Vedi l'indice degli articoli sulla realtà distopica, tra cui diversi di Agamben. Dov'è finito il supplemento d'anima che permeava la società un tempo cristiana, dove non mancavano i germi della dissoluzione, ma c'era l'antidoto di una Presenza che siamo rimasti in pochi ad invocare?
Il complice e il sovrano
Vorrei condividere con voi alcune riflessioni sulla situazione politica estrema
che abbiamo vissuto e dalla quale sarebbe ingenuo credere di essere usciti o
anche soltanto di poter uscire. Credo che anche fra di noi non tutti si siano
resi conto che quel che abbiamo di fronte è più e altro di un flagrante abuso
nell’esercizio del potere o di un pervertimento – per quanto grave – dei
principi del diritto e delle istituzioni pubbliche. Credo che ci troviamo
piuttosto di fronte una linea d’ombra che, a differenza di quella del romanzo di
Conrad, nessuna generazione può credere di poter impunemente scavalcare. E se un
giorno gli storici indagheranno su quello che è successo sotto la copertura
della pandemia, risulterà, io credo, che la nostra società non aveva forse mai
raggiunto un grado così estremo di efferatezza, di irresponsabilità e, insieme,
di disfacimento. Ho usato a ragione questi tre termini, legati oggi in un nodo
borromeo, cioè un nodo in cui ciascun elemento non può essere sciolto dagli
altri due. E se, come alcuni non senza ragione sostengono, la gravità di una
situazione si misura dal numero delle uccisioni, credo che anche questo indice
risulterà molto più elevato di quanto si è creduto o si finge di credere.
Prendendo in prestito da Lévi-Strauss un’espressione che aveva usato per
l’Europa nella seconda guerra mondiale, si potrebbe dire che la nostra società
ha «vomitato se stessa». Per questo io penso che non vi è per questa società una
via di uscita dalla situazione in cui si è più o meno consapevolmente confinata,
a meno che qualcosa o qualcuno non la metta da cima a fondo in questione.
Ma non è di questo che volevo parlarvi; mi preme piuttosto interrogarmi insieme
a voi su quello che abbiamo fatto finora e possiamo continuare a fare in una
tale situazione. Io condivido infatti pienamente le considerazioni contenute in
un documento che è stato fatto circolare da Luca Marini quanto all’impossibilità
di una rappacificazione. Non può esservi rappacificazione con chi ha detto e
fatto quello che è stato detto e fatto in questi due anni.
Non abbiamo davanti a noi semplicemente degli uomini che si sono ingannati o
hanno professato per qualche ragione delle opinioni erronee, che noi possiamo
cercare di correggere. Chi pensa questo s’illude.
Abbiamo di fronte a noi qualcosa di diverso, una nuova figura dell’uomo e del
cittadino, per usare due termini familiari alla nostra tradizione politica. In
ogni caso, si tratta di qualcosa che ha preso il posto di quella endiadi e che
vi propongo di chiamare provvisoriamente con un termine tecnico del diritto
penale: il complice – a patto di precisare che si tratta di una figura speciale
di complicità, una complicità per così dire assoluta, nel senso che cercherò di
spiegare.
Nella terminologia del diritto penale, il complice è colui che ha posto in
essere una condotta che di per sé non costituisce reato, ma che contribuisce
all’azione delittuosa di un altro soggetto, il reo. Noi ci siamo trovati e ci
troviamo di fronte a individui – anzi a un’intera società – che si è fatta
complice di un delitto il cui il reo è assente o comunque per essa innominabile.
Una situazione, cioè, paradossale, in cui vi sono solo complici, ma il reo
manca, una situazione in cui tutti – che si tratti del presidente della
Repubblica o del semplice cittadino, del ministro della salute o di un semplice
medico – agiscono sempre come complici e mai come rei.
Credo che questa singolare situazione possa permetterci di leggere in una nuova
prospettiva il patto hobbesiano. Il contratto sociale ha assunto, cioè, la
figura – che è forse la sua vera, estrema figura – di un patto di complicità
senza il reo – e questo reo assente coincide con il sovrano il cui corpo è
formato dalla stessa massa dei complici e non è perciò altro che l’incarnazione
di questa generale complicità, di questo essere com-plici, cioè piegati insieme,
di tutti i singoli individui.
Una società di complici è più oppressiva e soffocante di qualsiasi dittatura,
perché chi non partecipa della complicità – il non-complice – è puramente e
semplicemente escluso dal patto sociale, non ha più luogo nella città.
Vi è anche un altro senso in cui si può parlare di complicità, ed è la
complicità non tanto e non solo fra il cittadino e il sovrano, quanto anche e
piuttosto fra l’uomo e il cittadino. Hannah Arendt ha più volte mostrato quanto
la relazione fra questi due termini sia ambigua e come nelle Dichiarazioni dei
diritti sia in realtà in questione l’iscrizione della nascita, cioè della vita
biologica dell’individuo, nell’ordine giuridico-politico dello Stato nazione
moderno.
I diritti sono attribuiti all’uomo soltanto nella misura in cui questi è il
presupposto immediatamente dileguante del cittadino. L’emergere in pianta
stabile nel nostro tempo dell’uomo come tale è la spia di una crisi irreparabile
in quella finzione dell’identità fra uomo e cittadino su cui si fonda la
sovranità dello stato moderno. Quella che noi abbiamo oggi di fronte è una nuova
configurazione di questo rapporto, in cui l’uomo non trapassa più
dialetticamente nel cittadino, ma stabilisce con questo una singolare relazione, nel senso che, con la natività del suo corpo, egli fornisce al cittadino la
complicità di cui ha bisogno per costituirsi politicamente, e il cittadino da
parte sua si dichiara complice della vita dell’uomo, di cui assume la cura.
Questa complicità, lo avrete capito, è la biopolitica, che ha oggi raggiunto la
sua estrema – e speriamo ultima – configurazione.
La domanda che volevo porvi è allora questa: in che misura possiamo ancora
sentirci obbligati rispetto a questa società? O se, come credo, ci sentiamo
malgrado tutto in qualche modo ancora obbligati, secondo quali modalità e entro
quali limiti possiamo rispondere a questa obbligazione e parlare
pubblicamente?
Non ho una risposta esauriente, posso soltanto dirvi, come il poeta, quel che so
di non poter più fare.
Io non posso più, di fronte a un medico o a chiunque denunci il modo perverso in
cui è stata usata in questi due anni la medicina, non mettere innanzitutto in
questione la stessa medicina. Se non si ripensa da capo che cosa è
progressivamente diventata la medicina e forse l’intera scienza di cui essa
ritiene di far parte, non si potrà in alcun modo sperare di arrestarne la corsa
letale. Io non posso più, di fronte a un giurista o a chiunque denunci il modo
in cui il diritto e la costituzione sono stati manipolati e traditi, non
revocare innanzitutto in questione il diritto e la costituzione. È forse
necessario, per non parlare del presente, che ricordi qui che né Mussolini né
Hitler ebbero bisogno di mettere in questione le costituzioni vigenti in Italia
e in Germania, ma trovarono anzi in esse i dispositivi di cui avevano bisogno
per istaurare i loro regimi? È possibile, cioè, che il gesto di chi cerchi oggi
di fondare sulla costituzione e sui diritti la sua battaglia sia già sconfitto
in partenza. Se ho evocato questa mia duplice impossibilità, non è infatti in
nome di vaghi principi metastorici, ma, al contrario, come conseguenza
inaggirabile di una precisa analisi della situazione storica in cui ci troviamo.
È come se certe procedure o certi principi in cui si credeva o, piuttosto, si
fingeva di credere avessero ora mostrato il loro vero volto, che non possiamo
omettere di guardare. Non intendo con questo, svalutare o considerare inutile il
lavoro critico che abbiamo svolto finora e che certamente anche oggi qui si
continuerà a svolgere con rigore e acutezza. Questo lavoro può essere ed è
senz’altro tatticamente utile, ma sarebbe dar prova di cecità identificarlo
semplicemente con una strategia a lungo termine. In questa prospettiva molto
resta ancora da fare e potrà essere fatto solo lasciando cadere senza riserve
concetti e verità che davamo per scontati. Il lavoro che ci sta davanti può
cominciare, secondo una bella immagine di Anna Maria Ortese, solo là dove tutto
è perduto, senza compromessi e senza nostalgie. (Giorgio Agamben -
Fonte)
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