È desiderio di S.E. Rev.ma Mons. Mario Oliveri
+Mario Oliveri, Vescovo Emerito di
Albenga - Imperia
Intervento del Vescovo, I parte:
Presentazione del Motu Proprio “Summorum Pontificum”
La riflessione che abbiamo compiuto questa mattina sulla natura immutabile della Liturgia rende facile ed agevole la comprensione del significato e del valore del Motu Proprio Summorum Pontificum circa la celebrazione della Santa Messa in forma ordinaria secondo la riforma del Messale promulgata dal Papa Paolo VI, ed in forma straordinaria secondo il Messale del 1962 di Giovanni XXIII, che ha apportato semplici variazioni rispetto al Messale di San Pio V, o meglio, che ha introdotto le variazioni avvenute sotto il Pontificato di Pio XII. Il significato ed il valore - a mio giudizio di fondamentale importanza - del Motu Proprio di Benedetto XVI consiste nell’aver ricordato, implicitamente e sebbene non expressis verbis che la riforma liturgica, voluta e chiesta dalla Costituzione Conciliare Sacrosanctum Concilium, e quindi attuata sotto il Pontificato di Papa Paolo VI, non ha mutato la natura o la sostanza della Divina Liturgia, non ha toccato - non ha voluto farlo né lo poteva fare - ciò che appartiene all’essenza del Divin Sacrificio della Santa Messa: intatta è rimasta la Santa Messa in ciò che essa è per istituzione divina, intatta è rimasta la sua natura sacrificale (di vero Sacrificio, di vera ri-presentazione sacramentale del Sacrificio del Calvario, come anticipato da Cristo stesso nell’Ultima Cena, della Santa Cena sacrificale di Cristo con i suoi Discepoli, con quelli che Egli aveva scelti perché fossero i suoi Apostoli, con coloro che per sua volontà aveva chiamati a diventare capaci di rendere presente il Mistero di Cristo Salvatore, nel tempo e nello spazio, donec veniat, fino al compimento del Regno.
Intatto dunque, è del tutto indispensabile affinché si realizzi sacramentalmente il sacrificio di Cristo, è rimasto il ministero voluto dal Signore Gesù, il ministero del Sacerdozio santo, partecipazione del suo Sacerdozio, attraverso il quale soltanto può rendersi presente il Mistero di Cristo, può costituirsi la Nuova ed Eterna Alleanza, può costituirsi il Popolo della Nuova ed Eterna Alleanza, può attuarsi il culto spirituale gradito a Dio.
Intatta, la riforma liturgica, ha lasciato la necessità che tutti i riti ed i segni liturgici manifestino il vero contenuto e la vera natura di ogni autentica azione liturgica, manifestino cioè che la Liturgia, ed in maniera eminente e suprema la Santa Messa, è azione di Cristo, è azione che avviene per mezzo del ministero sacerdotale, è azione tutta rivolta a Dio, alla Trinità Santissima, è azione che prende tutti coloro che rigenerati dalla Grazia della Redenzione diventano capaci di diventare, in Cristo, offerta gradita al Padre, diventano addirittura oggetto del compiacimento del Padre (il Quale pone nel Figlio tutto il suo compiacimento, compiacimento che si riversa su tutti quelli che sono del Figlio, che sono di Cristo). Chi potrebbe ragionevolmente negare che tutte queste caratteristiche emergevano con evidenza nella Celebrazione della Divina Liturgia prima della riforma liturgica? Sono esse diventate meno evidenti con la riforma liturgica? Se qui e là è, ahimè, avvenuto non è certamente in forza della volontà del Concilio e dell’Autorità della Sede di Pietro che ha approvato la riforma liturgica, ma è perché l’interpretazione e l’applicazione concreta delle variazioni generate dalla riforma liturgica, qui e là, da parte di non pochi, non sono state attuate secondo la lettera, né secondo la mens della Costituzione Conciliare, sono avvenute sotto l’influsso e la spinta di una visione liturgica incompleta e talvolta anche errata (quasi come se si fosse davvero cambiata la concezione di che cosa è la Liturgia, di che cosa è la Santa Messa). Non ha forse dovuto il Papa Giovanni Paolo II, con l’Enciclica Ecclesia de Eucharistia (2003) richiamare con forza il carattere sacrificale della Santa Messa, la verità della mirabile transustanziazione, e quindi della verità della presenza nell’Eucaristia, vera, reale e sostanziale del vero Corpo e del vero Sangue di Cristo, dunque di Gesù Cristo vivo e vero, dunque del suo vero Sacrificio, dunque del vero Pane di Vita eterna?
Per quale ragione, secondo la vera riforma liturgica, sarebbe - per esempio - diventato necessario celebrare anche la parte più specificamente eucaristica della Santa Messa, cioè la parte consacratoria e sacrificale, in modo che il Sacerdote celebrante abbia il volto verso l’assemblea? In base a quale giustificazione, di testi conciliari e post-conciliari, chi avesse continuato a celebrare quella parte della Messa non rivolto al popolo veniva considerato di agire contro la riforma del Concilio? Se pertanto la riforma liturgica non può essere espressiva di cambiamento di fede e di dottrina (circa il Sacrificio della Messa, circa la vera natura della Liturgia, circa la differenza essenziale del Sacerdozio ministeriale dal sacerdozio battesimale o comune a tutti i fedeli, a tutto il Popolo di Dio, circa l’adorazione dovuta all’Eucaristia nella celebrazione e fuori della celebrazione, circa - in una parola - a tutto ciò che la Chiesa ha creduto, professato ed insegnato sino al Concilio Vaticano II). se la riforma liturgica non può essere espressiva di cambiamento radicale e sostanziale. allora è legittimo e doveroso chiedersi e ben comprendere qual è il fine per cui il Concilio Vaticano II ha voluto la riforma liturgica, ha voluto che ai riti, all’insieme dei segni e delle azioni liturgiche, fossero apportate delle variazioni (variazioni non sostanziali, non tali da toccare il contenuto immutabile della Divina Liturgia).
Le variazioni e gli adattamenti voluti dal Concilio dovevano essere idonei a favorire la comprensione di ciò che veramente avviene nella Liturgia e la fruttuosa partecipazione di tutti i fedeli ai frutti sacramentali, spirituali e divini, della Liturgia. Dovevano, le correzioni, essere tali da raggiungere e muovere l’animo dei fedeli cosicché potessero accogliere con tutto l’animo l’azione divina che si attua nella Liturgia per mezzo dei segni sacramentali, per mezzo del mistero sacro, “per mano dei ministri” (come dice una bella delle espressioni della Tradizione Liturgica della Chiesa). Era certamente opportuno che le variazioni mostrassero alcune caratteristiche dell’azione liturgica, (soprattutto della Santa Messa). in verità non cancellate dal modo con cui la Liturgia era celebrata sino allora, ma che erano divenute meno percepibili, se non con l’ausilio di buona catechesi e di accorgimenti adeguati (come quello di provvedere messalini tradotti nella lingua parlata dal popolo). Soprattutto era opportuno che le variazioni sottolineassero che l’azione liturgica, azione divina che si rende presente attraverso il ministero sacerdotale, deve coinvolgere e rendere partecipi la mente e il cuore di tutta l’assemblea, che diventa non solo spiritualmente, ma anche visibilmente attiva. La riforma liturgica non ha avuto altra vera intenzione se non quella di avvicinare il più possibile tutti i fedeli alla ricchezza soprannaturale, immutabile, della Divina Liturgia, della celebrazione dei Divini Misteri, come la Chiesa l’aveva sempre custodita e proposta per la salvezza eterna di chi per mezzo della fede e dei sacramenti può davvero divenire nuova creatura in Cristo, membro del Popolo della Nuova ed Eterna Alleanza, figlio adottivo di Dio, erede della vita eterna. Ma è ovvio che tale processo di vera partecipazione ai Divini Misteri non si raggiunge soltanto per mezzo delle variazioni al rito liturgico, ma richiede catechesi adeguata, richiede il ricorso a tutto ciò che favorisce la fede e la consapevolezza nel popolo cristiano circa quello che veramente si realizza nella celebrazione della Divina Liturgia.
L’avvicinamento della Liturgia alla vita del Popolo di Dio non avviene se essa sposa gesti e parole e modi di espressione più simili a quanto è in uso nella vita profana dell’uomo, nella sua vita nel secolo, ma se il Popolo coglie meglio che il vero contenuto di essa è tale da rendere nuova la sua vita, da rendere santa la sua vita, da rendere la sua vita conforme al disegno salvifico di Dio, da renderlo dunque capace di trascendere la vita nel tempo e nello spazio, immettendolo all’interno dell’adempimento dell’Eterno Mistero della Volontà di Dio. La Liturgia, e dunque la Chiesa stessa, è viva quando fa vivere i fedeli della vita divina, quando trasmette i doni soprannaturali della Grazia divina, quando attraverso i suoi segni e parole (segni e parole desunti dalla Divina Rivelazione e dalla vita della Chiesa e dalla sua saggezza soprannaturale) raggiunge l’animo dell’uomo, lo afferra, lo possiede elevandolo così che egli raggiunga il compimento della sua divina vocazione. Le variazioni in materia così grave e così vitale per la fede e per la vita cristiana, da sostenere e da nutrire, vanno sempre introdotte ed applicate con timore e tremore, mai alla leggera, mai superficialmente, mai dando la benché minima impressione di voler imitare ciò che avviene nella vita del mondo, ciò che appartiene alla vita profana.
II parte:
Commenti al Motu Proprio “Summorum Pontificum”
Commento all’Art. 2
Ed ecco il testo del Motu Proprio “Summorum Pontificum” con qualche commento. L’articolo usa l’espressione Messe celebrate senza il popolo. Qual è il significato di tale espressione, che non appariva più in altri recenti documenti della Santa Sede riguardanti la Sacra Liturgia? Vuol dire “Santa Messa celebrata senza popolo convocato per quella precisa celebrazione”, oppure Messa che non sia celebrata in una Parrocchia “ad orario”, affinché il popolo (qualsiasi fedele appartenente a quella comunità particolare) possa parteciparvi. Si può anche dire che “Messa senza il popolo” è quella non parrocchiale o di altra comunità stabilita. A quella Messa il popolo non è convocato ma ciò non significa che i fedeli del popolo non possano essere presenti e partecipanti.
N.B. Il Sacerdote che non celebra cum populo è caldamente esortato a celebrare quotidianamente cum ministro (con la presenza di qualcuno che nella Messa svolga il servizio che compete ad un ministro o ad un ministrante). Ma il Sacerdote che in qualche circostanza trovasse difficoltà ad essere assistito da un ministro, non per questo tralasci la Celebrazione della Santa Messa, a suo beneficio spirituale ed a beneficio di tutta la Chiesa e per la redenzione del mondo. Quella Santa Messa è perfettamente il Sacrificio di Cristo che nello spazio e nel tempo è ri-presentato sacramentalmente per la salvezza del mondo.
Commento all’art. 5, § 1.
Come intendere l’espressione “gruppo di fedeli” aderenti alla precedente tradizione liturgica, esistente in una Parrocchia “stabilmente” (“continenter”, con continuità)? La “mens” del Motu Proprio, le finalità che esso si propone e l’insieme delle sue norme, permettono di interpretare l’articolo nel modo seguente:
1) Per “gruppo di fedeli” non si intende una associazione che si sia data un assetto giuridico, con la istituzione di responsabili eletti e stabiliti secondo delle regole. Ciò che “raggruppa” (o rende “gruppo”) quei fedeli è il loro animus (l’animus dell’uno trova affinità, comprensione e sostegno nell’animus di un altro, di diversi altri).
2) Anche l’espressione “aderenti alla precedente tradizione liturgica non significa che vi debba essere una organizzata e pubblica professione di tale adesione; si tratta di un profondo “sentire” che nasce dall’educazione cristiana ricevuta od anche desiderata, dalla conoscenza della vita della Chiesa e della sua storia, dal modo in cui si vede celebrata al presente la Divina Liturgia in molti luoghi e da molti celebranti, da un affetto ed amore alla Traditio Ecclesiae che ha bisogno per penetrare gli animi di segni e di adeguate espressioni, da un amore alla continuità nella vita della Chiesa che rende prudenti di fronte ai cambiamenti che possono toccare la sostanza, ecc. Questo profondo “sentire” di più persone, di più fedeli, può sinora non aver trovato la giusta e legittima possibilità di esprimersi; può non essere sinora giunto alla richiesta di ricorrere all’indulto speciale che aveva concesso il Papa Giovanni Paolo II (anche perché in molte parti della Chiesa, l’esortazione rivolta ai Vescovi da quel Papa, cioè di “usare largamente e generosamente tale facoltà in favore di tutti i fedeli che lo richiedessero”, non fu ascoltata).
4) Se il “gruppo di fedeli” aderenti, con il loro animo, alla precedente tradizione liturgica non ha trovato sinora la sua legittima espressione non significa che non la possa legittimamente trovare adesso; non significa che ora non possa coagularsi in gruppo l’animo dei fedeli che aderiscono “con tanto amore ed affetto alle antecedenti forme liturgiche”. E ciò può tanto più avvenire per il fatto che - secondo l’art. 4 - alle celebrazioni della Santa Messa “senza il popolo” (nel senso spiegato prima) possono essere ammessi quei fedeli che lo chiedessero di loro spontanea volontà.
5) E evidente che il desiderio e la richiesta del “gruppo di fedeli” debbono nascere dall’anelito sincero di trovare beneficio spirituale per la propria vita di devoti figli della Chiesa, ma questo il pastore della Chiesa lo deve supporre fin tanto che non vi siano chiare prove in contrario.
È pienamente legittimo e può diventare anche lodevole, da parte dei fedeli, un amore alla Traditio Ecclesiae che non va affatto contro l’unità, ma la ricerca nutrendo al meglio la propria spiritualità.
Nessuno dei Pastori della Chiesa ha il diritto di giudicare male quei Sacerdoti che esprimono il loro amore ed affetto alle forme liturgiche antecedenti la riforma post-conciliare.
+ Mario Oliveri, Vescovo di
Albenga - Imperia
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