venerdì 9 dicembre 2022

Il vicolo cieco del conservatorismo

1. È identico pensare ed agire da conservatore, e pensare ed agire da cattolico? L’impostazione conservatrice e quella tradizionale si identificano? Che cosa distingue il conservatore da chi ama i principi perenni? La conservazione, come tale, è un criterio per se stessa, oppure il conservare è giudicato dal suo oggetto? Sono solo alcune tra le domande che si affacciano, allorché si cerca di uscire dalle maglie di un linguaggio approssimativo e di evitare equivoci ed errori, esiziali tanto per la conoscenza quanto per l’azione.

Si tratta di un problema che si è riproposto molte volte, a partire dai tornanti epocali che hanno visto le grandi trasformazioni imposte dalle rivoluzioni moderne, e particolarmente di fronte agli esiti della Rivoluzione francese. La questione si profilò istantemente – non nei suoi termini formali, ma nella sua sostanza – dopo la sconfitta di Napoleone a Waterloo, e la susseguente Restaurazione. L’interrogativo che affiora (e si ripropone di frequente) si potrebbe formulare in questi termini: allorquando la rivoluzione è in difficoltà o è arrestata, quale strada percorrere per superala non solo negli effetti, ma anche nelle cause? Di conseguenza, cosa pensare e come fare per risanare quello che è stato alterato forzosamente?

Il Congresso di Vienna scelse la strada della conservazione, piuttosto che quella della tradizione. La Restaurazione, infatti, conservò ampia parte degli ordinamenti napoleonici, mantenne nei ranghi già occupati le classi dirigenti civili e militari insediate dai regimi filofrancesi, fece proprie molte modifiche territoriali imposte dall’espansionismo rivoluzionario. Così, generalmente, si comportarono i re, una volta tornati sui rispettivi troni. La “politica dell’amalgama”, intrapresa dal ministro de’ Medici, ed avallata da Ferdinando I, nel Regno delle due Sicilie, ne costituisce, a suo modo, un caso esemplare. La volontà di conservare l’esistente, rese il ritorno all’ordine precedente, in ampia misura, solo apparente, e pose le premesse dei successivi rovesci.

Tale impianto fu (variamente) oggetto di critica da parte di autori come il principe di Canosa, Antonio Capece Minutolo, il conte Monaldo Leopardi, il conte Clemente Solaro della Margarita. Ne riprovarono il modello, ne mostrarono gli errori, ne indicarono la radice degli insuccessi. Conservando il passato prossimo (assolutistico o napoleonico), non si tornava alla tradizione, piuttosto si consolidava la rivoluzione – nei suoi esiti e nei suoi uomini – e si ponevano le premesse per la ripresa dei fermenti rivoluzionari e per l’indebolimento degli assetti politici, che pur si dichiarava di volere salvaguardare.

2. Se ci si sofferma a considerare la tipologia dell’atteggiamento conservatore, ci si accorge, già a prima vista, che esso tende a ritenere un fatto come un valore. Inclina, cioè, a preferire l’esistente in quanto esistente (apprezzato e difeso) e perciò un certo potere, in quanto effettivo. Tra chi vanta una legalità (positivisticamente intesa) e chi pone il problema della legittimità, la mens conservatrice esprime una sintonia col primo, piuttosto che prendere in considerazione il dilemma posto dal secondo. Analogamente, tra l’ordinamento vigente e l’esigenza della giustizia, il conservatorismo (generalmente) si adatta al primo, piuttosto che schierarsi per la seconda. Come potrebbe essere rappresentato dal dialogo sofocleo tra Creonte ed Antigone: in fondo il tiranno, richiamando all’osservanza dei suoi precetti (“umani editti”) invoca la conservazione di un assetto normativo, mentre Antigone lo contesta appellandosi ad una normatività superiore (le “leggi divine”), cioè a principi che trascendono e giudicano ogni potere.

La fenomenologia del conservatorismo si manifesta in una serie di atti e di tesi, che ne fissano alcuni tratti ricorrenti ed alcuni approdi rivelativi. È tipico del conservatore adottare come criterio il “cedere per non perdere”, salvo verificare successivamente, suo malgrado, che il cedimento stesso è stato il presupposto per la sconfitta (nonostante ogni intento contrario). Altresì, il conservatorismo si concreta (sovente) nell’opzione per il “male minore”, così nonostante ogni diversa intenzione, finisce per accettare e per consolidare il male, piuttosto che sostituirvi il bene (auspicato). D’altronde, il conservatore appare ipotecato dal timore dell’instabilità, dell’anarchia o del caos, al punto da ritenere preferibile un assetto istituzionale ritenuto (nel complesso) iniquo, rispetto ad una sua eventuale sua contestazione.

Fa da sfondo a tali quadri (teorico-pratici) – implicitamente o esplicitamente – una sorta di “debolezza spirituale”, che pone tra parentesi le grandi questioni di principio. Su questa premessa, viene ammesso che “i nemici di ieri sono gli alleati di oggi”, e teorizzato che le istituzioni nate dalla Rivoluzione (francese) e quanto ne consegue, nel processo di cui questa è parte, vadano esse stesse conservate, siano pienamente vincolanti o risultino apprezzabili in se medesime.

Tale attitudine presuppone (più o meno consapevolmente) la convinzione dell’irreversibilità della storia, ovvero del suo percorso univoco ed orizzontale. Per cui si potrebbe registrare solo un movimento “in avanti” o “all’indietro” (non “verso l’alto” o “verso il basso”). Il tempo stesso, nella sua successione, giunge ad essere assunto come veicolo di incremento qualitativo. Talché, successivamente ad una trasformazione rivoluzionaria, ogni “ritorno all’ordine” sarebbe impossibile (operativamente) od improponibile (teoricamente). Occorrerebbe, quindi, limitarsi ad evitare gli eccessi della prassi rivoluzionaria, esigendo tutt’al più il rispetto di determinati “valori” (come tali, inevitabilmente astratti).

3. Se si ricerca l’essenza del conservatorismo, considerato in se medesimo, non è arduo scorgere in esso una categoria del liberalismo. Come tale, esso costituisce un’ideologia, e non si confonde con il naturale spirito di conservazione del bene (e di tutto ciò che ne partecipa). Propriamente, cioè, si tratta di un punto di vista assolutizzato, non della responsabilità della custodia o della tendenza razionale a perseverare in ciò che è noto come valido.

Nel quadro del liberalismo, il conservatorismo intende sottrarre qualcosa al campo dell’opinabilità. Di fronte al convenzionalismo liberale, il conservatore ha l’obiettivo di “mettere al riparo” dalla possibilità di annichilimento (per via normativa, amministrativa o giudiziaria) qualche bene. Mira a stabilizzare le fluttuazioni inevitabili del sistema, facendosi sostenitore di un ancoraggio (in certo senso, inconcusso). In tal modo, però, incorre in una aporia esiziale: da un lato, accoglie il primato dell’opinione, e dall’altro lo esclude; o viceversa, sotto un versante difende alcuni beni come indipendenti da ogni volere, e sotto un altro accetta l’istituzionalizzazione del primato della libertà (quale criterio a se medesima).

Tipizzando l’esperienza storica, si può osservare che il conservatorismo costituisce la sostanza della Rivoluzione nella sua fase napoleonica. Infatti, una volta insediatasi al potere, la Rivoluzione fa appello alla conservazione (di se medesima), per consolidare quanto acquisito, per stabilizzare gli assetti che ha determinato, e per evitare eventuali ulteriori sussulti. Anzi, proprio avvertendo il pericolo di soccombere (di fronte all’inevitabile reazione), la rivoluzione vincente si presenta come portatrice di ordine e di pacificazione, ovviamente dell’ordine prodotto dalla rivoluzione. Offre agli antichi avversari la possibilità di una convivenza non conflittuale, ma alle proprie condizioni e nell’ambito dei propri ordinamenti.

In definitiva, il conservatorismo corrisponde alla pretesa di cristallizzare il processo rivoluzionario in una sua fase determinata, ignorandone o trascurandone la sua dinamica intrinseca. A ben vedere, si concreta nell’adesione alla parte perdente della rivoluzione stessa, quella cioè antecedente e “superata” dal suo successivo radicalizzarsi. Per lo più, fa proprio il liberalismo cristallizzato nella sua versione meno coerente con le premesse, travolta (storicamente) dal suo svolgimento nel democratismo e nel libertarismo. Con ciò, il conservatorismo presume di poter trovare una mediazione tra il primato dell’essere ed il primato del divenire. Ma tale mediazione, ancorché impossibile sotto il profilo teoretico, si appalesa viepiù illusoria sotto il profilo operativo. In questo quadro, il conservatorismo confonde ovvero assimila nozioni e realtà del tutto distinte, come quelle di potere e di autorità, o di organizzazione e di ordine.

Il conservatore, quindi, finisce per mirare a perpetuare un ordinamento particolare, senza obiettivamente trascenderlo. Lo difende a fondo senza valutarlo fino in fondo. Il suo orientamento epistemico, piuttosto che realistico, è empiristico.

Insomma, il conservatorismo si rivela come il “binario morto” su cui si esaurisce la reazione al sovvertimento programmatico, o il “vicolo cieco” che neutralizza (obiettivamente) l’opposizione alle trasformazioni rivoluzionarie. Esso, piuttosto che la premessa, costituisce “l’equivoco capitale” rispetto alla controrivoluzione (dal punto di vista tanto intellettuale quanto operativo). A maggior ragione, il conservatorismo risulta (obiettivamente ed al di là delle intenzioni) la “contraffazione radicale” della tradizione (intesa nel suo significato assiologico).

4. Una pur concisa analisi fa emergere che l’impostazione conservatrice è inconfondibile con la fondazione (del giudizio e dell’azione) nella tradizione. Questa richiede una valutazione, sulla base della quale distinguere l’accidentale e l’essenziale, il caduco ed il pregiato, il ripetitivo ed il tradizionale. Dove il secondo termine è il criterio del primo, e non viceversa. Sicché il primo va fa fatto oggetto di un discernimento selettivo, e giunge a rivelarsi (per se stesso) solo il simulacro del secondo.

Pensare la tradizione significa fare agio sul primato dell’essere, della contemplazione e della finalità, quindi sul primato dell’intelligenza, della verità e del bene. Al contempo, presuppone il vaglio dell’esperienza e la priorità noetica del “senso comune”, cioè dell’apprensione primaria della realtà (nei suoi diversi aspetti) e della natura delle cose.

La tradizione autentica (in qualsivoglia ambito, da quello politico a quello giuridico, da quello artistico a quello letterario) consegna ciò che vale, ciò che dura, ciò che resta, non ciò che prevale, ciò che era, o ciò che passa. In quanto trattiene il permanente nel transeunte, il più elevato nel più comune.

Si intende, quindi, che la tradizione non consiste nell’imitazione del già accaduto, o nella ipostatizzazione del passato. Essa piuttosto si sostanzia nella capacità di fare tesoro del legato di verità e di beni, di acquisizioni e di perfezioni. Perciò, piuttosto che un residuo vagheggiato (secondo una anteriorità orizzontale) costituisce un pegno fondato di speranza (per la sua elevatezza verticale).
Giovanni Turco - Fonte

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