Dabo vobis pastores iuxta cor meum,
et pascent vos scientia et doctrina”
Benché questo testo non sia fra quelli liturgici, che in questo Giovedì Santo sono proclamati nella Missa Chrismatis, sembra appropriato e augurale per tutti quei presbiteri che oggi ripeteranno il loro sì davanti a Dio a quest’impegnativa e solenne promessa: “Volete essere fedeli dispensatori dei misteri di Dio per mezzo della santa Eucaristia e delle altre azioni liturgiche, e adempiere il ministero della parola di salvezza sull’esempio del Cristo, capo e pastore, lasciandovi guidare non da interessi umani, ma dall’amore per i vostri fratelli?” (Rinnovazioni delle Promesse Sacerdotali).
Ancor più ben augurante per il povero Popolo di Dio che, da ormai otto anni, è sottoposto a ogni forma d’angheria dottrinale, liturgica e pastorale e che assiste sconcertato all’affermarsi sempre più spietato di una “casta sacerdotale” che si autoproclama “padrona del Mistero della Fede” e non più minister, vale a dire serva, del ministero della grazia di Dio a lei affidata a beneficio dei credenti (cfr. Efesini 3, 2)
Il profeta Geremia è testimone, impotente e inascoltato, della scellerata politica degli ultimi cinque re del Regno di Giuda, che avrà come “paga” la distruzione del Tempio di Gerusalemme, la sospensione per settant’anni del Culto Pubblico all’Eterno, la devastazione della Città Santa e l’esilio del popolo giudaico a Babilonia.
Geremia, invano, aveva ammonito “Tutto questo paese sarà ridotto in una solitudine e in una desolazione, e queste nazioni serviranno il re di Babilonia per settant’anni" (25, 11).
Nonostante l’imminenza e l’ineluttabilità del giudizio divino - “io castigherò con giusta misura e non ti lascerò del tutto impunito” (46, 51) - il profeta annuncia l’avvento di futuri e nuovi “ποιμένας” (poimévas) pastori che “ποιμανοῦσιν” (pomavoùsin) pasceranno il Popolo Eletto.
Il profeta delinea il profilo di questi nuovi pastori in tre caratteristiche, che nella versione greca dei Settanta, ha precisi rimandi all’originale ebraico.
La prima caratteristica è che pasceranno κατὰ τὴν καρδίαν μου (katà kardìan mou), secondo il cuore stesso di Dio.
Nell’ebraico biblico il termine lev (לב) o levàv (לבב) ricorre 858 nei libri dell’Antico Testamento e indica esclusivamente il cuore umano.
Per il cuore degli animali, infatti, l’ebraico usa il termine generico di בָּשָֹר basàr, cioè carne
Il concetto antropologico di “cuore” come propriamente distintivo dell’essere umano, rispetto al mondo animale, è la più frequente nozione che ricorre nell’Antico Testamento e che è applicato in senso antropomorfo a Dio stesso solo 26 volte.
La ritrosia ad applicare il termine lev (לב) all’Eterno, ovviamente, rientra nell’assoluta osservanza del divieto di raffigurare il divino, anche solo concettualmente.
Geremia, tuttavia, si spinge oltre e profetizza che i futuri pastori, quelli che pasceranno il popolo liberato dall’esilio babilonese lo faranno secondo il cuore stesso di Dio.
L’espressione ebraica śîm lēv, che i Settanta traducono con κατὰ τὴν καρδίαν, in realtà è molto più impegnativa e indica “metterci il cuore”, “fare e prestare scrupolosa attenzione”.
I nuovi pastori dovranno avere verso il gregge d’Israele la stessa e intensa attenzione e premura che l’Eterno riserva al suo popolo.
Solo, infatti, κατὰ τὴν καρδίαν, secondo il cuore stesso di Dio potrà essere ristabilita l’Antica Alleanza e rinnovato il vero Culto al Dio vivente, così come aveva profetizzato la madre Anna per il profeta e giudice Samuele: “Ora l’Eterno dice: Io mi susciterò un sacerdote fedele, che agirà secondo il mio cuore e secondo il mio desiderio” (1 Samuele 2, 35).
La seconda caratteristica dei nuovi pastori è espressa dal participio presente greco ποιμαίνοντες (poimaìnontes), senza paura di se stessi e senza riguardo per se stessi.
Questo esplicito riferimento alla “paura di se stessi” è un rimando efficace a Genesi 3, 10, “abbiamo avuto paura e ci siamo nascosti”, quando i progenitori hanno trasgredito il divino comandamento di “lavorare e custodire il giardino” (Genesi 2, 15).
Ora il verbo ebraico `abad (lavorare) ha un’ampia gamma di significati che indica sia il “lavorare” ma anche il “servire”, il “rendere culto”, l’“onorare la divinità”; e così pure il verbo shamar (custodire) indica sia il “custodire” in senso materiale, sia in senso spirituale l'“osservare i comandamenti divini”.
I nuovi pastori - annuncia Geremia - non avranno paura perché sapranno rendere il vero e puro culto a Dio e custodirne i comandamenti.
Per il profeta Geremia, infatti, la violazione e l’usurpazione del vero Culto a Dio e dei suoi Comandamenti è all’origine della caduta del Regno di Giuda.
L’ultima caratteristica dei nuovi pastori e, infine, per Geremia che pasceranno μετ’ ἐπιστήμης (met’epistémes), “scientia et doctrina”, con scienza e dottrina come traduce San Gerolamo.
Nella cultura ellenica l’ἐπιστήμη (epistéme) è distinta dalla δόξα (dòxa), l’opinione, dalla εἰκασία (eikasìa), l’immaginazione e dalla πίστις (pìstis), la credenza.
L’ἐπιστήμη (epistéme) è la conoscenza intelligibile, vale a dire scienza e conoscenza, che deriva da un’esperienza effettiva.
Nell’ebraico biblico non c’è, ovviamente, un termine astratto come quello di scienza o conoscenza ma è usato il più concreto verbo yada’ (יָדַע) che indica non la mera erudizione ma il sapere che deriva da una profonda visione interiore, che precede il vedere, ed è l’esito di una reale e intima relazione(1).
Il vertice della scienza nell’Antico Testamento è la “conoscenza di Dio” (דַּ֥עַת אֱלֹהִ֖ים – da’at ‘elohim), che consiste nel seguire le sue vie e vivere secondo la sua volontà (cfr. Osea 4, 6). Essa, poi, coincide e spiega cosa sia il “timore di Dio” (cfr. Proverbi 2, 5).
Questo concetto non astratto della “conoscenza di Dio”, come esperienza diretta e imprescindibile adesione personale alla sua volontà, è assai chiaro anche nella predicazione di Gesù.
“Gli disse Filippo: «Signore, mostraci il Padre e ci basta». Gli rispose Gesù: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre. Come puoi dire: Mostraci il Padre? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me; ma il Padre che è con me compie le sue opere. Credetemi: io sono nel Padre e il Padre è in me; se non altro, credetelo per le opere stesse”(Giovanni 14, 8-11)
“Voi siete miei amici, se farete ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l'ho fatto conoscere a voi” (Giovanni 15, 14-15).
La scientia et doctrina dei “pastori che pasceranno”, di cui parla Geremia, non è dunque una mera erudizione, ma un’esperienza personale e un’adesione totale e incondizionata al rivelarsi di Dio.
Facendo proprio riferimento all’annuncio del profeta Geremia e al testo giovanneo, al termine del Sinodo del 1992, scriveva San Giovanni Paolo II: “I presbiteri sono, nella Chiesa e per la Chiesa, una ripresentazione sacramentale di Gesù Cristo Capo e Pastore, ne proclamano autorevolmente la parola, ne ripetono i gesti di perdono e di offerta della salvezza, soprattutto col Battesimo, la Penitenza e l'Eucaristia, ne esercitano l'amorevole sollecitudine, fino al dono totale di sé per il gregge, che raccolgono nell'unità e conducono al Padre per mezzo di Cristo nello Spirito. In una parola, i presbiteri esistono ed agiscono per l'annuncio del Vangelo al mondo e per l'edificazione della Chiesa in nome e in persona di Cristo Capo e Pastore” (Pastores dato vobis, Esortazione Post-Sinodale, 25 marzo 1992, 15).
Sia per i presbiteri ma anche per i comuni battezzati, San Giovanni Paolo II indicava, poi, una precisa via di rinnovamento della Chiesa: “Per tutti i cristiani, nessuno escluso, il radicalismo evangelico è un'esigenza fondamentale e irrinunciabile, che scaturisce dall'appello di Cristo a seguirlo e ad imitarlo, in forza dell'intima comunione di vita con lui operata dallo Spirito. Questa stessa esigenza si ripropone per i sacerdoti, non solo perché sono nella Chiesa, ma anche perché sono di fronte alla Chiesa, in quanto sono configurati a Cristo Capo e Pastore, abilitati e impegnati al ministero ordinato, vivificati dalla carità pastorale” (Ibidem, 27).
Dall’inizio di questo sciagurato Pontificato, aggravato poi dal pandemonio pandemico di quest’ultimo anno, abbiamo invece assistito sgomenti alla trasformazione di larga parte del clero cattolico - anche negli ambienti più tradizionali, e questo fors’anche per timore di ritorsioni! - in spietati “padroni dei Sacramenti” e in “volonterosi carnefici”, manipolati dall’attuale caudillo argentino e dalla junta al suo permanente servizio.
Da un lato, si sopportano allegramente e noncuranti le gravissime esternazioni di Vescovi e chierici apertamente in contrasto con la Dottrina Cattolica e, anzi, si promuovo anche nella Curia Romana i loro epigoni come i novellatori di una fantomatica “chiesa in uscita” e “chiesa delle periferie esistenziali”.
Dall’altro, su presunte basi scientifiche ampiamente smentite, si infrangono i doveri stessi del Sacerdozio Cattolico nell’esercizio liturgico e si ledono i diritti fondamentali dei christifideles anche quando chiaramente ed espressamente sanciti in dottrina e diritto.
Accade, ormai sempre più frequentemente, di assistere a presbiteri che negano il “sacramento dei sacramenti” e il pharmacum immortalitatis non a pubblici peccatori o dissenzienti dai precetti fondamentali della Dottrina Cattolica (questo poi mai nella “chiesa della misericordia”!) ma a intere assemblee di fedeli che desiderano e chiedono ricevere l’Eucarestia nelle forme previste dalle vigenti normative liturgiche.
O ne umiliano la fede con la distribuzione dell’Eucarestia in forme clandestine, a ciò spinti da mai resi pubblici “ordini del Vescovo”, verso i quali - segno estremo della decadenza dottrinale e culturale del clero cattolico! - i più coraggiosi inviano “pie suppliche” perché ponga fine a ciò che ha imposto illegalmente e che de iure neppure appartiene alla potestà propria dei Vescovi.
“Nella distribuzione della santa Comunione è da ricordare che i ministri sacri non possono negare i sacramenti a coloro che li chiedano opportunamente, siano disposti nel debito modo e non abbiano dal diritto la proibizione di riceverli. Pertanto, ogni cattolico battezzato, che non sia impedito dal diritto, deve essere ammesso alla sacra comunione. Non è lecito, quindi, negare a un fedele la santa Comunione, per la semplice ragione, ad esempio, che egli vuole ricevere l’Eucaristia in ginocchio oppure in piedi” (Redemptionis Sacramentum, 91).
E, “ogni fedele ha sempre il diritto di ricevere, a sua scelta, la santa Comunione in bocca (Ibidem, 92).
Stiamo dolorosamente assistendo, invece, al diffondersi di prassi illegittime e contrarie che minano alla radice i diritti e doveri del corpo ecclesiale, dove “i fedeli hanno il diritto di ricevere dai sacri Pastori gli aiuti derivanti dai beni spirituali della Chiesa, soprattutto dalla parola di Dio e dai sacramenti” (Codex Iuris Canonici, can. 213) e dove “i ministri sacri non possono negare i sacramenti a coloro che li chiedano opportunamente, siano disposti nel debito modo e non abbiano dal diritto la proibizione di riceverli (Ibidem, can. 843).
Ovviamente, a giustificare questa alterazione dell’essenza stessa del tanto declamato “Popolo di Dio”, ma in ultima analisi della missione stessa affidata da Cristo alla Chiesa, si ricorre a richiamare la “situazione sanitaria” o il celebre “Protocollo”, stoltamente firmato dalla Conferenza Episcopale con l’ex detentore dell’ormai democratura italiana.
In quel Protocollo, che per la Legge Generale della Chiesa, è nullo e dunque inefficace, tuttavia, si legge solo che “il celebrante e l’eventuale ministro straordinario […] abbiano cura di offrire l’ostia senza venire a contatto con le mani dei fedeli” (Protocollo circa la ripresa delle celebrazioni col popolo, 3. 4).
Come da questa indicazione sia stato possibile evincere una prescrizione della ricezione della Santa Comunione secondo la normativa liturgica vigente, “perché pericolosa”, risulta totalmente irrazionale.
In realtà, l’occasione è stata scientemente sfruttata da molti Vescovi per sradicare non solo una prassi liturgica millenaria ma per dare il colpo di grazia a quel che resta del sensus fidei communis del buon Popolo di Dio nel Mistero della Santissima Eucarestia.
“Vae autem vobis, quia clauditis regnum caelorum ante homines! Vos enim non intratis nec introeuntes sinitis intrare”, “Guai a voi, - ripeterebbe oggi il Divino Maestro - che chiudete il regno dei cieli davanti agli uomini. Voi non vi entrate e non lasciate entrare nemmeno coloro che vorrebbero entrarci!” (Matteo 23, 13).
Non si tratta di un’accusa infondata ma sempre più manifesta in questo triste Pontificato che ha favorito il crescere a dismisura del più bieco clericalismo, dove Dottrina e Sacramenti, diventano la “cosa nostra” di molti Pastori.
Una “mafia”, come quella ormai ben nota di San Gallo, mortifera per la Fede Apostolica, dove gli “apostoli” non sono più i custodi della Fede Cattolica, ma gangster spietati del loro capriccio e - come direbbe Benedetto XVI - dello Zeitgeist, dello spirito di questo nostro ben triste tempo.
Gian Pietro Caliari________________________
Nota di Chiesa e post-concilio
1. Nella lingua ebraica il significato di ogni termine, desunto dalla radice, acquista sfumature diverse a seconda del contesto. Da quel che mi si è stampato nel cuore dai miei studi di ebraico pesco e condivido quanto segue. Tra i vari significati del verbo yada’ (יָדַע) che designa :
“conoscere [qualcuno o qualcosa, in senso assoluto]” (Is 1,3), rendersi conto di [in senso assoluto] (Lv 5,3), notare / porre attenzione (Rut 3,4), fare esperienza di (Is 47,8), occuparsi di (Gn 39,6), comprendere (Is 6,9), constatare (1Re 20,7), riconoscere [che] (Es 6,7), essere sapiente (Ec 9,11), sapere o essere specializzati in qualcosa (Am 5,16; 1Re 9,27; 1Sam 16,18)
c'è anche quello che corrisponde al praticare i rapporti intimi tra coniugi. E non può non designare anche il rapporto intimo e profondo del Signore con l'anima fedele e con la Sua Chiesa, il Suo corpo mistico... Non servono - anzi mancano o piuttosto sono indicibili - parole per descrivere; ma serve un profondo e delicato senso di timore misto a confidenza per accogliere la realtà che ci rivela.
“conoscere [qualcuno o qualcosa, in senso assoluto]” (Is 1,3), rendersi conto di [in senso assoluto] (Lv 5,3), notare / porre attenzione (Rut 3,4), fare esperienza di (Is 47,8), occuparsi di (Gn 39,6), comprendere (Is 6,9), constatare (1Re 20,7), riconoscere [che] (Es 6,7), essere sapiente (Ec 9,11), sapere o essere specializzati in qualcosa (Am 5,16; 1Re 9,27; 1Sam 16,18)
c'è anche quello che corrisponde al praticare i rapporti intimi tra coniugi. E non può non designare anche il rapporto intimo e profondo del Signore con l'anima fedele e con la Sua Chiesa, il Suo corpo mistico... Non servono - anzi mancano o piuttosto sono indicibili - parole per descrivere; ma serve un profondo e delicato senso di timore misto a confidenza per accogliere la realtà che ci rivela.
Nel giorno in cui si ricorda l'istituzione della SS. Eucarestia del Sacerdozio cattolico per mano di Nostro Signore, preghiamo molto per i preti indegni, per i frati alla moda, per i vescovi eretici, per i cardinali atei, affinchè il Signore apra loro gli occhi che nemmeno innanzi al castigo divino, rappresentato da questi calamitosissimi tempi, vedono con gli occhi di una fede che hanno perso da tempo (se pur l'hanno mai avuta), di una speranza fallace che porta soltanto al nulla, di una finta carità che è stata ormai sostituita da un filantropismo che nemmeno gli scientisti d'un tempo nutrivano in modo così patetico (cit.)
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