Questa mentalità, radicalmente contraria alla fede, si diffonde tra i fedeli e persino tra i pastori. Si parla tanto di fede come relazione viva con Dio, ma è una menzogna: per noi Dio esiste nella misura in cui ci è utile ed è vivo nella misura in cui noi vogliamo che lo sia. Si parla tanto di ascoltare lo Spirito Santo, ma è una menzogna: siamo noi che parliamo, noi che proclamiamo e poi diciamo: “Lo vuole lo Spirito Santo!”. Stiamo diventando atei, stiamo rifiutando Dio e nemmeno ce ne accorgiamo, anzi, crediamo di essere al passo coi tempi.
In questo quadro fosco, in cui le tenebre sembrano invincibili, Dio continua però a permanere stabile. Al di là dei nostri errori e della nostra apostasia, Egli è. Semplicemente è. Le nostre aberrazioni, per quanto orribili, sono raglio d’asino che non arriva in cielo. Anche se volessimo distruggerlo, Dio è fuori della nostra disponibilità. Dio permane sempre lo stesso, Alfa e Omega, sempre lo stesso, ieri, oggi e sempre. Dio è immenso, eterno, onnipotente, onnisciente: continua ad esserlo. In un istante Dio ha creato miliardi di galassie: come posso pensare che la fragilità dell’uomo, in un sasso lanciato nel cosmo, possa scalfire la Sua gloria? Eppure, le tenebre esistono, ma non in Dio: esistono nel cuore degli uomini che lo rifiutano e si ostinano a preferire le tenebre alla luce. Questa luce, se lo voglio, se lo chiedo, è sempre con me: nessuno mi può strappare dalla mano di Dio. Sono suo. Solo il mio peccato mi può uccidere: ma dipende da me, perché neppure il demonio può uccidere la mia anima, se io non lo voglio. Può strapparmi il corpo, ma non il santuario intimo del cuore.
E se le tenebre si diffondono, se talvolta siamo sconsolati, se persino il mio pastore talvolta pare cedere alle tenebre, allora devo io accendere la luce. Certo, le tenebre mi sconsolano, mi rattristano, talvolta mi turbano, ma è un attimo. Se Dio è con me, come posso essere sempre triste? La Sua gioia mi pervade ed è la gioia di sapere che Egli è con me, anche nel momento della croce, soprattutto mentre soffro. Lui mi guarda, io incontro il Suo sguardo e questo mi basta. Il soffio gentile dello Spirito di Dio nella mia anima è sufficiente a superare ogni sofferenza, anche la più atroce. Posso lamentarmi? Certo, ma soprattutto far splendere sul candelabro la fiaccola della fede. Il mio fratello non l’accende? Il mio pastore non l’accende? Non importa, l’accenderò io. Facendo catechismo? Anche. Ma soprattutto essendo trasparenza di Dio, permettendo a Dio di usarmi per far risplendere la Sua gloria nel mondo. Facendo sì che la mia povera vita, così insignificante per il mondo, diventi testimonianza che Dio continua ad esistere, che è il Vivente e che neppure la peggior persecuzione potrà spegnere questa luce.
Don Divo Barsotti nel 1977 ricevette una locuzione interiore dal Signore: “Ti ho affidato tutta la Chiesa”. Sembra un assurdo: non è qualcosa che compete al Papa, piuttosto? Eppure, diceva don Divo, questa parola vale per me e vale per tutti. Certo, io non ho i poteri del Papa e non devo sostituirlo, ma partecipo – nella mia condizione – alla cura di tutta quanta la Chiesa. E come? Unendomi a Cristo, facendo in modo che in me risplenda la Sua presenza salvifica, abbandonandomi a Dio. Così fece la Vergine santissima, così per ognuno. Posso vivere sconosciuto da tutti, anzi disprezzato, persino dai miei fratelli. Non ho potere, non ho influenza, non ho nulla, sono un nulla. Ma ho Dio, possiedo Dio e in Dio tutto posso ed Egli può tutto in me. Tutto si basa sul fuoco incandescente del nostro amore, mio e suo: quest'amore ci unisce in modo indissolubile. E la mia fede è testimonianza della mia passione per Lui e della Sua per me.
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La Chiesa Cattolica, sotto certi aspetti, sembra vivere ancora come se sussistesse un regime di cristianità. Ecco così una certa visione burocratizzata della fede (chi non fa figli fa fogli...), in cui predomina la fase amministrativa (a tutti i livelli, a partire da quello parrocchiale); ecco anche certi rapporti (diciamo meglio: compromessi) col potere politico; ecco l'idea di "battezzare la modernità" che si è tramutata (curiosa eterogenesi dei fini...) nello sbattezzo di ampie fette della Chiesa. Questa tentazione è ancora più forte nel mondo "tradizionalista": affezionarsi a certe forme esteriori non strettamente liturgiche (penso a tiare e sedie gestatorie) che finisce col rappresentare un rifiuto della realtà attuale. Intendiamoci: non si tratta di essere pauperisti, ma piuttosto di riconoscere che quella realtà (cristianità diffusa) da cui questi simboli originavano e giungevano a noi non esiste più. Siamo sentimentalmente ancora legati al Papa-re, all'alleanza trono-altare: e sono state fasi importanti della storia del cattolicesimo. Ma ora quei periodi, buoni o cattivi che fossero, non sono più. Occorre prenderne atto. Altrimenti l'amore alla Tradizione diventa niente di più che una mascherata di laudatores temporis acti, qualcosa che si avvicina più alle rievocazioni in costume tipico piuttosto che alla fede cattolica.
Questo vale anche per alcune questioni più delicate. Penso ad esempio al fatto che negli Stati Uniti nel mondo cattolico vi sia un certo dibattito perché alcuni fedeli (che si definiscono promotori dell' "integralismo cattolico", https://thejosias.com/) intendono promuovere la trasformazione della società americana in uno Stato confessionale cattolico, secondo la tradizione ottocentesca (mi pare rifacendosi soprattutto a Pio IX e Leone XIII). Ora, prima ancora che vero-falso, qui mi pare siamo vicini a qualcosa di irreale. In una società - quella americana - sempre più atea, anticlericale, anticattolica; in cui i cattolici sono minoranza (circa il 22% della popolazione); in cui, di questi, solo una sparuta minoranza aderisce alle tesi di questo "integralismo"; in una Chiesa il cui papa è Francesco; in cui i vescovi sono alieni a questo "integralismo"; ecco, in questo contesto, che senso ha spendersi a promuovere un ritorno a forme ottocentesche? Ripeto: prima ancora che vero-falso, ci si dovrebbe chiedere se è reale-irreale.
Ho anche visto che de Mattei ha scritto una difesa dell'ultramontanismo. Ora, personalmente sono convinto che finché il tradizionalismo non riuscirà a staccarsi da questo tipo di mentalità (senza voler condannare l'ultramontanismo in ciò che di buono ha fatto), finirà coll'essere sempre e necessariamente un fenomeno piuttosto aleatorio, ridotto, più folkloristico che incisivo. Come si può testimoniare Cristo facendo finta di essere ancora nel 1950 o nel 1870? Così la Tradizione diventa una maschera, un copione da recitare, un mondo fiabesco e illusorio in cui rifugiarsi, magari in modo apocalittico, attendendo solo la Parusia.
Penso occorra vivere appieno la fede cattolica, in ogni suo iota, ma non cadere nell'errore di pensare che ogni iota di ciò che ci è giunto sia semplicemente intoccabile: non si può equiparare il dogma ad una mero costume ecclesiastico, oppure comparare la liturgia con il linguaggio (come se per essere tradizionalisti occorresse scrivere in italiano ottocentesco).
Questo è doloroso, perché pare di dover cedere a quei novatori che da decenni dominano nella Chiesa. Ma penso occorra accettare che, se occorre rifiutare il neoterismo, non si può pensare di opporgli un'immobilità assoluta, che finisce con svuotare la Tradizione della sua forza viva, del suo essere rivelazione del Dio vivente.
L'altro giorno ho scritto della necessità di rispettare e trasmettere la Tradizione nelle piccole cose, nei piccoli gesti, inverandoli. E' un'esigenza evangelica (Mt 5,19). Però - questo credo sia il punto - non tutto è Tradizione, perché se tutto è Tradizione, nulla è Tradizione. Occorre fare come il buon tomista: raro concedere, numquam negare, semper distinguere. (Cristiano Andreatta)
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