoca pure un'opportunità che tale restituzione del canto gregoriano ai fedeli possa essere estesa anche alle processioni esterne solenni, rilanciandovi l'obbligo della partecipazione popolare stessa in lingua poi sempre latina quando tali processioni siano allora liturgiche, ma sussistendo ancor sempre la possibilità di un canto religioso popolare in lingua invece volgare quando le processioni interessate liturgiche, proprio anzi, non ve lo siano. L'espressione usata infatti conferma che la lingua liturgica comunque non è quella poi invece volgare.
Più oltre, avremo la Mediator Dei (20/11/1947) di papa Pio XII. Ancora, vi si ribadisce la necessità di restituire al popolo la dignità di unirsi alla Schola almeno nelle melodie più semplici del canto gregoriano.
Troviamo però anche un passo rilevante sul canto religioso popolare:
“Vi esortiamo anche, Venerabili Fratelli, ad aver cura di promuovere il canto religioso popolare e la sua accurata esecuzione fatta con la conveniente dignità, potendo esso stimolare ad accrescere la fede e la pietà delle folle cristiane. Ascenda al cielo il canto unisono e possente del popolo nostro come il fragore dei flutti del mare, espressione canora e vibrante di un sol cuore e di un’anima sola, come conviene a fratelli e figli di uno stesso Padre.” (parte quarta, II).
Così, si persevera sulla linea tracciata dai predecessori, ed eppure c’è un'attenzione nuova per le moderne istanze che giungono dal Movimento liturgico e, finalmente se ne intanto sintetizza la menzione esplicita del canto religioso popolare.
Dello stesso Pio XII è l’enciclica Musicae sacrae disciplina (25/12/1955). Qui, dopo di essersi diffusi su di quella musica che viene definita realmente “liturgica” (gregoriano, polifonia) c’è una riflessione molto significativa:
“Ciononostante si deve tenere in grande stima anche quella musica che, pur non essendo destinata principalmente al servizio della sacra liturgia, tuttavia per il suo contenuto e le sue finalità reca molti vantaggi alla religione, e perciò a buon diritto viene chiamata musica religiosa. Invero anche questo genere di musica sacra – che ebbe origine in seno alla Chiesa e sotto i suoi auspici potè facilmente svilupparsi – è in grado, come l’esperienza dimostra, di esercitare negli animi dei fedeli un grande e salutare influsso, sia che venga usata in chiesa durante le funzioni e le sacre cerimonie non liturgiche, sia "fuori di chiesa" nelle varie solennità e celebrazioni. Infatti le melodie di questi canti, composti per lo più in lingua volgare... danno un certo tono di maestà religiosa ai convegni e alle adunanze più solenni.” (II).
Anche se sostanzialmente si continuano ad affermare i medesimi asserti e princìpi, si è altresì dischiusa un’attenzione rivolta all'indagine sul canto religioso popolare.
Nella riconferma dell’insegnamento precedente, si avverte un approccio diverso all'attenzione per il problema della partecipazione dei fedeli.
Si perviene a dire:
“A questi aspetti che hanno più stretto legame con la liturgia della Chiesa si aggiungono, come abbiamo detto, i canti religiosi popolari, scritti per lo più in lingua volgare, i quali prendono origine dal canto liturgico stesso, ma essendo più adatti all’indole ed ai sentimenti dei singoli popoli, differiscono non poco tra di loro, a seconda del carattere delle genti e dell’indole particolare delle nazioni e... quando si cantano nelle funzioni religiose dalla folla radunata come una voce sola, con grande efficacia elevano l’animo dei fedeli alle cose celesti”.
E sin qui si estrinseca il carattere assolutamente religioso nel senso di non liturgico e non rituale, di essi canti.
Ma poi, si introduce una sottile dinamica:
"Perciò sebbene, come abbiam detto, nelle Messe cantate solenni non possono usarsi senza speciale permesso della Santa Sede, tuttavia nelle Messe celebrate in forma non solenne possono mirabilmente giovare affinché i fedeli assistano al Santo Sacrificio non tanto come spettatori muti e quasi inerti...purché tali canti siano ben adattati alle varie parti del Sacrificio come Ci è noto che già si fa in molte parti del mondo cattolico con grande gaudio spirituale.”
Notiamo subito che qui ci si discosta dallo stile magisteriale di riferirsi, nel merito, alla già implicita solennità insita nella celebrazione liturgica di quell'eucaristia che debba essere intanto partecipata dal popolo: e ce se ne discosta per introdurvi qui l'ipotesi più analogica di una sorta di gradualità di condizione solenne entro della medesima celebrazione liturgica festiva.
Insomma, si postula qualcosa di simile ad una declinazione non piena, non perfetta, di certune messe qual che sia il loro grado celebrativo formale, tanto che in un tal senso metaforico se ne così considera la situazione allora tendenzialmente abusiva, difettiva, di una tal siffatta "non solennità" di simili situazioni pur celebrative.
E così si prende poi in considerazione il caso di certuni abusi diffusi e inveterati che però possano essere provvisoriamente resi sopportabili e tollerabili a partire almeno da determinate eccezioni ed attenuanti. Ossia, si mira a quelle situazioni in cui la prassi in pregiudicato è già purtroppo invalsa ma, semmai, in un modo allora meno insopportabile. E questa condizione si verifica allorché quell'improbabile adattamento dei canti religiosi volgari al Sacrificio, almeno vi sia stato già comunque intentato in quelle "parti del mondo" dove ciò stia nonostante tutto portando "un gaudio spirituale".
E con questo se ne ribadisce che normalmente tutte le messe quando hanno da essere partecipate pubblicamente e attivamente dai fedeli, devono essere ricondotte a quel loro tratto di solennità - quand'anche non strettamente cerimoniale - il quale presuppone il canto sempre in latino da parte dei fedeli stessi, e tuttavia se ne però aggiunge che pur e si daranno quelle circostanze che nel riguardo siano invece abusive e, pur diffuse, le quali però che tali e lo potranno allora esservelo in un modo poi momentaneamente anzi accettabile.
Ma in cosa consisterebbe, quindi, quel gaudio spirituale associato al pur estremo e irrealizzabile tentativo di adattare bene dei canti vernacolari e non liturgici alle varie parti del Sacrificio?
A cosa corrisponde, in realtà?
Ebbene, riscontriamo che la situazione che si vuole andare ad ovviare è quella di una mera persistenza inerziale dell'abuso inveterato e radicato di una riprovata pratica cantuale diffusa in determinati contesti regionali.
Perché un margine di tolleranza rispetto a simili situazioni abbiamo visto che la disciplina ecclesiastica pur lo riservava, sia pure in vista della circostanza opportuna per poi porvi rimedio.
Ma qui possiamo intendere che, con lo sviluppo degli eventi, tale paziente attesa possa risultare non più sostenibile, secondo ora il pensiero di papa Pacelli.
Per tuttavia non indulgere allora semplicemente e drasticamente a un giro di vite disciplinare che sancisse una volta per tutte la fine della tolleranza per quegli abusi desueti che trascinano improvvide contaminazioni cantuali non liturgiche e non rituali entro le celebrazioni eucaristiche, pare di capire che Pio XII abbia allora potuto cercare di almeno però accelerarlo quel processo stesso di rinnovamento di tali desueti repertori popolari a-liturgici e però, consuetudinariamente eucaristici, il quale intanto ricercasse l'allora impossibile allineamento di essi repertori abusivi alla poi reale fisionomia rituale e sacrificale propria poi della messa.
Ma accelerandolo, allora, quel processo, di modo così da anzi promuovere l'abbandono delle consuetudini abusive proprio quindi assecondandolo, esso perseguimento dell'illusione pretestuosa di raggiungere quel vagheggiato riscatto della cantualità religiosa non liturgica, il quale che poi vi fosse appena da ottenersi entro la pretesa assurda di un auto-contraddittorio suo buon adattamento al lineamento invece liturgico del rito stesso.
Notevole l'audacia di una tale operazione: presuppone il quadro secondo cui dove sussiste una insistita consuetudine all'abuso del canto popolare irrituale entro la messa stessa, vi si possa pur sempre permettere che ancora ve li si inseriscano i canti popolari in lingua volgare, e anzi, quel quadro persino ve lo presuppone, assumendo pure il rischio di ciò non definirlo in senso immediatamente restrittivo, e ossia senza cioè chiarire, come invece si sarebbe potuto decidere di fare, che i canti di cui si permette l'inserimento avessero dovuto essere solo ormai quelli per cui specificamente già ne sussisteva la consuetudine, e non poi altri nuovi canti ad essi analoghi.
Ma questa anfibologia non risolta, non mirava ad aumentare un'ambiguità confusiva, quanto invece a favorire la rapida sostituzione di canzoni irrituali ma intanto inveterate, con altre sostanzialmente equivalenti ma illusoriamente meglio armonizzabili con la ritualità liturgica, le quali così però e finiscano per essere più facilmente e rapidamente rimovibili di quanto non lo sarebbero invece state quelle stesse pur pessime ma, invece inveterate, se intanto non avessero avuto ad esserne allora rilevate da queste poi nuove che poi solo apparentemente avranno dovuto rigenerarle, e così semmai tramandarne il rilancio d'un loro stesso criterio d'uso e non solo di una loro cogenza materiale.
Insomma, il motivo di una certa qual variazione di approccio alla questione, da parte di papa Pacelli davvero potrà implicare l'intento opposto a quello che avrà potuto apparire e, che, fosse stato esso quello reale, avrebbe dovuto far anzi registrare un'incompatibilità insuperabile con il coerente e consolidato magistero precedente.
Resta poi da segnalare la suggerita eventualità della deroga pontificia dallo stesso obbligo di partecipazione popolare non in modo religioso vernacolare ma liturgico latino persino alle messe che restino poi intese tutte solenni anche proprio nella suddetta accezione analogica e perfettiva.
La discrezionalità pontificia di semmai concedere una tale estrema deroga tuttavia assomiglia sempre ancora ad essa medesima altrettanto ardita concessione che la Santa Sede avevamo visto volerla appunto concedere per le determinate eccezioni che non si volevano considerare solenni della celebrazione eucaristica stessa per la quale che poi, quelle stesse, di per sé solenni state anzi e ve lo sarebbero!
Si tratterà, insomma, di una residua ulteriore capacità di estendere la deroga dall'obbligo di piena partecipazione attiva in lingua latina che presenta la stessa fisionomia di esso medesimo arbitrato pontificio il quale stava intanto assumendosi l'onere di concedere la deroga dall'ascrizione stessa alla condizione di celebrazione solenne per quelle ritualità moderatamente abusive in cui ravvisava gli elementi temporaneamente scusanti.
Ma di quanto precedeva possiamo osservare ancor altri elementi che richiedono di essere mutuati secondo un'ermeneutica di continuità.
Potrebbe infatti sembrare se ne stesse dicendo che il non assistere come spettatori muti e inerti richiedesse proprio il canto religioso in lingua volgare nella liturgia stessa. Ma avevamo visto che nel linguaggio dottrinale il non essere spettatori muti presuppone al contrario i fedeli che partecipino col canto gregoriano latino. Allora è utile focalizzare di come si tratti che quelli non così tanto, ve ce ne allora poi partecipino da spettatori inerti quando che già in ciò pur vi ci incorrevano, cantando nella liturgia canti volgari non mai liturgici; perché sarà una sfumatura espressiva la quale in primo luogo ripete che la presunta partecipazione popolare che voglia essere liturgica e restare tuttavia religiosa volgare comunque tenderà proprio essa a rendere i fedeli spettatori muti e inerti, e però in secondo luogo poi concede che tale effetto negativo potrà essere almeno tuttavia attutito ed eccezionalmente perciò tollerato laddove peraltro sia già poi in atto.
Infatti si aveva anche proprio ribadito che:
“Dove una consuetudine secolare od immemorabile permette che nel solenne Sacrificio Eucaristico, dopo le parole liturgiche cantate in latino, si inseriscano alcuni canti popolari in lingua volgare, gli Ordinari permetteranno ciò qualora giudichino che per le circostanze di luogo e di persona tale (consuetudine) non possa prudentemente venir rimossa, ferma restando la norma che non si cantino in lingua volgare le parole stesse della liturgia, come già sopra è stato detto.” (III).
Si ribadisce che liturgico è il canto che riveste le parole del messale, e queste parti non possono essere cantate in lingua volgare, ma neanche possono essere intervallate o seguite da parti aggiuntive non poi liturgiche e anzi vernacolari. E tuttavia, potrà pur sempre darsene una gradualità disciplinare nel procedimento di estirpazione di tali abusi.
Una gradualità tollerante che allora ci spiegherà, senza giustificarveli, i presupposti dell'insorgenza di quegli abusi propri anche della prassi manualistica stessa, i quali pur poi nella concomitanza temporale con una presentazione dottrinale di per sé infine netta e coerente, si saranno posti a precipitoso fattore di confusione nella dinamica divulgativa e didattica di materie che altrimenti sarebbero state abbastanza definite e orientanti.
Abusi interpretativi che attraverso l'assolutizzazione di principio di quanto in realtà sia stata una strategia tutta disciplinare, ancor oggi suscitano confusione ed equivoco in molti che pur sinceramente tentano di porsi ad interpreti e restauratori dei medesimi aspetti dottrinali sopra enunciati, col rischio infine di condursene a rigettare il carattere autenticamente invece dottrinale e irrinunciabile di quegli asserti essi davvero anzi di principio.
Comunque sia, l’istruzione De Musica Sacra et Sacra Liturgia (3/9/1958) della Sacra Congregazione dei Riti, infine puntualizzerà le suddette acquisizioni segnate dai due precedenti documenti di papa Pacelli.
Giunti a questo punto si possono trattenere dei dati ricorrenti: a) il canto liturgico è il canto gregoriano; b) la lingua liturgica è il latino; c) il canto religioso popolare in lingua volgare è incoraggiato, ma assolutamente non ha il suo posto nelle liturgie che sono intese realmente solenni: e ne trattiene uno poi non più che precario e residuale, in quelle messe che non siano ravvisate come davvero solenni d) esso promana dal canto liturgico ma con un carattere, appunto, più “popolare” così almeno da consentire ancora qualcosa di quella partecipazione dei fedeli che invece per essere autentica richiede che essi si associno davvero ai canti gregoriani latini; e) non sostituisce il canto liturgico (che usa testi liturgici ufficiali), ma ad esso potrà semmai venirne apposto solo in via appunto di eccezioni e tolleranze esse motivate da situazioni pregresse ben inveterate.
E infine ritrovandoci, qui, con il Porfiri:
"Il Concilio, certamente, cercherà di favorire ancora più fortemente la partecipazione dei fedeli. Tutta la Sacrosanctum Concilium è un continuo e forte richiamo alla partecipazione più “actuosa” [qui - qui]. Viene detto di curare il canto dei fedeli e le risposte, anche se non ci si spinge laddove non ci si può e non ci si deve spingere. La lingua liturgica rimane il latino, il canto liturgico il canto gregoriano, il canto in lingua volgare continua ad essere chiamato “canto religioso popolare”. Insomma, la spinta al cambiamento che verrà, va cercata nel contesto dell’intero documento e non estrapolando semplicemente qualche frase qui o là."
E tuttavia dalla Sacra Congregazione dei Riti, avremo poi infine l’Istruzione Musicam sacram (5/3/1967), dove nel proemio se ne afferma:
“Sotto la denominazione di Musica sacra si comprende, in questo documento: il canto gregoriano, la polifonia sacra antica e moderna... e il canto popolare sacro, cioè liturgico e religioso.”
Il canto popolare insieme alla sua qualificazione di religioso, vi risulta anche nominato “liturgico”, tanto da lasciar sembrare che si sia giunti ad una svolta nuova rispetto alla dottrina liturgica precedente, in cui il canto popolare religioso era ultimamente extra liturgico. Ma, il punto è che qui per canto liturgico, proprio si comincia ad intendere tutt’altra cosa.
Si introdurrà una polisemia della dimensione ritualizzata che sgancia il senso del liturgico da quello che si sarebbe precedentemente inteso come rito. E dunque, con l'avvertenza di un tale mutamento di presupposto, in tale ambito diviene effettivamente conseguente una vera assimilazione di quanto era stato definito o religioso o liturgico, ma e non tanto allora per il trasfondersi della dinamica religiosa popolare in quella liturgica, quanto di più, per l'inverso.
Ma una così lineare disambiguazione non sarà operabile circa l'ermeneutica dello sviluppo terminologico preconciliare, che richiede, come abbiamo accennato, una chiarificazione più articolata e attenta.
Lorenzo p. Franceschini02/04/2021, Venerdi Santo
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