lunedì 7 marzo 2022

INFELIX AUSTRIA una critica del "mito asburgico", versione cattolica - Paolo Pasqualucci

Di Paolo Pasqualucci abbiamo recentemente apprezzato la serie di "Appunti" [qui] mirante a chiarire i concetti di Stato, nazione, popolo etc. - così importante nella temperie odierna -, per forza di cose in polemica rispettosa con i tradizionalisti di ogni forma e colore, ma non solo. Ora abbiamo a disposizione la revisione e il corposo approfondimento del suo studio: Politica e Religione. Saggio di teologia della storia - I - (qui), per una critica del mito asburgico con tutti i parametri deducibili da una approfondita conoscenza degli scenari e delle complesse dinamiche che determinano gli eventi. Di particolare interesse, in questa recente trattazione, la parte che parla in dettaglio dello scoppio della prima guerra mondiale, un tema purtroppo tornato di grande e sinistra attualità, con gli inquietanti venti di guerra che ci sovrastano lasciandoci angosciose sensazioni. 

INFELIX AUSTRIA una critica del "mito asburgico", versione cattolica
di Paolo Pasqualucci

“Tutto il nostro esercito definisce la guerra contro l’Italia “la nostra guerra”.
Ciascun ufficiale nutre in petto fin dai suoi giovani anni l’ardente desiderio,
trasmessogli dai padri, di combattere contro il nostro nemico ancestrale
”.
(Carlo I d’Asburgo-Lorena, Imperatore d’Austria, Re Apostolico d’Ungheria)

Nota dell’Autore

Ripubblico qui un saggio apparso con diverso titolo su questo stesso blog (qui). Il testo è stato da me completamente rivisto, modificato e notevolmente ampliato. Vi ho aggiunto due nuovi paragrafi: 1.1. Le vere ragioni della nostra neutralità nell’agosto del 1914; 8.1 Contro tutta la propria storia, la Monarchia Danubiana si trovò alla fine a dover sostenere il megalomane espansionismo panturco dei Giovani Turchi, nemico spietato del cristianesimo. Mi auguro che la critica argomentata del “mito asburgico”, che a mio avviso ha un’influenza deleteria sull’intellettualità cattolica attualmente impegnata nell’elaborazione di una visione della politica fondata sui valori cristiani autentici e quindi cattolici tradizionali, possa contribuire al chiarimento dei concetti, indispensabile per poter articolare un pensiero politico cattolico veramente costruttivo, rispondente alle esigenze dell’Italia afflitta dai gravi mali che tutti conosciamo.

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Sommario: Premessa. 1. Solo estremisti e rivoluzionari volevano la dissoluzione dell’Austria-Ungheria alla vigilia della Grande Guerra. 1.1 Le vere ragioni della nostra neutralità nell’agosto del 1914. 2. La tesi del prof. De Mattei: l’Austria-Ungheria, in quanto Stato cattolico ancora perno dell’equilibrio europeo, principale nemico da abbattere per le potenze dell’Intesa. 3. Critica della tesi del prof. De Mattei: 3.1 Gli Stati Uniti, quando entrarono nel conflitto il 2 aprile 1917, dichiararono guerra unicamente alla Germania. All’Austria-Ungheria solo il 7 dicembre successivo, ben 8 mesi e 5 giorni dopo e solo dopo molte pressioni. 3.2 La verità è che per tutto il 1917 e fino alla primavera del 1918 ci furono ripetuti tentativi angloamericani per indurre la Duplice Monarchia ad una pace separata, staccandola dal mortale abbraccio tedesco. 3.3 L’errore decisivo di Carlo d’Asburgo: puntare alla vittoria sul campo, nell’estate del 1918. 4. Nell’impero austro-ungarico “il riflesso” della “Christianitas medievale” appariva ormai opaco: 4.1 Il rilassarsi della morale. 4.2 Il Sacro Romano Impero tra ideale e realtà. 4.3 Le contraddizioni dell’asburgico “cattolicesimo illuminato”, anticuriale, anticlericale e filogiansenista prima della Rivoluzione Francese, anticlericale filoliberale all’epoca di Francesco Giuseppe. 4.4 L’Italia “appendice austriaca” all’epoca della Restaurazione. 5. La vera missione storica dell’Austria: difendere l’Europa dalle invasioni provenienti dall’Est e dai Balcani, civilizzare sia l’ Est che i Balcani, abbattere la potenza ottomana. 6. I guasti prodotti dall’anticlericalismo di taglio liberale durante il regno di Francesco Giuseppe, il quale sanzionò l’introduzione del matrimonio civile (1868) e reagì negativamente al dogma dell’infallibilità pontificia (1870) denunciando unilateralmente il Concordato del 1855. 6.1 Francesco Giuseppe non fu “buon figlio devoto al Santo Padre”, anche se fu un imperatore sollecito dei suoi sudditi, amato dal gran numero, rispettato da chi non lo amava. 7. Nella cultura della “Grande Vienna”, prevalentemente positivistica e antimetafisica, si delineava la dissoluzione della recta ratio, la fuga nell’irrazionale in accoppiata con la pseudocultura esoterica e völkisch. 7.1 L’irrazionalismo a sfondo nichilistico di Wittgenstein, emblematico del tramonto di una cultura e di una civiltà. 7.2. Filoni austriaci della pseudocultura esoterica e völkisch. 8. L’impero austro-ungarico non era più in grado di svolgere la sua missione storica, il suo tempo si era ormai compiuto. 8.1 Contro tutta la propria storia, la Monarchia Danubiana si trovò alla fine a dover sostenere il megalomane espansionismo panturco dei Giovani Turchi, nemico spietato del cristianesimo.

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Premessa.

Il crollo della duplice monarchia asburgica nel 1918 costituì la perdita di un “centro cattolico” ancora “fulcro dell’equilibrio e della stabilità dell’Europa”? Ed essa fu assalita innanzitutto perché cattolica? La prima guerra mondiale ebbe come obbiettivo essenziale quello di distruggere l’Austria cattolica, unico Stato ancora in grado di svolgere una politica coerente con i principi del cattolicesimo, anche in politica estera?

Questa interpretazione ha preso piede nel secondo dopoguerra, soprattutto presso una parte dell’intellettualità cattolica. L’ha resa popolare la diffusione, anche a livello mediatico, di un vero e proprio “mito asburgico”, per usare la fortunata espressione di Claudio Magris -- per lui, che traduce alla lettera Habsburg, “absburgico”: visione assurta a mito di quella che fu indubbiamente una notevole e prestigiosa realizzazione statale. Notevole e anche gloriosa, se pensiamo ai due assedi sostenuti vittoriosamente da Vienna contro i formidabili eserciti turchi nel 1529 e 1683, alle successive sanguinose e vittoriose guerre contro i medesimi, per la difesa dell’Europa e della religione cristiana; alla difesa politica e culturale ma anche armata del Cattolicesimo contro la devastante ed eversiva eresia protestante e contro il posteriore “pericolo slavo”, rappresentato soprattutto dalla Russia imperiale e scismatica, pretesa “Terza Roma” sempre ostile alla vera Roma cristiana, quella cattolica; alla creazione (con la Mitteleuropa) di una realtà sociale e culturale altamente civile ed evoluta, dotata di un suo caratteristico stile, capace di far progredire e convivere per quasi quattro secoli popoli non solo diversi ma persino ostili tra loro.

Marx e Engels, commentando le rivoluzioni del 1848 e la dura repressione che ne era seguita, scrivevano con ingiustificato disprezzo che gli unici prodotti della civiltà austriaca erano il funzionario e il militare (di un Haydn, di un Mozart, nulla sembravano sapere). In effetti, un impero multietnico (ma ogni impero lo è, a ben vedere) poteva reggersi solo sulla fedeltà assoluta alla dinastia, impersonata dalla figura del monarca. Questa fedeltà, che si esprimeva nel culto minuzioso (ed anche eccessivo) del protocollo, dell’etichetta, della gerarchia, delle cerimonie, delle festività religiose e militari, costituiva in ogni caso il vero patriottismo di quella monarchia, trascendente la dimensione territoriale e politica in senso stretto: un’Austria dello spirito, le cui istituzioni non potevano non essere sovranazionali, come appunto lo erano la burocrazia e l’esercito, i due pilastri di quello Stato (e di ogni Stato, anche se non in quella misura). E come lo era la Chiesa cattolica, altro pilastro fondamentale, anche se i preti di questa o quella etnìa a volte tendevano a foraggiarne il patriottismo in senso esclusivistico, alimentando odi e divisioni.

Della burocrazia austriaca e del sistema di governo basato su costruttivi compromessi e la ricerca di una sapiente aurea mediocritas, resta valido il giudizio che ne dava, con affettuosa ironia, il grande scrittore di Klagenfurt, Robert Musil, nel suo celebre romanzo L’uomo senza qualità: “L’Austria aveva una perfetta burocrazia che funzionava immutata da due secoli; andava ancora fiera delle belle strade militari costruite all’inizio del Settecento e delle ben architettate fortezze dell’età napoleonica. Non si parlava mai a Vienna di paesi d’Oltreoceano e di problemi coloniali. Si spendevano somme enormi per l’esercito, senza aver l’ambizione di possedere il primo esercito europeo; la capitale non era grande come le città grandissime, ma un po’più grande delle città che si dicevano grandi per definizione. Si aveva una costituzione liberale, la vecchia costituzione giuseppina [riesumata in parte con lo Ausgleich, vedi infra], ma comandavano i clericali; comandavano i clericali, i quali però vivevano alla maniera dei liberali, cioè da libertini. Il parlamento poteva fare un uso tanto esteso della sua libertà, che il più spesso bisognava tenerlo chiuso, applicando leggi di emergenza [per via delle violente risse tra esponenti delle varie nazionalità e dei loro leggendari ostruzionismi]. Ma quando tutti erano contenti della felice chiarificazione ottenuta col ritorno all’assolutismo, la Corona decretava all’improvviso che si doveva governare di nuovo nelle forme costituzionali” (Mittner).

Ma un conto è la giusta rivalutazione storica (contro i pregiudizi anticattolici e gli odi politici di un tempo) dei non pochi meriti della plurisecolare monarchia danubiana; altro conto lasciarsi andare a sopravvalutazioni ed esaltazioni che tendono a sfociare nel mito, con il risultato di proporre modelli del tutto irripetibili e illusori per la rinascita di uno Stato cristiano. Intendere il tragico e apocalittico susseguirsi del secolo che va dal 1918 al 2018 unicamente quale conseguenza della caduta, nel 1918, dell’impero asburgico, come se esso avesse rappresentato ancora (agli inizi del Novecento) l’effettivo fulcro dell’equilibrio continentale e proprio per la sua qualità di intatto Stato cattolico, ciò significa proporre, a mio giudizio, una visione che corrisponde alla realtà storica solo in parte, illustrando essa solo la parte mezzo piena del bicchiere, come si suol dire.

Questa tesi, espressione di una mentalità tuttora diffusa in certi ambienti, notoriamente ostili al Risorgimento e allo Stato unitario italiano in quanto tali, convinti come sono che il Sacro Romano Impero rappresenti l’unico modello possibile di uno Stato cristiano, è stata riproposta con chiarezza tre anni fa circa (il 19 dicembre 2018) dal prof. Roberto De Mattei sul sito Corrispondenza Romana, in un articolo a commento del significato del “secolo breve” appena trascorso, da lui così ritagliato: 1918-2018: ‘Tutto crolla, il centro non regge più’. Il titolo virgolettato è tratto da un verso di W.B. Yeats, ci ricorda lo stesso Autore.

Perché affermo che la tesi contiene una verità solo parziale? Parziale, perché bisogna per l’appunto chiedersi sino a che punto la duplice monarchia danubiana fosse ancora, già a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, l’effettivo “fulcro dell’equilibrio e della stabilità dell’Europa”, come lo era stata durante il periodo della Restaurazione e ancor più nell’epoca prenapoleonica, al tempo di Eugenio di Savoia, per intenderci, quando aveva il più forte esercito dell’Europa continentale. O non si era essa indebolita a paragone della superiore potenza di Germania e Russia e non era diventata a sua volta un elemento instabile, a causa dei sempre più gravi conflitti fra le sue nazionalità – insanabile quello tra cèchi e tedeschi - non risolvibili a livello politico, e quindi tali da impedire le indispensabili riforme costituzionali, da più parti auspicate e proposte? Instabilità politica interna dietro il tradizionale, calibrato “immobilismo” asburgico e conseguente mancanza di lucidità, che si sarebbe appunto manifestata nella drammatica incapacità (con il sopravvalutare le proprie forze) di mantenere la crisi seguìta all’assassinio di Sarajevo, nel luglio del 1914, entro i limiti di un confronto balcanico con la Serbia, possibilmente non militare. Questo non significa, come hanno fatto in molti, voler attribuire alla sola dirigenza asburgica (e tedesca, che l’appoggiò integralmente) la colpa per lo scoppio della Grande Guerra. Anche l’aggressiva e spregiudicata politica russa nei Balcani ha le sue responsabilità, mentre sullo sfondo non mancano quelle di francesi e inglesi.
1. Solo estremisti e rivoluzionari volevano la dissoluzione dell’Austria-Ungheria alla vigilia della Grande Guerra.
Mi sembra più valida la tesi in passato prevalente, secondo la quale l’Austria-Ungheria aveva da tempo cessato di rappresentare “il fulcro determinante” cui accenna il prof. De Mattei, pur continuando a svolgere un importante ruolo geografico-strategico e politico-economico nello scacchiere europeo. Un importante ruolo di “equilibrio” che si stava però squilibrando sempre più verso un duro e pericoloso conflitto con l’autocratico impero russo per il dominio nei Balcani ossia per la divisione delle spoglie europee del sempre più decrepito impero ottomano. E i russi si erano alleati all’ultralaica Francia repubblicana, che ardeva dal desiderio di recuperare l’Alsazia e la Lorena, dovute cedere alla Germania dopo la catastrofe del 1870, chiudendo la Germania in una morsa. Il vero “centro” era ormai costituito dalla protestante e laica Germania guglielmina, potenza militarmente (ed economicamente) egemone dell’Europa continentale, dopo le fulminanti vittorie su austriaci (1866) e francesi (1870) e il suo poderoso sviluppo industriale e commerciale. Ma chi voleva la dissoluzione dell’Austria-Ungheria nel 1914? In Occidente solo gli elementi più estremisti della cultura e politica laica, massoni legati al Grande Oriente, gli eredi del mazzinianesimo, gli irredentisti più accesi, i rivoluzionari, i pangermanisti aspiranti allo Anschluss con la Germania per spezzare “l’accerchiamento slavo”, come dicevano; in Oriente quelli più aggressivi dello zarismo, i panslavisti, i cui obbiettivi di guerra comportavano di fatto il disgregamento dell’impero asburgico; o i panserbi, come gli attentatori di Sarajevo, che, aspirando ad una Grande Serbia estesa sino all’Adriatico, non tolleravano l’esistenza di una Bosnia mussulmana sotto l’ala austriaca; i rivoluzionari di professione, come l’ancor poco noto Vladimir Ilijc Lenin, il quale, in una lettera del 1913 a Maksim Gorkij, aveva scritto: “La guerra tra l’Austria e la Russia sarà utilissima alla causa della rivoluzione nell’Europa occidentale. Ma è difficile credere che Francesco Giuseppe e Nicola ci rendano questo servigio” (Shub) . E invece glielo resero, eccome, “il servigio”.

Bisogna rammentare che il Patto di Londra, concluso in segreto il 26 Aprile del 1915 tra l’Italia e le Potenze dell’Intesa (Gran Bretagna, Francia e Russia), con il quale ci impegnavamo ad entrare in guerra entro un mese “contro tutti i nemici” delle suddette; patto seguíto dalla nostra uscita il 4 maggio dalla Triplice, venti giorni prima dell’entrata in guerra, dichiarata però alla sola Austria-Ungheria a partire dal 24 maggio, all’impero ottomano il 20 agosto successivo e il 19 ottobre del ‘15 alla Bulgaria – alla Germania solo il 27 agosto 1916, in pratica costretti dalla pressione sempre sempre più irritata dei nostri alleati, dai quali dipendevamo per i rifornimenti e i crediti, la cui stampa ci accusava di slealtà e tradimento ---- ebbene, questo patto non contemplava la dissoluzione dell’impero asburgico bensì un suo ridimensionamento, anche se questo ridimensionamento poteva apparire eccessivo, per esempio nel voler acquisire all’Italia oltre a Trieste, porto di vitale importanza per l’impero danubiano, anche la munita base navale di Pola, sulla punta dell’Istria e tutta l’Istria sin quasi al Golfo del Quarnaro, però con l’esclusione di Fiume. I nostri obbiettivi essenziali di guerra erano il raggiungimento delle frontiere naturali sulla displuviale alpina - Bolzano e Merano erano ricomprese nel Ducato di Trento dall’Italia longobarda (Huber-Dopsch; Ferrandi) – e il controllo dell’Adriatico. Il controllo dei passi alpini permetteva quello della valle dell’Adige, indispensabile per la difesa della pianura padana, mentre occorreva almeno l’Istria occidentale (in tutto o in parte) per coprire nel modo dovuto Trieste. Miravano, inoltre, alla Dalmazia del Nord con le isole prospicienti e al controllo dell’Albania mediante il possesso di Valona e dell’isola di Saseno – le appendici adriatiche e albanesi ritenute necessarie innanzitutto per proteggere la nostra costa adriatica, costituita da 700 km di spiagge quasi ovunque piatte, praticamente indifendibili. C’era anche l’ovvia intenzione di proteggere le nostre comunità in Istria e Dalmazia dall’ostile preponderanza slava (favorita da Vienna) e l’aspirazione a potersi espandere (economicamente) nei Balcani, fin allora terreno di caccia delle Grandi Potenze, e in particolare della Duplice Monarchia. Ma l’Italia si voleva ritagliare dalla potenza asburgica (rimasta di fatto ostile nonostante l’alleanza, voluta soprattutto da Bismarck) innanzitutto territori considerati indispensabili alla sua difesa, prima ancora che trampolino di lancio per una possibile espansione balcanica. La nostra frontiera centro-orientale era pessima, praticamente indifendibile, con il confine poco a nord di Verona, trovandosi il Trentino e l’Alto Adige in mano austriaca, e l’arco alpino nella stessa mano, che poi afferrava l’Isonzo, oltrepassandolo in qualche punto. A parte il Trentino e l’Alto Adige, si trattava per noi di ristabilire nell’insieme i confini della Repubblica di Venezia, dissolta brutalmente da Napoleone nel 1797 e concessa all’Austria dal Congresso di Vienna, nel 1815, quale (agognato) compenso per la sua partecipazione alla lotta vittoriosa contro il Tiranno.

Nemmeno la classe dirigente dell’Italia umbertina, liberal-massonica come amano sottolineare i “tradizionalisti” cattolici e non, mirava alla dissoluzione dell’antico Stato degli Asburgo, che aveva voluto essere il nostro nemico per eccellenza sin dal tempo dell’imperatore Massimiliano I, il quale, durante le Guerre d’Italia (che, nella prima metà del Cinquecento, avevano posto brutalmente fine all’indipendenza degli Stati italiani), tentò con tutti i mezzi di conquistare la Serenissima, senza peraltro riuscirci, così come non ci sarebbero riusciti i suoi successori. Noi italiani eravamo assurti, agli occhi degli Asburgo, al rango di “nemico ereditario”, “ancestrale” e l’odio per l’Italia cementava, a quanto sembra, gli altrimenti divisi popoli dell’impero. Ma perché un tale odio? Avevamo forse, divisi come eravamo in piccoli e punto bellicosi Stati, minacciato in qualche modo i domini degli Asburgo, per meritarci di assurgere addirittura a loro “nemico ancestrale”? Guardando alla storia, risulta piuttosto che ad esser minacciati ed invasi eravamo stati sempre noi italiani.

Dalla seconda metà del Trecento, bavaresi e austriaci, in lotta tra loro, avanzavano lentamente verso la pianura padana, scendendo per la valle dell’Adige, assorbendo o respingendo verso Sud gli italiani, penetrando nel Trentino, erodendo i confini dei possessi veneziani nel Cadore, nel Friuli e nello stesso Trentino (Ferrandi). La Repubblica di Venezia svolse per tanti secoli azione di difesa contro lo straniero e di protezione dell’italianità. Sconfitto duramente nel Cadore dai veneziani, Massimiliano I, inseritosi nella Lega di Cambrai con i francesi e il Papa contro la Serenissima, dopo la sconfitta di quest’ultima le strappò, nel trattato di pace: Rovereto, Ala, Mori, Avio, Riva e l’Ampezzano (Ferrandi).

“Soltanto sotto Massimiliano I [eletto imperatore nel 1486] l’Austria divenne uno Stato litoraneo con l’acquisto della Contea di Gorizia e, anche dopo, durò gran fatica a mantenere per terra, contro Venezia, i suoi possedimenti litoranei sull’Adriatico, senza dire che non avrebbe avuto la forza di difendersi anche per mare contro il monopolio di navigazione che la Repubblica di San Marco pretendeva per sè tra Ravenna e Fiume. Infatti per una simile impresa essa avrebbe avuto bisogno proprio di quelle forze marinare che l’Austria non poteva creare sotto la pressione del sistema di esclusione veneziano. L’imperatore Massimiliano, nel tempo in cui voleva distruggere lo Stato che egli odiava più profondamente, aveva in mente di tentare un assalto contro la stessa città di Venezia [1509 – eravamo nel pieno delle Guerre d’Italia]; ma perfino alla base di questo progetto utopistico egli poteva metter soltanto un’azione combinata delle flotte francese e spagnola, poiché non c’era da pensare al contributo di navi austriache” (Fueter).

Il “nemico ancestrale” italiano, da tutti i sudditi asburgici disciplinatamente detestato, l’aveva dunque creato la pretesa di dominio austriaca in Italia, colpevoli gli italiani e in particolare i veneziani di opporsi e resistere a tale pretesa, che credeva di legittimarsi nel contrapporsi ad uguale ingiusta pretesa di dominazione su di noi, quella della monarchia francese: si trattava, comunque, del semplice conflitto di due politiche di potenza uguali e contrarie, in antitesi ai principi ai quali avrebbe dovuto ispirarsi la politica estera di monarchi cristiani (pace tra di loro, fronte comune al nemico della fede). Riuscito ad impossessarsi della Repubblica di San Marco solo nel 1815, alla divisione delle spoglie dell’impero napoleonico, l’Asburgo aveva poi favorito, soprattutto a partire dal 1866, la penetrazione slava ai danni delle antiche comunità italiane di Istria e Dalmazia e lungo l’Isonzo nonché la progressione tedesca nel Trentino, dove nei decenni anteriori alla Grande Guerra la pressione pangermanista era stata piuttosto forte. Nel Consiglio della Corona del 12 novembre 1866, poco dopo la perdita del Veneto, l’imperatore Francesco Giuseppe aveva approvato “misure contro l’elemento italiano in alcune regioni della Corona” (Toscano). E difatti, eccone un esempio: tra il 1870 e il 1880 fu abolito l’insegnamento scolastico primario in italiano in Val Gardena, in Val Badia, sull’altopiano di Siusi, mantenuto nelle locali pratiche religiose solo per intervento delle autorità ecclesiastiche. Nel 1888 fu fondata a Bolzano un’Unione “avente come scopo di resistere all’azione posta in atto in Bolzano e Merano nonché nelle zone ladine, per l’eliminazione della lingua e della cultura italiana” (Ferranti).

Nel Trentino, durante la Grande Guerra, il comando militare austro-ungarico (Arciduca Eugenio) era per una politica di germanizzazione della popolazione, già in atto nell’esercito, dove alcuni comandanti proibivano ai soldati di etnia italiana di parlare in italiano tra di loro (Pieropan; Pozzato). Non mancava il sostegno di una cultura al servizio della causa: l’autorevole rivista del Club Alpino Austro-Tedesco, pubblicava nel 1917 un articolo di un professore di Innsbruck nel quale si affermava perentoriamente che il Trentino o Welschtirol (Welsch, termine spregiativo per latini o italiani) possedeva un antico carattere esclusivamente tedesco anche nella provincia di Trento (Pozzato). E il carattere al tempo quasi tutto italiano del Trentino, allora, da dove era uscito fuori, viene da chiedersi, tutto d’un tratto dalla terra come Minerva dalla testa di Giove Ottimo Massimo? Secondo il censimento austriaco del 1910 il Trentino contava 360.938 abitanti italiani e 13.447 tedeschi (Ferranti).

Comunque, l’Italia, nel settembre del 1918, quando cominciava a profilarsi la vittoria dell’Intesa, aveva riconosciuto il diritto all’esistenza di uno Stato jugoslavo, con il quale sarebbe poi stato necessario trattare per le questioni adriatiche. Che divennero incandescenti nel caso di Fiume, allorché, negli ultimi giorni della guerra, mentre l’Impero si dissolveva, il 30 ottobre 1918 la maggioranza italiana della città espresse in un Consiglio da essa nominato la volontà di essere inclusa nel Regno d’Italia. Gli italiani di Dalmazia, Istria, Trieste non volevano esser governati dagli jugo-slavi o slavi meridionali, che da decenni cercavano di coartarli in tutti i modi o assimilandoli o costringendoli ad andarsene (Monzali). Forte era l’ostilità slovena e croata nei nostri confronti.

1.1 Le vere ragioni della nostra neutralità nell’agosto del 1914.

L’avversione e l’odio verso di noi divennero implacabili dopo la nostra dichiarazione di neutralità e la successiva entrata in guerra contro l’ Impero. Ancora oggi veniamo accusati di tradimento, anche se in modo più sfumato, almeno da parte degli storici tedeschi, secondo i quali, se l’Italia fosse rimasta neutrale, gli Imperi Centrali avrebbero potuto uscire da quella terribile guerra con un “pareggio” (Remis, in tedesco), una dignitosa pace di compromesso (Rusconi). Tesi interessante, anche se troppo basata sui “se”: il “pareggio” gli Imperi Centrali avrebbero comunque potuto conseguirlo dopo aver vinto la guerra ad Est, con l’abbattere il gigante russo, se avessero cercato sinceramente di ottenere una ragionevole pace, che desse soddisfazione anche alle giuste richieste degli avversari. Invece vollero stravincere e persero.

Ma potevamo restar neutrali? La decisione iniziale, di non assecondare l’aggressione austriaca alla Serbia era del tutto corretta. Fu dovuta soprattutto al marchese Antonino di San Giuliano, catanese, nostro lucidissimo ministro degli esteri, purtroppo gravemente malato di gotta e deceduto il 16 ottobre 1914. L’uccisione dell’erede al trono arciduca Francesco Ferdinando e della consorte Sofia, duchessa di Hohenberg, in visita ufficiale a Sarajevo, da parte di un serbo facente parte di un commando di terroristi serbi nazionalisti affiliati ad una società segreta chiamata “Mano nera”, panserbisti ferocemente avversi all’esistenza di una Bosnia austriaca, fu un fatto gravissimo, reso possibile (si ritenne, non a torto) dalla complicità dei “servizi” serbi. Non poteva restare impunito. Ma non era quello il modo.

La Triplice Alleanza, che durava da circa trent’anni, tra noi, Germania, Austria-Ungheria, era un’alleanza prettamente difensiva anche se i due imperi avevano cominciato ad usarla in senso offensivo già nel caso dell’annessione austriaca della Bosnia-Erzegovina, una delle vere cause della Grande Guerra. “Nel marzo del 1909 Vienna annette la Bosnia ed Erzegovina, regioni già sotto la sua amministrazione ma formalmente ancora sotto la sovranità turca. L’operazione riesce grazie alla doppia intimidazione esercitata sulla Serbia e sulla Russia, con la minaccia di un intervento armato sostenuto dalla Germania [se non avessero riconosciuto legittima l’annessione]. In questo modo viene dato un ulteriore scossone destabilizzante all’intera regione balcanica, mentre la Russia [che ancora risentiva della grave crisi provocata dalla rivoluzione del 1905 e dalla coeva sconfitta contro il Giappone in Manciuria], determinata a non farsi più sopraffare in un’area che considera di sua influenza, dà il via ad un grande programma di ammodernamento e riarmo del suo esercito” (Rusconi). L’annessione della Bosnia-Erzegovina alla Duplice Monarchia, episodio oggi dimenticato, creava una nuova provincia asburgica che si frapponeva tra la Serbia e l’Adriatico, ostacolando la secolare aspirazione serba a raggiungerlo. Il Regno di Serbia, resosi indipendente dai turchi a partire dal 1878, unitamente al Montenegro suo alleato (Congresso di Berlino), era protetto dalla Russia, che ne fomentava le aspirazioni in senso antiaustriaco.

Nel luglio del ’14, Vienna e Berlino ripetono uno schema simile a quello messo in opera con successo in occasione dell’annessione della Bosnia, convinti che la Russia non sarebbe intervenuta. Senza consultare l’alleata Italia, si accordano in segreto (a Potsdam, 5-6 luglio) per inviare un durissimo ultimatum a Belgrado: il Kaiser diede stoltamente carta bianca a Vienna. All’Italia fu ad un certo punto detto del documento austriaco ma in termini generici, senza rivelarne il contenuto, conosciuto dal nostro ministro degli esteri solo il giorno dopo l’invio, il 24 luglio 1914, quando fu reso noto a tutte le Cancellerie. L’ultimatum, da accettarsi in sole 48 ore se non si voleva subire la guerra, poneva dieci drastiche condizioni alla Serbia per combattere il terrorismo dei suoi nazionalisti estremi, disposta la Serbia ad accettarle obtorto collo tranne una, apertamente lesiva della sua sovranità: conteneva la pretesa che ci fossero funzionari austriaci di polizia tra le autorità serbe cui si imponeva di indagare sulla congiura messa in atto dagli assassini di Sarajevo. Belgrado, forte dell’appoggio russo, respinse l’ultimatum e decretò la mobilitazione. Invece di dichiararsi soddisfatta e negoziare dalla posizione di forza così ottenuta, togliendo la clausola offensiva, Vienna dichiarò guerra il 28 luglio successivo, senza tener conto di un severo ammonimento russo a difesa della sovranità serba, del 25 precedente. L’ultimatum austriaco, stilato inserendovi almeno una clausola chiaramente irricevibile, mostrava l’evidente intento di costruirsi un pretesto per dichiarare guerra, in caso di rifiuto. Il 26 luglio gli inglesi proposero una Conferenza a quattro, tra Regno Unito, Germania, Francia e Italia per disinnescare la mina della guerra incipiente. La Germania non mostrò interesse, mentre l’Italia aveva accettato, al pari della Francia, e non se ne fece nulla.

Il 30 luglio la mobilitazione russa, già iniziata il 25 come parziale, diventa generale, sembra per iniziativa personale del ministro della guerra, dallo zar controfirmata di malavoglia. Questo fatto, secondo la dottrina militare tedesca (ma in realtà anche per quella di altri eserciti) rappresenta già l’inizio della guerra; pertanto Berlino, dopo averla ammonita con ultimatum a sua volta irricevibile, e averne mandato uno ugualmente irricevibile ai francesi, dichiara guerra alla Russia l’1 agosto. Il 31 luglio in Francia viene assassinato da un nazionalista (a Parigi, al ristorante) Jean Jaurès, capo del socialismo francese e pacifista convinto. L’1 agosto la Francia, alleata della Russia, decreta la mobilitazione generale per il 2 successivo, atto di reciprocità previsto nel trattato tra le due nazioni: il fatto viene immediatamente interpretato dalla Germania (forse non a torto) come l’inizio dell’attacco francese nei suoi confronti. Il 3 agosto la Germania dichiara guerra alla Francia.

L’Italia, senza esser stata mai interpellata pur essendo alleata, e tenuta all’oscuro del testo dello sconsiderato ultimatum, veniva trascinata in una guerra che non era affatto difensiva bensì offensiva: venivamo messi di fronte al fatto compiuto, in modo sleale. Ma non si trattava solo di una spedizione punitiva contro la sola Serbia: la Germania aveva improvvidamente esteso la guerra alla Russia, giocando d’anticipo, senza aspettare che la Russia dichiarasse guerra all’Austria-Ungheria. La guerra era quindi diventata un attacco alla Russia, legata alla Francia da una stretta alleanza, ambedue appoggiate dall’esterno dall’Inghilterra imperiale. Il 3 agosto la Germania, che, secondo le sue azzardate dottrine strategiche, doveva battere almeno uno dei suoi poderosi avversari in breve tempo, colpendolo d’incontro grazie alla sua leggendaria rapidità di mobilitazione, schieramento ed esecuzione, per non trovarsi impegnata su due fronti (come poi avvenne), dichiarò dunque guerra alla Francia e invase il Belgio, per aggirare da nord le fortificazioni francesi, dopo aver lanciato un ultimatum al Belgio stesso, chiedendo il libero passaggio: richiesta cui il Belgio, che aveva a sua volta ordinato la mobilitazione generale, rispose picche. Ma il Belgio era neutrale, la sua neutralità, esistente sin dal 1839 (Trattato di Londra), quasi sin dalla nascita del Paese e garantita anche dalla Germania, era considerata vitale dai britannici, assieme a quella dell’Olanda. Sempre il 3 agosto l’Italia si dichiarò ufficialmente neutrale, decisione del tutto corretta: oltre alla Serbia, vittima di una reazione sproporzionata da parte di Vienna, ora veniva attaccato anche il neutrale e pacifico Belgio, cosa che tra l’altro giustificava formalmente, il 4 agosto, l’entrata in guerra della maggior potenza mondiale del tempo, l’Impero Britannico, dichiarata per difendere l’indipendenza del Belgio, dopo aver rivolto ai tedeschi un vano ultimatum affinché si ritirassero da quel Paese.

Nell’intervento inglese giocavano molteplici ragioni strategiche, meno evidenti all’opinione pubblica. Avveniva non solo per impedire che la Germania si installasse sulle coste francesi e belghe e dominasse un domani l’intera Europa (Peter Hart) ma anche per impedire, va aggiunto, che la Germania arrivasse al petrolio del Golfo Persico per via di terra, grazie ai suoi stretti vincoli con la classe dirigente ottomana, evidenti nella costruzione della famosa linea ferroviaria Berlino-Bagdad, come veniva chiamata (e di quella Damasco-Medina o Ferrovia dello Hegiaz, con diramazione sui porti di Acri e Haifa, un vero capolavoro d’ingegneria, che portava i pellegrini mussulmani ai loro luoghi santi). L’imperialismo tedesco era da tempo in lotta accanita con quello inglese e russo nei vasti spazi africani, dell’altopiano etiopico, del Medio Oriente, dell’Asia Centrale, dell’Estremo Oriente. Il suo dinamismo preoccupava assai i britannici ed era di pretesto ai giapponesi, loro alleati dal 1902, per legittimare il proprio, tant’è vero che essi dichiararono guerra alla Germania il 23 agosto del ’14, il 25 all’Austria-Ungheria, si impadronirono di colonie tedesche in Asia, tennero (su invito inglese) una flottiglia di cacciatorpediniere a Malta durante tutta la guerra, impiegandola nella scorta ai convogli. Il Giappone stava entrando a grandi falcate tra le grandi potenze: nel 1894 aveva attaccato la Cina, costringendola a cedergli l’isola di Formosa (Tai-wan) e a riconoscere il suo protettorato sulla Corea. Dopo di che aveva clamorosamente sconfitto in una breve e sanguinosa campagna i russi, che stavano partecipando anch’essi, come i tedeschi e gli altri Stati occidentali, allo smembramento della periferia dell’impero cinese, non meno decrepito di quello ottomano. I russi avevano dovuto cedere Port Arthur in Manciuria, evacuare la Manciuria, cedere la metà sud della penisola di Sakhalin (Trattato di Portsmouth, 5 settembre 1905).

Che alcuni settori nevralgici della dirigenza inglese prendessero in considerazione l’ipotesi di intervenire già prima dell’invasione tedesca del Belgio, lo si intuisce dal fatto che il 26 luglio l’Ammiragliato britannico aveva annullato la dispersione della flotta riunitasi per le manovre estive e il 28 luglio ordinato alla stessa di concentrarsi nelle basi di guerra in stato di all’erta. Il 2 agosto il governo britannico ne ordinò formalmente la mobilitazione, che per quell’impero equivaleva alla mobilitazione generale degli eserciti continentali. L’ordine fu emanato alle ore 1.25 da Wiston Churchill, First Sea Lord ossia ministro della marina (Liddell Hart). Questi movimenti non erano sfuggiti al perspicace Antonino di san Giuliano, sempre molto attento al “fattore Inghilterra”, di essenziale importanza per noi, e sicuramente influirono sulla sua decisione di tenere l’Italia fuori della mischia (Ferraioli).

La guerra era dunque diventata nel giro vorticoso di pochi giorni europea. Il 5 agosto Vienna dichiarò guerra alla Russia, l’11 e il 12 Francia e Regno Unito all’Austria-Ungheria. Fu un tragico miscuglio di errati calcoli di potenza, riflessi appannati, paura, fatalismo, errata valutazione delle intenzioni dell’avversario (austro-tedeschi convinti che i russi non si sarebbero mossi, tedeschi convinti che Londra avrebbe lasciato invadere il Belgio senza intervenire; russi che tramutarono all’improvviso la mobilitazione parziale in generale, senza un valido motivo; inglesi che capirono in ritardo la gravità della situazione; tedeschi e inglesi non ostili ad una guerra che da un lato bloccasse l’imponente riorganizzazione militare russa, dall’altro impedisse alla Germania di diventare la potenza egemone del continente e in Medio Oriente). Fu tutto questo aggrovigliarsi a mettere in moto il meccanismo infernale delle mobilitazioni generali, che nessuno riuscì più a fermare.

L’Italia faceva la figura di chi non soccorreva i suoi alleati, non onorava gli impegni, non voleva battersi. Ma si trattava di una critica superficiale, propagandistica, anche se di facile presa. La realtà era ben diversa: l’irresponsabile e (verso di noi) sleale comportamento austro-tedesco, contro la lettera e lo spirito della Triplice, ci trascinava in una grande guerra europea, contro le grandi Potenze; una guerra che potevamo solo perdere, come poi è successo quasi trent’anni dopo, dovendo farla contro la Potenza imperiale che dominava il Mediterraneo, sorretta per di più dall’appoggio della forte flotta francese (e nella II gm dalla superpotenza americana). Negli anni anteriori al 1914, c’era stata la cosiddetta Dichiarazione Mancini, con la quale i nostri politici avevano ribadito ai nostri imperiali alleati che mai l’Italia sarebbe scesa in guerra contro l’Inghilterra, per evidenti ragioni di insuperabile inferiorità geo-strategica sul mare. Già Cavour aveva detto: “Noi mai in guerra contro la Potenza che domina il Mediterraneo” (Rusconi; Ferraioli). La richiesta di mettere questa dichiarazione nel trattato della Triplice era stata però respinta. Nessun tradimento, dunque, nella nostra dichiarazione di neutralità ma solo difesa dei nostri legittimi interessi e del nostro buon diritto, di fronte al comportamento arrogante, sleale e megalomane dei due Imperi Centrali, che volevano costringerci ad una guerra di aggressione, senza averci consultati (un di San Giuliano avrebbe di sicuro disapprovato fortemente lo sciagurato ultimatum ai serbi) e contro avversari che avrebbero potuto annientare l’esistenza stessa della nostra fragile Nazione unitaria (cosa che a ben vedere riuscirono a fare un trentennio dopo, nella Campagna d’Italia del 1943-45). Inoltre la guerra, se vittoriosa per essa, avrebbe allargato alquanto i domini dell’Austria nei Balcani. Ma le compensazioni per le potenze sue alleate, previste secondo l’uso del tempo nel trattato di alleanza, non venivano indicate per noi, erano lasciate nel vago. Di “compensarci” col Trentino o con Gorizia, per dire, neanche a parlarne, ovviamente.

Certamente, di fronte alla grande strage che è stata quella guerra (soprattutto a partire dal 1916) e alle conseguenze sociali e morali negative di un conflitto del genere, ci si deve chiedere se non sarebbe stato meglio cercare di rimanere neutrali per risparmiare tante vite italiane, rimandando al futuro il pur legittimo compimento dell’unità nazionale sui confini naturali. È sin troppo facile affermare oggi, con il senno del poi, che sarebbe stato meglio restarne fuori, dall’ecatombe universale, costata a noi, in tre anni e sei mesi di lotta, circa 500.000 caduti sul campo e 100.000 nei campi di prigionia. Il fatto è che l’Italia non era e non è la Svizzera. La neutralità, notava Guicciardini, ti garantisce solo se sei più forte dei contendenti (o, aggiungo, se tutti i contendenti sono d’accordo nel mantenerti una neutralità già riconosciuta da tutti, come nel caso della Svizzera, la cui posizione è strategicamente irrilevante). Altrimenti chi vince ti fa poi pagare a caro prezzo la tua neutralità.

Non è affatto detto che saremmo riusciti a mantenerla. Valga l’esempio della Grecia. Governata da una dinastia di origine tedesca, voleva restare neutrale ma i franco-britannici il 5 ottobre 1915 occuparono di loro iniziativa con 13.000 uomini Salonicco, porto di grande importanza strategica per il pericolante fronte balcanico, violando apertamente la neutralità greca. Per la Grecia si iniziò un periodo torbido. Gli Alleati favorirono la nascita (a Salonicco) di un governo interventista, con a capo Eleutherios Venizelos, accanto a quello legale, che dovette alla fine cedere il passo, dopo una serie di ultimatum dei franco-britannici. Venizelos portò il Paese in guerra, soprattutto per il desiderio di veder finalmente crollare l’impero ottomano e acquisirne una parte: ma alla fine, nulla ottenne e l’invasione greca dell’Anatolia finì in un disastro per i greci e le comunità greche ivi presenti. Il corpo di spedizione alleato (l’Armata d’Oriente, comprendente francesi, britannici, greci, truppe serbe salvatesi dalla rotta del 1915, una divisione italiana rafforzata), si rivelò decisivo nel settembre del ’18, quando all’improvviso costrinse la Bulgaria alla capitolazione, aprendo il fianco sud del fronte all’invasione del vasto retroterra asburgico, ormai privo di riserve, inizio del crollo dell’intero fronte degli Imperi Centrali.

Non appena ci dichiarammo neutrali, inglesi, francesi, russi cominciarono subito a farci offerte sottobanco per portarci dalla loro parte. Una traccia se ne trova negli appunti presi ad una riunione del Governo inglese, alle ore 11.30 del 5 agosto 1914, nell’ambito di una accesa discussione per trovare nuovi aderenti alla propria causa. Un membro disse: “Possiamo comprarci l’Italia [Can we buy Italy]?”, ottenendo, come proposta: “Ditele che se passa dalla nostra parte può avere il nostro aiuto contro l’Austria sulla costa adriatica” (Newton). Lo sapevano tutti che la nostra alleanza con l’Austria era solo di facciata, minata sin dall’inizio da reciproci, inconciliabili conflitti d’interesse oltre che da una secolare reciproca ostilità e antipatia (la cui origine, lo ripeto, deve comunque imputarsi alla politica di conquista degli Asburgo nei nostri confronti, costante nei secoli). Nel 1908 (prendendo spunto dal caos creato dal terremoto di Messina) e nel 1911 (sfruttando il nostro gravoso impegno in Libia), il maresciallo Franz Conrad von Hötzendorf, al tempo capo di stato maggiore dell’esercito imperiale asburgico e tipico esponente dei circoli cattolici oltranzisti ostilissimi all’Italia, preparò in segreto un piano per attaccarci di sorpresa, nonostante fossimo suoi alleati (Crankshaw; May; Rusconi) – piano che destò l’interesse anche di ambienti dello stato maggiore svizzero, desiderosi di riconquistare la Valtellina, sottratta nel Seicento dagli Spagnoli, al tempo padroni del Ducato di Milano (ricerca di storici locali di alcuni anni fa, riportata dal Corriere della Sera). Inoltre, Conrad aveva cominciato a fortificare da anni il confine austriaco con l’Italia, nel Trentino e sulle montagne prospicienti l’Isonzo, facendone un baluardo difensivo formidabile, possibile ben munita base di partenza delle sue progettate offensive contro di noi (Pozzato).

Di fatto, nell’agosto del ’14, la Triplice era morta e sepolta e non certo per colpa nostra, anche se così poteva sembrare. Cominciarono allora trattative segrete dell’ Italia, con l’Intesa da un lato e la Germania e l’Austria dall’altro – gli uni volevano tirarci dentro la guerra, gli altri tenerci fuori, soprattutto con l’offerta del Trentino, fatta però (in perfetta malafede) soprattutto dai tedeschi (tanto, dicevano cinicamente agli austriaci, se perdiamo, lo perdiamo comunque; se vinciamo ce lo riprendiamo - Rusconi). Vienna fece sempre orecchie da mercante, irritando non poco i suoi alleati. I suoi governanti, oltre a disprezzarci, non ci prendevano sul serio: il capo del governo ungherese, conte István Tisza, ci liquidava come “nazione militarmente debole e codarda” (Rusconi). Al Trentino, parte dei suoi possessi personali come Conte del Tirolo, incamerato a partire dal 1490 dal citato Massimiliano I, era particolarmente affezionato Francesco Giuseppe, che vi si recava sempre in vacanza: sembra abbia detto che avrebbe abdicato piuttosto che darlo a noi. Solo il 27 marzo del ’15 Vienna disse ufficialmente di esser disposta a darci Trento con parte limitata del suo territorio, risultando esclusi i territori trentini possessi feudali della Corona. Un’offerta col contagocce, che non poteva soddisfarci. Noi avevamo fatto presenti anche a Vienna le nostre richieste, le stesse avanzate all’Intesa, indubbiamente onerose (e persino esose) dal punto di vista austriaco. Non si può dire che avessimo taciuto i nostri ambiziosi obbiettivi territoriali, Vienna poteva capire perfettamente che cosa ci avrebbe concesso l’Intesa, ai suoi danni. Ma una controproposta accettabile se fatta mesi prima (tutti i territori di lingua italiana del Trentino e dell’Isonzo con Gradisca; autonomia municipale e università italiana per Trieste; disinteresse per l’Albania) arrivò fuori tempo massimo, nei giorni convulsi che precedettero la nostra dichiarazione di guerra, quando avevamo già denunciato la Triplice, e arrivò solo per iniziativa pressante del Vaticano: avevamo già firmato il Patto di Londra e il re si era impegnato personalmente, cosa nota agli austro-tedeschi, pur ignorando essi i termini esatti dell’accordo, che si potevano comunque facilmente immaginare (Rusconi).

In questa fase di trattative dietro le quinte, si può dire che i politici italiani abbiano mostrato una certa doppiezza, oltre alla spregiudicatezza? Si può dire, certamente. Ma in fatto di doppiezza e spregiudicatezza nemmeno la controparte sembra essersi tirata indietro. Vienna e Berlino si gettarono in un “rischio calcolato” di quel calibro pensando solo ai loro interessi, ignorandoci completamente, come se l’enorme conflitto che si spalancava, causato anche dai loro errati calcoli, non si annunciasse con conseguenze sicuramente catastrofiche per noi, esposti come eravamo alla supremazia marittima franco-britannica. Il peso del “fattore Inghilterra”, vitale per noi, nazione mediterranea, fu sempre ignorato dai nostri aulici alleati. Quando cercavamo di farlo valere, ci rispondevano, come l’ambasciatore austriaco Mérey, che ci avrebbero pensato i tedeschi a mettere a posto gli inglesi, “bombardando Londra con gli Zeppelin” (Rusconi)! Il che poi, tra l’altro, i tedeschi fecero davvero, inviando questi dirigibili più volte su Londra, carichi di piccole bombe, specialmente durante il 1916, senza nessun apprezzabile risultato sul piano militare, ma riuscendo in compenso a far inferocire l’opinione pubblica britannica. Non si potè mai attuare una cooperazione navale austro-italiana (per la reciproca diffidenza e perché gli austriaci non ne vollero mai sapere); non esisteva un autentico coordinamento strategico: né comune né austro-tedesco (Rusconi). Dal punto di vista tedesco, con molto dilettantismo e un pizzico di cinismo, tutto era alla fine affidato ad una rapida vittoria terrestre tedesca (contro le maggiori potenze militari del globo!) che avrebbe risolto tutti i problemi, per tutti. Un atteggiamento in seguito caratteristico anche di Hitler. Nel particolare, quando a Berlino l’ambasciatore italiano Riccardo Bollati, peraltro convinto “triplicista”, insospettito dal tono della stampa locale, chiese il 14 luglio al segretario di Stato Gottlieb von Jagow (ministro degli Esteri) se conosceva le vere intenzioni austriache, costui asserì di non conoscerle, anche se si aspettava “un atto energico” nei confronti della Serbia, per ottenere “garanzie” contro futuri atti terroristici – e a precisa domanda rispose di non sapere quali fossero queste “garanzie”, il che era difficile credere (Rusconi).

“Se il “tradimento” fa parte della sindrome soggettiva del 1915, nessuno storico serio oggi usa più questo concetto per qualificare il comportamento italiano che segue piuttosto la logica dell’interesse nazionale strettamente inteso. Del resto le procedure osservate, sia nella dichiarazione di neutralità dell’agosto 1914 sia nella lunga negoziazione tra Roma e Vienna dal dicembre 1914 all’aprile 1915, conclusasi con la dichiarazione unilaterale italiana di guerra, rispondono alle regole convenzionali della diplomazia del tempo.

Naturalmente si può dare un giudizio negativo sugli obiettivi che tale comportamento persegue e sui modi in cui vengono applicate le procedure. Si può dire che il governo italiano ha sbagliato, che ha assunto atteggiamenti ambigui, che ha simulato e fatto un doppio gioco – come abbiamo noi stessi più volte mostrato. Ma che tutto questo sia qualificabile come “tradimento” in senso moralmente squalificante è una deduzione impropria sul piano politico e diplomatico. Anche perché ci sono atteggiamenti del tutto analoghi da parte austriaca. Non è infatti certamente la lealtà verso l’alleato italiano quella che guida la politica di Vienna tra il luglio 1914 e il maggio 1915, ma uno stretto calcolo di interessi che pretende dall’Italia un’attiva fedeltà alla Triplice Alleanza, senza dare in cambio i vantaggi che stanno veramente a cuore a Roma. Per Vienna l’Italia è sin dall’inizio della crisi del luglio 1914 un’alleata fastidiosa e infida che non va informata sulle proprie intenzioni, che va tenuta buona con vaghe promesse e velate minacce e infine, sotto crescente pericolo, comperata con l’offerta di alcune compensazioni [fatte per di più con la riserva mentale di riprendersele, in caso di vittoria]. Non siamo quindi davanti ad un esempio di “fedeltà all’alleanza” cui l’Italia risponde con il “tradimento”” (Rusconi).

Il dilemma dei politici italiani, una volta dichiarata la neutralità, si può rappresentare, a mio avviso, nel seguente modo:

1. se vinceranno gli austro-tedeschi, ci castigheranno duramente per lo strappo della neutralità, intesa da loro come un tradimento. La fazione legittimista e oltranzista della dirigenza austriaca, dotata di largo séguito nel paese, ne approfitterà per imporre di nuovo la divisione dell’Italia e ristabilire il potere temporale dei Papi così com’era prima dell’Unificazione. Il timore non era così campato in aria come si potrebbe credere. Sembra che un progetto di spartizione completa tra francesi, austriaci, jugoslavi, greci del nostro Paese (“cobelligerante” ma sempre “nemico” da punire duramente) sia stato proposto da Sir Anthony Eden, ministro degli esteri britannico e nemico giurato del nome italiano, alla fine della II gm, ma che sia stato respinto dagli americani perché la sua attuazione avrebbe creato in quel momento una situazione ingovernabile.

Di questa possibile, angosciosa ricaduta nel passato preunitario, che nemmeno durante la Grande Guerra era meramente teorica, era colpevole la classe dirigente liberale. In nome dell’ideologia del “libera Chiesa in libero Stato”, aveva sì stabilito unilateralmente tutta una serie di garanzie, anche economiche, per la libertà del Papa e della Chiesa-istituzione con la legge detta appunto “delle Guarentigie”, del 18 maggio 1871, ma si era rifiutata di riconoscere al Pontefice una pur minima sovranità territoriale, di vero organismo statale indipendente e sovrano, come giustamente preteso dal Pontefice, che in conseguenza mai aveva potuto riconoscere formalmente quella legge. Per la mentalità dei politici di scuola liberale era inconcepibile che il papato avesse e potesse riavere un potere temporale: la religione doveva ritenersi solo un fatto dello spirito, regolato dalla coscienza individuale. Gravati dal rapporto conflittuale con la Chiesa, i governanti italiani del tempo miravano sempre ad escludere i nunzi apostolici da ogni organismo o incontro internazionale che si occupasse dei problemi della guerra o di negoziati di pace proprio perchè temevano che essi sollevassero la “questione romana”. Non per nulla, l’art. XV del Patto di Londra recitava: “La Francia, la Gran Bretagna e la Russia appoggeranno l’opposizione che l’Italia formerà ad ogni proposta tendente ad introdurre un rappresentante della Santa Sede in tutti i negoziati per la pace e per il regolamento delle questioni sollevate dalla presente guerra” (Cervone, che riporta il testo del Patto in appendice). La questione, come sappiamo, fu poi risolta dagli Accordi Lateranensi, tra Mussolini e il cardinal Gasparri, nel 1929.

2. Se entriamo in guerra accanto agli austro-tedeschi, veniamo di sicuro sopraffatti dal soverchiante potere marittimo britannico e alleato, che, a parte gli aspetti militari, può affamarci già con il semplice blocco navale. E in caso di sua vittoria, l’Intesa, come ci tratterebbe? La dirigenza della Terza Repubblica, anche se repubblicana e massonica, non era meno ostile all’Italia unita della Francia di Napoleone III. L’opinione pubblica francese, e non solo quella ultramontana e reazionaria, sembrava aver preso l’unificazione italiana come un’offesa personale. Rimanendo neutrali, anche una vittoria dell’Intesa si presentava carica di gravi incognite. Se già in tempo di pace le Potenze con le quali eravamo alleati ci ignoravano completamente in tempo di crisi, figuriamoci i vincitori del futuro, sicuramente desiderosi di imporre la loro volontà a tutto il mondo, neutrali compresi: di noi, in particolare i francesi, avrebbero potuto fare strame.

L’Italia, per dirla parafrasando Guicciardini, “non ci ha amici”. Innanzitutto a causa della sua posizione geografica, che ne fa un crocevia strategico imprescindibile per vaste aree, balcaniche, mediterranee, africane. Poi perché è un piccolo Stato, destinato ad essere una potenza medio-piccola e i rapporti di forza sono quelli che sono: ci condannano ad un ruolo che per gli altri dovrebbe essere sempre subalterno, e dovremmo essere noi a batterci per imporre pari dignità di trattamento. Infine, per la scarsa considerazione di cui gode, sul piano più generale del rispetto, di quella che Machiavelli chiamava reputazione, cosa della quale siamo responsabili anche noi italiani, sempre intenti a mettere in piazza i nostri difetti, veri e presunti, dimostrando in tal modo di non avere il senso dell’onore come popolo e come nazione e di essere afflitti da notevoli complessi d’inferiorità.

In certi ambienti, soprattutto cattolici, si è diffusa la moda, oggi, di rimpiangere l’Italia pre-unitaria poiché si ritiene che l’esser divisi, deboli, disarmati e pacifici ci tenesse al riparo dalle guerre e guerricciole altrui, garantendoci di sopravvivere in una supposta Arcadia, immune dai mali del progresso, amorevolmente tutelati dal “paternalismo” pontificio, borbonico, granducale e ducale... Niente di più falso. Oltre alle varie campagne condotte ad intervalli in Italia nel Seicento, bisogna sapere che nelle guerre di successione dinastica verificatesi in Europa nella prima metà del Settecento, eserciti austriaci, francesi, spagnoli, con i piemontesi saltuariamente presenti, si affrontarono ripetutamente nel Bel Paese, violando allegramente anche l’imbelle neutralità dello Stato Pontificio, della Repubblica di Venezia, di quella di Genova, i più antichi Stati della penisola. Gravi furono all’epoca le angustie e i tormenti delle disgraziate popolazioni italiane, del tutto indifese, vittime di ogni sorta di requisizioni, soprusi e violenze. Durante la guerra di successione austriaca, combattuta ampiamente anche in Italia tra il 1742 e il 1745, il papa allora regnante, Benedetto XIV, disse, ad un certo punto, che i suoi Stati gli parevano “in verità ridotti all’esterminio” da spagnoli e austriaci. Disse anche che, “fra le idee che a volte ci girano in testa vi è anche quella di comporre un trattato De martirio per neutralitatem” (Venturi).

Naturalmente, quelli che ho cercato di esporre sono gli argomenti della politica nella sua obbiettiva razionalità, fondata sui fatti e sulla logica dei rapporti di forza, gli unici che nei momenti decisivi contino veramente, forse anche più del fattore morale, pur essenziale. Ed erano sicuramente presenti alla mente dei nostri rappresentanti anche se il discorso pubblico era dominato dalla retorica e dal non-detto, dagli aspetti passionali, dallo strepito degli interventisti, a sfondo eversivo presso una parte di loro; dalle feroci polemiche contro pacifisti e neutralisti. Si accese una battaglia di idee e ideali contrapposti, che scatenò le passioni politiche più violente.

Se fossimo stati capaci di adottare un bello stile, col dichiarare la neutralità non avremmo dovuto formalmente uscire dalla Triplice, denunciando lo sleale comportamento verso di noi da parte dei nostri imperiali alleati? Sarebbe stato bello, indubbiamente. E non solo bello, sarebbe stato anche dignitoso, nobile e coraggioso, lineare. Sarebbe stata tuttavia, in termini realistici, una mossa alquanto rischiosa, data la nostra debolezza militare, la mancanza di autosufficienza economica, l’assenza di una tradizione unitaria. La linearità, nella politica internazionale, è spesso un lusso riservato agli Stati forti, dominatori della situazione. Noi, saremmo rimasti isolati, esposti alle eventuali, pesanti ritorsioni militari dei nostri ex-alleati (solo per un momento pur prese da loro in considerazione durante il periodo delle trattative segrete); contemporaneamente, avremmo dovuto subire ogni ricatto da parte dell’Intesa, che avrebbe potuto agire con noi come contro la neutrale ed isolata Grecia: farci comunque entrare in guerra e alle sue condizioni assai più che alle nostre. Le offerte di acquisizioni territoriali che l’Intesa ci faceva, assai vicine ai nostri desideri, avvenivano per strapparci alla Triplice e portarci con loro. Se noi ce ne fossimo andati prima ancora di trattare, la nostra posizione negoziale non si sarebbe forse indebolita in modo irreparabile?

A far propender alla fine per l’entrata in guerra è stato anche il “fattore morale” ossia la convinzione, in una parte importante del fronte interventista, che una guerra generale come quella avrebbe rifatto l’Europa da cima a fondo, chiunque avesse vinto, ragion per cui bisognava parteciparvi se si voleva cercare di rimanere padroni del proprio destino. Su questa intuizione si innestava poi la convinzione che l’unità nazionale, ancora ampiamente deficitaria a causa delle nostre indifendibili frontiere del Nord, dell’Est e adriatiche, non si sarebbe potuta conseguire se non con una guerra vittoriosa contro l’Austria-Ungheria, che nulla aveva mai concesso a noi e nulla avrebbe mai concesso, se non costretta con la forza. E una vittoria contro uno Stato ben più potente del nostro si poteva conseguire solo entrando in una coalizione di grandi Potenze. Ma restammo per lunghi mesi nella Triplice, una volta dichiarata la neutralità, anche perché il nostro governo non sembra aver avuto subito le idee chiare sul da farsi: si restò indecisi a lungo, sotto le spinte contrarie di un’opinione pubblica divisa e nella consapevolezza della modestia dei nostri armamenti, nonché di certe nostre debolezze strutturali, anche psicologiche.

La Grande Guerra non scaturì dal nulla. Nessuna delle grandi Potenze voleva provocare apertamente una guerra europea e mondiale. Tuttavia, l’aria era da almeno due decenni satura di elettricità, si delineava sempre più evidente la voglia di una resa di conti reciproca tra grandi imperi, impegnati nella lotta per la supremazia mondiale. I nazionalismi furono usati come detonatori ma la radice della crisi si trovava in quella contrapposizioni tra imperi che stava sfociando in uno scontro diretto, frontale, insomma in una guerra di proporzioni apocalittiche.

Gli stranieri ci accusavano di viltà e ci deridevano perché, dicevano, il nostro Risorgimento aveva fatto astutamente l’unità d’Italia con le vittorie degli altri, francesi e prussiani – nel 1859 e nel 1866. Ora si trattava di portare finalmente a termine l’opera di quasi un secolo di lotte, dimostrando la falsità delle accuse, purificando la tempra di tutto il popolo italiano nel crogiuolo che si annunziava; la guerra, da questo punto di vista, diventava l’occasione del nostro riscatto morale contro il nemico che da più di tre secoli ci occupava e opprimeva: l’Asburgo, prima spagnolo e austriaco, poi spagnolo, infine solo austriaco, ora austro-ungarico. Anche per noi la guerra contro l’Austria era la “nostra guerra”, mentre nessuna vera ostilità si provava contro la Germania, con l’eccezione degli interventisti “democratici” e “rivoluzionari”.
2. La tesi del prof. De Mattei: L’Austria-Ungheria, in quanto Stato cattolico, principale nemico da abbattere per le potenze dell’Intesa.
Ma torniamo alla tesi del prof. De Mattei. Dopo aver ricordato che “il 3 novembre [1918] l’impero austro-ungarico aveva firmato a Padova l’armistizio di Villa Giusti con le Forze Alleate”(per l’esattezza a 4 km da Padova, a Villa Giusti, sulla strada per Abano, sede del nostro Quartier Generale, trattando i rappresentanti austro-ungheresi unicamente con generali e colonnelli italiani, mentre il testo della resa incondizionata alle Potenze alleate e associate, imposta in cambio della concessione dell’armistizio, veniva redatto a Versailles, dal Consiglio Supremo di Guerra Interalleato, riunito quasi in permanenza); dopo aver ricordato le vicende drammatiche che portarono alla rinuncia al governo dello Stato da parte dell’ultimo Asburgo, l’imperatore Carlo I; all’abdicazione del Kaiser Guglielmo II Hohenzollern, all’armistizio concesso alla Germania (sempre in cambio, rammento, della resa incondizionata) e firmato l’11 novembre successivo; l’Autore espone il suo argomento di fondo:
“il 14 dicembre [1918] il presidente americano incontrò a Parigi il primo ministro francese Georges Clemenceau. I due uomini politici furono i principali artefici della repubblicanizzazione dell’Europa che seguì alla Prima Guerra Mondiale. Clemenceau, mistico del giacobinismo, vedeva nella vittoria il compimento degli ideali della Rivoluzione francese. Wilson voleva trasformare il globo in una confederazione di repubbliche rigorosamente uguali, ricalcate sugli Stati Uniti d’America. Il principale ostacolo da abbattere era l’Austria-Ungheria, ultimo riflesso della Christianitas medioevale. Charles Seymour, uno dei negoziatori americani del Trattato di Versailles, ricorda: “La Conferenza di pace si trovò posta nella posizione di un autentico liquidatore dello Stato asburgico (…) in forza del principio di autodeterminazione dei popoli, spettava alle nazioni danubiane di determinare da sole il loro destino””.
Il prof. De Mattei vede un significato che potremmo definire teologico nell’azione dei politici francese e americani, per i quali la lotta contro la religione cattolica sarebbe stata un interesse prevalente o quasi. Si sarebbe trattato, per costoro, di eliminare del tutto l’eredità del Sacro Romano Impero, istituzione che, secondo il prof. De Mattei, rappresentava l’incarnazione stessa dell’Europa cattolica: “il Sacro Romano Impero – egli conclude - era stato ufficialmente dissolto da Napoleone nel 1806, ma l’Austria-Ungheria continuò a svolgere fino al 1918 la sua missione, costituendo il fulcro dell’equilibrio e della stabilità dell’Europa”.

È vero che Clemenceau e Wilson erano due “mistici laici” della democrazia, il primo di quella di tipo giacobino erede dell’estremismo ideologico anticristiano e anticlericale della Rivoluzione francese, il secondo di quella anglo-americana, missionaria dei laici diritti dell’uomo e della american way of life in tutto il globo. Entrambi comunque ben attenti, osservo, a fare spregiudicatamente gli interessi dei loro rispettivi Paesi nelle aree che consideravano vitali (il Messico e l’America Centrale per Wilson; il Reno, Fiume, i Balcani, il Medio Oriente, i possessi coloniali per Clemenceau). Ed è vero che negli ultimi mesi della guerra la propaganda e la stampa anglo-americana ebbero mano libera nello scagliarsi contro la Duplice Monarchia, invocandone la dissoluzione, con slogan che spacciavano inaudite falsità: “L’Austria-Ungheria non è uno Stato europeo. È un sistema asiatico di oppressione, un sultanato che vive e opera, scevro di ogni spirito civile, nel vuoto assoluto” (l’inglese Wickam Steed, citato da Wolf Giusti).

Tuttavia, il quadro generale degli eventi appare più articolato di quanto la sintetica rappresentazione del prof. De Mattei faccia presumere. La tesi che lo scopo essenziale della guerra fosse per francesi e americani soprattutto la lotta alla religione, ragion per cui l’avversario da abbattere sarebbe stato soprattutto l’Austria-Ungheria in quanto unico Stato cattolico rimasto dalla Cristianità medievale: tale tesi sembra trasformare in motivo primario un motivo sicuramente presente ma politicamente secondario, costituito dall’avversione al cattolicesimo.

L’autorevole storico, forse ritenendolo mera propaganda di guerra, non dà evidentemente il dovuto peso al fatto che per britannici, francesi e americani l’avversario principale, quello da distruggere, era uno Stato protestante, la luterana e laica Germania: il militarismo tedesco, con i suoi risvolti pangermanisti. La religione non c’entrava. Era la formidabile Germania guglielmina a far veramente paura, con le sue poderose forze armate, di terra e di mare, la sua aggressiva politica di espansione coloniale e imperiale su scala mondiale (vedi supra). Non si può dire facesse molta paura l’Austria-Ungheria, Stato assai più antico, ancora vitale ma da tempo in seria crisi politica perché bisognoso di radicali riforme costituzionali di tipo federale, già inutilmente dibattute da decenni al suo interno; riforme che dessero maggior spazio all’elemento slavo di contro a quello tedesco e magiaro (c.d. trialismo); riforme, comunque, di impossibile attuazione per l’incrociarsi feroce dei divieti nazionalistici (tedeschi contro cèchi; ungheresi contro romeni e croati; croati contro serbi; austro-tedeschi timorosi di perdere la loro posizione di preminenza e spesso in latente conflitto con gli ungheresi). Uno Stato, comunque, che Londra aveva sempre ritenuto suo alleato, sin dall’inizio del Settecento, in quanto strumento essenziale di quella politica europea dell’equilibrio continentale così cara agli inglesi perché così utile ai loro interessi imperiali. Costituivano gli Asburgo, agli occhi dei britannici, la “sentinella austriaca”, che impediva ai Russi di dilagare nei Balcani ed occupare gli Stretti. Tale funzione gli Asburgo espletavano anche agli occhi di francesi e prussiani. Tutte le grandi potenze occidentali cercavano di mantenere in piedi in qualche modo l’impero ottomano, in funzione antirussa, e ciò comportava la conservazione della Duplice Monarchia. La politica di Bismarck per i Balcani era quella di non coinvolgervi la Germania e di organizzarvi due coabitanti sfere d’influenza: austriaca ad ovest, russa ad est, ma senza far cadere l’impero turco, per quanto fatiscente, che andava tenuto in vita, anche se dimidiato di tutta la sua parte europea, ad eccezione della Tracia. Sarebbe crollato, quell’impero, nell’ottobre del 1918, dopo quattro anni di estenuante guerra, sotto l’attacco britannico, dalla Mesopotamia (oggi Irak), dall’Egitto, dalla penisola arabica.

In ogni caso, nel 1917, indurre l’Austria-Ungheria ad una pace separata significava anche indebolire la Germania, che sarebbe stata costretta a disperdere le proprie forze nell’Europa orientale e nei Balcani, in sostituzione di quelle imperiali e regie.
3. Critica della tesi del prof. De Mattei:
3.1 Gli Stati Uniti, quando entrarono nel conflitto il 2 aprile 1917, dichiararono guerra unicamente alla Germania. All’Austria-Ungheria solo il 7 dicembre successivo, ben 8 mesi e 5 giorni dopo e solo dopo molte pressioni.

Questo fatto conferma, con ogni evidenza, quanto sempre detto da Woodrow Wilson e cioè che l’avversario principale era e restava il “militarismo tedesco” non la monarchia asburgica. Egli dichiarò guerra alla Duplice Monarchia solo il 7 dicembre 1917. Non tanto per soddisfare le richieste italiane in questo senso quanto perché, dal punto di vista politico e morale, lo richiedeva la situazione difficile, per noi e quindi per l’Intesa, che si era creata dopo il rovescio di Caporetto. La Russia era crollata, gli eserciti degli Imperi Centrali dilagavano nei Balcani e in tutta l’Europa orientale. L’Italia sembrava vacillare. L’esercito francese era in piena crisi morale e di riorganizzazione dopo i vasti ammutinamenti (nascosti dalle autorità) dell’estate del ’17, seguìti al fallimento delle sanguinose offensive lanciate dal generale Nivelle. L’uscita dell’Italia dalla guerra avrebbe creato gravissimi problemi strategici all’Intesa, con l’eventuale occupazione austriaca e tedesca dell’intera valle del Po sino all’arco alpino e forse anche sino a Genova. Gli Alleati avrebbero dovuto schierare numerose divisioni sulle Alpi francesi, indebolendo pericolosamente la linea che fronteggiava i tedeschi, in via di rafforzamento con le truppe rese libere dal disfacimento dell’esercito imperiale zarista. Le divisioni americane in Francia erano all’epoca solo quattro.

Wilson fece la sua dichiarazione dopo che, in durissimi combattimenti durati dal 10 al 26 novembre, avevamo definitivamente bloccato l’avanzata austro-tedesca sulla linea Altipiani-Grappa-Piave, noi da soli in prima linea con le nostre fanterie (con le divisioni che si erano ritirate dall’Isonzo, dalla Carnia e dal Cadore, dopo lo sfondamento di Caporetto, ove fu distrutta l’ala sinistra del fronte isontino non l’intero esercito (come qualcuno continua a ripetere falsamente ancor oggi), abbandonando molto materiale e infrastrutture, ma mantenendo la coesione e un buon ordine, combattendo), mentre alle nostre spalle si era in fretta schierata una forte riserva strategica costituita inizialmente da 11 divisioni franco-britanniche e relativa logistica (250.000 uomini ben provvisti di artiglieria) poi ridotte rapidamente a cinque. Per l’anno circa che restava di guerra, Wilson avrebbe mandato in Italia un ospedale da campo con ricco parco di autoambulanze, seguìto dal 332° Reggimento di fanteria, quattromila uomini al comando del colonnello Wallace, aggregato da noi alla 31a divisione di fanteria, inserita nella Riserva del Comando Supremo. Il Reggimento prese parte alla fase finale della Battaglia di Vittorio Veneto, con perdite minime. Questo fu il contributo strettamente militare di Wilson al fronte che combatteva contro il supposto “ostacolo principale” da abbattere per vincere la guerra. Dall’esperienza dell’ospedale militare americano nacque il celebre romanzo A Farewell to Arms, di Ernst Hemingway, volontario in quell’ospedale, nel quale è descritta la ritirata di Caporetto, peraltro con ampio uso di particolari di fantasia, visto che lo scrittore, immaginifico per natura, non vi partecipò personalmente. Non ci venne mai meno, tuttavia, il fondamentale (non gratuito) aiuto americano in crediti, materiali e materie prime, viveri.

Quando annunciò al Congresso il 4 dicembre 1917 che stava per dichiarare guerra all’Austria-Ungheria, Wilson si premurò di sottolineare che, pur dichiarando guerra, “noi non desideriamo in alcun modo menomare o risistemare l’Impero austro-ungarico”; concetto ribadito, in sostanza, al n. 10 dei suoi famosi 14 punti, resi noti al mondo nel gennaio del 1918, per indicare le condizioni alle quali si doveva finire la guerra per costruire una pace mondiale duratura (10. “Ai popoli dell’Austria-Ungheria, alla quale noi desideriamo salvaguardare ed assicurare un posto tra le nazioni, deve essere accordata la più ampia possibilità per il loro sviluppo autonomo”).

3.2 La verità è che per tutto il 1917 e fino alla primavera del ’18 ci furono ripetuti tentativi angloamericani per indurre la Duplice Monarchia ad una pace separata, staccandola dal mortale abbraccio tedesco.

Wilson, sino alla fine di marzo del 1918, si associò ai ripetuti tentativi inglesi, auspice il primo ministro Lloyd George, di indurre l’Austria-Ungheria ad una pace separata, per isolare la Germania e salvare lo Stato danubiano quale futuro fattore d’equilibrio in Europa Centrale, sia pure a struttura federale e inevitabilmente ridimensionato. Si trattava di iniziative serie, tant’è vero che se ne preoccupò vivamente Edoardo Beneš, uno dei capi all’estero del partito cèco votato allo smembramento della Monarchia per ottenere una Cecoslovacchia del tutto indipendente (Giusti).

Contatti segreti soprattutto con i francesi per una pace non separata, l’imperatore Carlo li aveva presi abbastanza presto, dopo esser succeduto il 21 novembre 1916 al prozio Francesco Giuseppe, deceduto per vecchiaia, dopo un lunghissimo regno di quasi 68 anni. I complessi negoziati segreti condotti dal cognato dell’imperatore, principe Sisto di Borbone-Parma, ufficiale dell’esercito belga, non giunsero ad imbastire proposte concrete di negoziato, anche perché l’imperatore escluse caparbiamente l’Italia da qualsiasi concessione territoriale, cosa che francesi e inglesi non potevano formalmente accettare. Eravamo entrati in quella terribile guerra liberamente ma anche richiesti da loro, sin dall’Agosto del ’14; da loro, che si trovavano nel 1914 e nel 1915 in notevole difficoltà: non potevano ora trattare con il nostro nemico una pace separata ignorandoci completamente. L’atteggiamento austriaco nei nostri confronti veniva giustificato con motivazioni moralistiche e storiche, quali l’aver noi “tradito” la loro alleanza, l’esser noi per loro il “nemico ereditario”, anzi “ancestrale” cui tutto l’impero era da sempre avverso, senza remissione (ci accusavano di aver tradito un’alleanza per loro stessi falsa perché con “il nemico ereditario”). Il dato di fondo, a mio giudizio, era il secolare disprezzo asburgico per gli italiani, in generale, considerati una razza inferiore, dal Papa all’umile facchino: un sentire peraltro abbastanza diffuso in Europa, accomunante aristocrazia e plebi.

“L’Italia era da secoli punto di convergenza dell’Europa, scuola, campo di battaglia, premio al vincitore, santuario, colonia di sfruttamento, terra di piacere e di riposo, demanio collettivo. Le genti si erano abituate a considerarla soggetta ad una specie di servitù internazionale, in omaggio ai superiori diritti dell’arte o della religione o della politica dei grandi Stati. Quindi, interesse grande; ma anche contrarietà” (Gioacchino Volpe). E dell’italiano l’unica immagine era quella negativa del settario e avventuriero, dell’attaccabrighe, dell’imbroglione e donnaiolo. C’era ammirazione per i segni del passato (presso i più colti) ma il più grande disprezzo per l’italiano del presente, per “la terra dei morti”, come la chiamò il poeta francese Lamartine. Sempre Volpe ricordava un giudizio dello storico prussiano Heinrich von Treitschke: “Questa nazione di vivo ingegno passava nel mondo per un popolo servile, ricco di spirito e di perfidia, incapace di libertà civile. Ogni anno, migliaia di forestieri percorrevano la penisola e si formavano un giudizio dalla marmaglia dei mendicanti e facchini e ciceroni che li assediava mercanteggiando…”.

Che ci fosse stata una evidente decadenza, rispetto alle virtù civiche e militari dei faziosissimi ma liberi e vitali Comuni, delle Repubbliche marinare e alle glorie artistiche e culturali del Medio Evo, dell’Umanesimo e del Rinascimento, non si poteva comunque negare: decadenza civile, politica e militare, ma anche culturale, nonostante la presenza di grandi figure isolate come Giordano Bruno, Galileo o Gian Battista Vico, e una costante ripresa spirituale (nella cultura) a partire dalla seconda metà del Settecento. Questa decadenza era stata anche il risultato dell’asservimento secolare (anche economico) alle Grandi Potenze europee, in primis alla Spagna asburgica. Al tempo dei Borboni di Napoli, l’Inghilterra era l’unica beneficiaria dei proventi dello zolfo siciliano, del quale i suoi capitalisti avevano il monopolio. Quando nel 1838 il governo borbonico tentò una convenzione più vantaggiosa con capitalisti francesi, il governo inglese impose una “umiliante retromarcia” (Spagnoletti).

Le “preponderanze straniere”, come le chiamava Cesare Balbo, avevano accentuato i nostri difetti, sul piano civico e morale, favorendo il tradizionale particolarismo e una vita senza ideali, provinciale, dominata dal conformismo, se non dal servilismo nei confronti dello straniero e dell’autorità locale, mentre le plebi rimanevano nella miseria e nell’ignoranza. A questo proposito sono sempre istruttive le riflessioni del Leopardi, nel suo Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani, del 1824: costumi, a suo giudizio, incapaci di dar vita a una vera etica civile, poiché gli italiani, dietro l’omaggio formale alla religione e alle autorità, vivevano all’insegna di uno sconsolante “ognun per sè, Dio per tutti”.

“Gl’italiani hanno piuttosto usanze e abitudini che costumi. Poche usanze e abitudini hanno che si possano dire nazionali, ma queste poche, e l’altre assai più numerose che si possono e debbono dir provinciali e municipali, sono seguite piuttosto per sola assuefazione che per ispirito alcuno o nazionale o provinciale, per forza di natura, perchè il contraffar loro o l’ometterle sia molto pericoloso dal lato dell’opinione pubblica, come è nell’altre nazioni, e perchè quando pur lo fosse, questo pericolo sia molto temuto. Ma questo realmente non v’è, perchè lo spirito pubblico in Italia è tale, che, salvo il prescritto dalle leggi e ordinanze de’ principi, lascia a ciascuno quasi intera libertà di condursi in tutto il resto come gli aggrada, senza che il pubblico se ne impacci […] Gli usi e costumi in Italia si riducono generalmente a questo, che ciascuno segua l’uso e il costume proprio, qual che egli si sia…” (Leopardi). Questa situazione dipendeva anche dalla natura della vita sociale, chiusa da quasi tre secoli in una sconfortante, gretta mediocrità: “Ora il passeggio, gli spettacoli e le Chiese sono le principali occasioni di società che hanno gl’italiani, e in essi consiste, si può dire, tutta la loro società (parlando indipendentemente da quella che spetta ai bisogni di prima necessità), perchè gl’italiani non amano la vita domestica, nè gustano la conversazione o certo non l’hanno. Essi dunque passeggiano, vanno agli spettacoli e divertimenti, alla messa e alla predica, alle feste sacre e profane. Ecco tutta la vita e le occupazioni di tutte le classi non bisognose in Italia. Conseguenza necessaria di questo è che gl’italiani non temono e non curano per conto alcuno di essere o parer diversi l’uno dall’altro, e ciascuno dal pubblico, in nessuna cosa e in nessun senso” (Leopardi).

Eccessivi questi giudizi del grande poeta, costretto a vivere in piccoli ed asfittici centri di provincia come Recanati? Davvero gli italiani del tempo “non amavano la vita domestica e non gustavano la conversazione”? In Italia era pur sempre forte il senso della famiglia, come si diceva una volta, e la famiglia era anche intesa come quel porto sicuro, quel valore, sorretto dalla religione, che non tramontava e aiutava a tener duro di fronte alle ambascie e angherie del mondo esterno, ai soprusi dell’autorità, alle disgrazie, agli eventi che potevano travolgerci, alle guerre…Forze vive non mancavano ma sembravano destinate a rimanere latenti o ad esprimersi solo a livello individuale e spesso al servizio degli stranieri. Ma Leopardi, credo, mirava soprattutto a denunciare un vuoto, la mancanza di una vera dimensione civile nazionale, basata su costumi sottoposti al giudizio di un’opinione pubblica che avesse il senso della dignità e dell’onore nazionali. E in questo coglieva indubbiamente nel segno.

Arthur J. May, nella sua celebrata monografia in tre volumi sulla monarchia asburgica dal 1867 al 1918, scrive che, secondo l’ambasciatore tedesco, si notavano “disprezzo e persino odio per l’Italia: era questo l’unico punto sul quale l’opinione pubblica fosse quasi unanime in Austria – soltanto una guerra con l’Italia sarebbe veramente popolare nella monarchia asburgica”. E lo scriveva, l’ambasciatore, non nel 1915 ma nel 1906!

Stupisce comunque, anche a distanza di un secolo, la mancanza di realismo e di intelligenza politica della classe dirigente austro-ungherese, nel momento decisivo. L’imperatore Carlo era disposto a riconoscere le pretese della Francia alla restituzione dell’Alsazia e della Lorena, cedendo in cambio all’impero tedesco possessi austriaci (non ereditari) nell’Europa orientale: sarebbe bastato che riconoscesse le aspirazioni italiane sul Trentino o gran parte di esso (Tirolo di lingua italiana, per gli austriaci o Welschtirol – vedi supra) con qualche piccola aggiunta o anche senza aggiunta. Escludendo a priori l’Italia dalle possibili trattative di pace, rendeva a priori impossibili le stesse, pur trovandosi ormai il suo impero in difficoltà interne sempre più gravi. Il principio plurisecolare che non si dovessero mai cedere territori dell’impero, tanto meno al “nemico ancestrale” italiano, ribadito ossessivamente da Francesco Giuseppe, venne mantenuto rigidamente da Carlo sino al crollo dell’impero stesso, crollo cui contribuì anche quella rigidità.

Lo scoglio della mancata offerta (come base negoziale) di qualsiasi lembo di territorio, anche piccolo, all’Italia, fu poi di nuovo una grossa pietra d’inciampo nelle successive trattative segrete con inglesi e americani, durate sino alla primavera del 1918. Tutto ciò è stato ben documentato da tempo, in pubblicazioni ufficiali e non, e non è il caso di rifarne la storia qui. Possiamo tuttavia chiederci: perché le trattative non riuscirono mai a decollare? Forse perché Wilson voleva distruggere la Duplice Monarchia? Nient’affatto.
Nonostante la mistica democratica che lo affliggeva, l’antipatia per l’Italia e un’astrattezza di fondo, derivantegli dalla sua formazione culturale, di protestante settario, Wilson era ben capace di valutazioni realistiche. Tutto il suo atteggiamento, sino appunto al fallimento delle trattative segrete, dimostra inequivocabilmente che egli voleva salvare la Duplice Monarchia. Lo stesso deve dirsi del primo ministro britannico, il gallese Lloyd George, personalità del tutto opposta a quella di Wilson: un disincantato e pragmatico Realpolitiker, che ad un certo punto, nel dicembre del 1917, poco dopo Caporetto ma quando il nostro fronte si era stabilizzato sul Piave e sul Grappa, inviò in Isvizzera a trattare con l’ex ambasciatore austriaco a Londra il generale sudafricano Jan Smuts, membro del potente War Cabinet di Londra, uno degli esponenti politici più prestigiosi dell’Impero. Smuts cercò di far capire agli austriaci che l’Intesa non poteva non appoggiare certe richieste territoriali romene, serbe, italiane. Incitò pertanto a formulare il piano per una trasformazione federale dell’Impero e ad indicare, tra l’altro, quali specifiche concessioni Carlo volesse fare all’Italia. Insistette perché Carlo si impegnasse a cedere all’Italia almeno il Trentino, oltre, ovviamente, allo sgombero del Veneto occupato (Valiani). In sostanza, si sarebbe trattato per noi di esser ristabiliti sulla frontiera del ’14, migliorata dall’inclusione del Trentino (credo che, dopo la batosta di Caporetto, per noi sarebbe bastato e avanzato, avremmo dovuto persino ringraziare). Ma gli austriaci risposero picche. Ugualmente, nel marzo del 1918, replicando ad un messaggio di Carlo fattogli pervenire via Spagna, Wilson chiedeva proposte austriache concrete per “il soddisfacimento delle aspirazioni nazionali slave” e proposte concrete “delle concessioni del tutto precise all’Italia” che la Duplice Monarchia sarebbe stata disposta a fare (Valiani). Per discutere seriamente di pace, separata o non, occorrevano proposte concrete dalle quali partire, per poter poi negoziare. E non potevano escludere nessun alleato minore delle Grandi Potenze.

Ma ancora una volta, Carlo ribadì che all’Italia non era intenzionato a far alcuna concessione di territorio dell’impero. In tal modo, ogni trattativa si arenò (Valiani). Non si può dire che l’imperatore facesse delle proposte che poi gli italiani, superbi e infidi, rifiutassero persino di discutere. L’imperatore Carlo non ci vedeva proprio, come si suol dire, scartava a priori l’Italia dal negoziato, come se non esistesse: un atteggiamento tipicamente asburgico nei nostri confronti – non ci hanno mai riconosciuto il diritto di essere un popolo e uno Stato – ma addirittura irresponsabile in quel particolare momento, considerando in quali pessime acque stesse navigando il suo impero e quanto fosse vitale giungere ad una dignitosa pace di compromesso, per la quale comunque aveva buone carte in mano, ancora nella primavera del 1918, prima della sconsiderata offensiva finale tedesca in Francia e asburgica in Italia.

3.3 L’errore decisivo di Carlo d’Asburgo: puntare alla vittoria sul campo, nell’estate del 1918.

Dopo la vittoria di Caporetto e la conquista del Friuli e di parte del Veneto, l’atteggiamento austriaco e ungherese si era irrigidito. Peggio ancora, si lasciò affascinare, la dirigenza austro-ungarica, dal funesto miraggio dello Stato Maggiore tedesco, quello di vincere la guerra anche in Occidente, prima che la presenza americana crescesse oltre ogni limite. Alla fine del 1917 c’erano solamente 4 divisioni statunitensi in Francia, equivalenti ad almeno 6 europee (le divisioni americane di fanteria erano potentemente armate e a pieno organico potevano arrivare a circa 25.000 uomini, contro i 18.000 di una grande divisione francese o britannica). Nel marzo del ’18 erano 6, delle quali 3 in linea, nel maggio 13, 27 in luglio. Nel luglio del 1919 avrebbero dovuto essere 100, una forza gigantesca, da sola superiore all’intero esercito tedesco (Bandini). Invece di pensare a vincere anche ad Ovest con apocalittiche battaglie di annientamento, per le quali non avevano mezzi sufficienti, gli Imperi Centrali, dominatori dei Balcani (esclusa solo la parte meridionale dell’ Albania, tenuta da noi, e la Grecia, tenuta dall’Armata d’Oriente), signori dell’Europa dell’Est dai Paesi Baltici sino alla Crimea dopo il crollo della Russia, date anche le condizioni sempre più penose delle loro lacere e affamate, esauste ed incupite popolazioni; dato, infine, anche l’alto numero di caduti, feriti, mutilati, data insomma la decimazione in corso di un’intera generazione, non avrebbero dovuto darsi attivamente da fare – in special modo il cattolicissimo Carlo – per una seria e generosa pace di compromesso sulla base dei 14 punti di Wilson? Non era forse in questa direzione che si stava muovendo anche la diplomazia vaticana, premendo anch’essa invano sugli austriaci perché, tra l’altro, si impegnassero a fare qualche concessione all’Italia, anche piccola? In realtà nessuno dei capi civili e militari degli Imperi Centrali dimostrò di essere uno statista all’altezza della situazione.

L’imperatore Carlo, cattolico fervente, persona integerrima e animata da un forte senso del dovere e dello Stato, era tuttavia ancor giovane ed inesperto, come uomo di governo. Gli mancò sia la forza di opporsi ai tedeschi e imporsi agli ungheresi, per ciò che riguardava la giusta e vitale esigenza della pace, sia la lucidità del vero statista, capace cioè di vincere le sue personali e asburgiche avversioni in nome della Ragion di Stato, che qui avrebbe coinciso con l’interesse supremo del suo Stato multinazionale, che si doveva trarre urgentemente da quella sciagurata guerra, prima che fosse troppo tardi; cosa che evidentemente richiedeva alcune concessioni territoriali, dolorose e tuttavia sopportabili. Così il conte Ottokar Czernin, il boemo ministro degli esteri austro-ungarico, poco dopo l’inizio tanto folgorante quanto illusorio delle grandi offensive finali tedesche in Francia, a fine marzo del ’18 fece un discorso di sfida al Reichsrat, il parlamento austriaco, facendo capire che l’impero puntava sulla vittoria finale tedesca. Il governo italiano rispose organizzando dall’8 al 10 aprile successivo il Congresso di Roma delle nazionalità soggette all’Austria-Ungheria, le cui conclusioni furono in pratica per la dissoluzione della Duplice Monarchia, in caso di vittoria dell’Intesa.

Errore decisivo, imperdonabile, fu quello dell’imperatore Carlo, nel piegarsi alle sollecitazioni tedesche, che lo esortavano imperiosamente a partecipare alla grande battaglia per la vittoria finale. Si ebbe quindi dal 15 al 24 giugno sul nostro fronte l’ultima grande offensiva degli Asburgo, con tutte le forze rese libere dal crollo del fronte orientale: la Seconda battaglia del Piave o del Solstizio, come la chiamò D’Annunzio, un poderoso attacco su tutta la linea, per travolgerci. Le affamate e lacere fanterie austro-ungariche speravano in una seconda Caporetto per potersi rimpinzare nelle doviziose retrovie del Regio Esercito, rifornite di ogni ben di Dio anche grazie agli aiuti dei suoi alleati, dominatori dei mari, delle risorse agricole di mezzo mondo, delle fonti di petrolio e di altre materie prime. L’ultima offensiva della vecchia Austria, come è stata chiamata, si risolse in uno scacco cocente, nonostante un inizio promettente sul Piave. Il fronte italiano tenne egregiamente e l’Imperiale e Regio Esercito dovette ripassare il fiume: da quel momento, avendo bruciato le ultime risorse, perse ogni capacità di iniziativa. Poteva solo sperare di resistere sino al conseguimento di una pace possibilmente onorevole. Nell’autorizzare l’avventata offensiva, contro il parere dei suoi generali più esperti, condotta sottovalutando il nemico e per di più senza una direttrice principale d’attacco ben delineata, Carlo si dimostrò inesperto e incapace di ben valutare la situazione, come comandante in capo (Fiala). Fors’anche vanesio, se è vera (come sembra) la storia dei timbri e delle targhe ricordo fatti preparare per l’occupazione, data per scontata, di Venezia e Milano e la preparazione della cerimonia per assegnare il bastone di Maresciallo all’imperatore, in Vicenza non appena la si fosse conquistata (Cervone; Primicerj).

La sorprendente beatificazione di questo imperatore ha prodotto in Italia una pubblicistica apologetica che ha fabbricato il santino del Beato Carlo, uomo di pace piangente per le perdite sul campo di battaglia, mirante solo a finire al più presto la guerra con una giusta pace per tutti, un’anima pia imbevuta di amore del prossimo, frustrata nei suoi alti propositi e preghiere dalla perfidia e dalla cattiveria dei nemici…È quasi superfluo rilevare che una simile pappa del cuore non ha nulla a che vedere con l’autentico Carlo d’Asburgo. Fu comandante di battaglione sul fronte orientale e poi di un corpo d’armata, cioè di due divisioni – circa 22.700 uomini su 26 battaglioni con 250 cannoni di vario calibro, operativamente dirette da uno dei migliori capi di stato maggiore austro-ungarici, il generale Alfred von Waldstätten. Il corpo combattè contro di noi nel 1916 nella Battaglia degli Altipiani (la c.d Strafexpedition, la fallita offensiva strategica di Conrad, vedi infra). Per le sue qualità di comandante capace e coraggioso fu benvoluto dai soldati, tra i quali militò anche il padre di Giovanni Paolo II. Mise in atto i ricordati tentativi di pace ma non esitò mai nell’impiegare con la massima determinazione tutti i mezzi in possesso del suo esercito, dalle mazze ferrate e dalle corte accette delle sue fanterie all’uso massiccio dei gas, per vincere le battaglie sul campo, in particolare contro di noi, il detestato “nemico ancestrale”. Come dicono i francesi, “la guerra è la guerra”. Era il capo di un esercito e uno Stato impegnati in una lotta mortale per la sopravvivenza, non delle Dame di San Vincenzo o delle Figlie di Maria.

Dopo il fallimento dell’offensiva del giugno del ‘18, Carlo cambiò atteggiamento e cominciò a chiedere pressantemente la pace sulla base dei 14 punti di Wilson, mentre in Francia iniziava da agosto l’inesorabile riflusso dei tedeschi, incalzati dalle controffensive alleate: la richiesta divenne drammatica, dopo che il 29 di settembre improvvisamente l’alleata Bulgaria capitolò senza condizioni, aprendo la strada dell’indifesa Sofia, di Belgrado, di Budapest agli eserciti dell’Intesa, avanzanti dai Balcani meridionali: non c’erano più riserve per tappare la falla. Ma a quel punto, sentendosi la vittoria in pugno, gli Angloamericani cominciarono a far orecchie da mercante. Dopo il fallimento delle trattative segrete e la svolta bellicista della dirigenza austriaca, la propaganda alleata, diretta dallo spregiudicato Lord Northcliffe, un irlandese proprietario della stampa inglese più importante, aveva iniziato a martellare lo slogan Austriam delendam (vedi supra). La dissoluzione dell’Impero era ormai inarrestabile, era cominciata spontaneamente dal 16 di ottobre 1918, di fronte al profilarsi della sconfitta, dopo la capitolazione della Bulgaria, quando Carlo si era visto costretto ad esortare i suoi popoli a darsi un ordinamento di tipo federale (ma ormai era troppo tardi), cosa che aveva spinto gli ungheresi a dichiarare unilateralmente decaduto il Compromesso costituzionale del 1867. La costituzione della Duplice Monarchia non c’era più: stavano nascendo lo Stato cecoslovacco, il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, uno Stato ungherese indipendente mentre i risuscitati romeni addirittura avanzavano verso Budapest; la Polonia austriaca stava confluendo nel nuovo Stato polacco. L’impero cominciò a dissolversi nelle sue nazionalità ben prima dei Diktat imposti alla Conferenza della Pace di Versailles.

Il 25 ottobre, un giorno dopo l’inizio della nostra offensiva finale, i deputati italiani al Parlamento di Vienna, costituitisi il giorno prima in Fascio nazionale italiano, con Alcide De Gasperi come segretario, dichiararono “che tutti i territori italiani, finora soggetti alla Monarchia austro-ungarica […] si debbono ormai ritenere come appartenenti allo Stato italiano”(Craveri). I trentini molto avevano sofferto durante la guerra. Rovereto, retrovia del fronte, fu brutalmente saccheggiata dalle stesse truppe imperiali, nell’ultimo anno di guerra, quasi fosse territorio nemico. Quarantamila i richiamati, inviati sul fronte orientale; decine di migliaia gli internati e deportati in Austria ed oltre; molte famiglie vennero divise, furono imposte restrizioni di ogni tipo. Trentacinquemila trentini riuscirono a fuggire nel Regno d’Italia. Vennero lasciati in loco soprattutto i trentini di sicura fede asburgica, quelli che venivano mandati a dileggiare i soldati italiani prigionieri (Pieropan). Ci fu una forte ripresa del pangermanesimo tirolese dopo Caporetto (“un solo Sud Tirolo [tedesco] dal Brennero alle Chiuse di Verona”, era il suo tipico slogan antiitaliano, che coagulava quello dei nazionalisti tirolesi dell’Ottocento: “Non esiste alcun ‘Trentino’ né geograficamente, né storicamente, né linguisticamente, né economicamente”) (Craveri; Ferrandi). Il nazionalismo tedesco e austro-tedesco non si è mai accontentato della sola provincia di Bolzano, col Brennero. Ha sempre cercato di dominare l’intera vallata dell’Adige, che gli apriva la strada al controllo della Pianura Padana e all’invasione dell’Italia. Per i nazionalisti tedeschi la frontiera con l’Italia dovrebbe essere addirittura al M i n c i o .

Wilson, agendo al di là e contro lo spirito dei suoi stessi 14 punti, smentendo disinvoltamente il principio da lui tanto vantato della “pace senza vincitori né vinti”, pretendeva ora abdicazioni e rese incondizionate, imponeva la pace di Brenno. Dichiarò superato il punto n. 10, appoggiando in pieno l’indipendenza cecoslovacca e la formazione di uno Stato jugoslavo.

Dal punto di vista militare, tedeschi e austriaci stavano tentando di ritirarsi a difesa dei rispettivi confini nazionali anche se senza un piano organico comune. Lo Stato imperiale stava scomparendo ma l’esercito imperiale e regio, nonostante le diminuite scorte, le diserzioni e gli ammutinamenti nelle retrovie, teneva ancora in prima linea. Gli austriaci pensavano inizialmente di potersi ritirare con calma dal Veneto e dal Friuli, a sezioni, in un tempo che poteva durare anche mesi! (Cervone) L’esercito tedesco, pur non avendo più riserve e scarseggiando di viveri e munizioni, teneva ancora bene la linea, anche se non più continua, soprattutto grazie alla qualità straordinaria dei suoi ufficiali (Bandini). Cercava di ripiegare per gradi sul Reno, l’armistizio lo sorprese ancora in Francia, quasi sui confini del ’14; fatto che avrebbe poi consentito di fabbricare l’infame leggenda di un esercito tedesco ancora vittorioso “pugnalato alle spalle” dai politici che avevano accettato l’armistizio implicante la resa incondizionata, ovviamente “traditori” e ovviamente complici del “bolscevismo giudaico”. Il deputato cattolico Matthias Erzberger, che aveva dovuto sottoscrivere il documento armistiziale, fu poco dopo assassinato da due tedeschi di estrema destra. L’intenzione di tedeschi e austriaci era quella di resistere ancora per qualche tempo, di arrivare all’inverno, nella speranza di strappare condizioni di pace meno dure: gli Alleati, ad eccezione degli americani, erano anch’essi stremati. Ma la pur tardiva offensiva italiana (24 ottobre - 4 novembre, Terza Battaglia del Piave o di Vittorio Veneto), durante la quale, dopo cinque giorni di aspri combattimenti, il Regio Esercito italiano e i suoi alleati sfondarono (il 28 ottobre) il fronte dell’indebolito Imperiale e Regio sul Piave, mandò all’aria questi disperati piani dell’ultima ora.

L’Austria-Ungheria si vide costretta (dalla mattina del 29 ottobre) a chiedere urgentemente un armistizio. Dopo convulse trattative, fu concesso dal Consiglio Interalleato installato a Parigi solo in cambio dello sgombero immediato del Veneto e di una resa incondizionata, cose che dovevano esser materialmente trattate con gli italiani (e non con gli americani, come avrebbe voluto Carlo). Il crollo militare asburgico apriva l’indifesa e ormai indifendibile Germania meridionale all’invasione da parte delle forze dell’Intesa. I tedeschi, in irreversibile ritirata ma non ancora battuti, furono quindi costretti ad accettare rapidamente le condizioni dell’armistizio già chiesto da loro il 3 ottobre, in un momento di panico poi rientrato, quando ebbero l’impressione errata che il loro fronte stesse per cedere di colpo. Queste condizioni contemplavano un’umiliante capitolazione incondizionata, ordinante anche la consegna della flotta: come si è detto, sottoscritta l’11 novembre, otto giorni dopo quella austriaca. Tra il 29 e il 30 ottobre cominciarono ad ammutinarsi i marinai della flotta tedesca, a Kiel, rifiutandosi di obbedire all’ordine di uscire in mare per attaccare il traffico inglese lungo le coste olandesi e belghe. Chiedevano la pace non la rivoluzione. Il 4 novembre gli ammutinati si impadronirono di Kiel ed elessero Consigli di soldati, alla maniera bolscevica. Il moto diventò nazionale dal 9 novembre (Rosenberg). Anche nella Duplice Monarchia vi erano in quei primi giorni di novembre moti di piazza e conati rivoluzionari. Il bolscevismo di colpo sembrava dilagare. La Battaglia di Vittorio Veneto non decise l’esito della guerra, ormai segnato a favore dell’Intesa, a causa dell’inarrestabile esaurimento dell’avversario; contribuì però ad accelerarne la fine e in senso del tutto favorevole alla stessa Intesa, che ebbe un’arma in più per costringere i tedeschi ad accettare rapidamente la resa incondizionata, senza discutere.

“Un effetto importante di questa prolungata discussione [nel War Cabinet imperiale britannico] fu che le condizioni da proporre alla Germania furono definitivamente stabilite solo dopo la capitolazione dell’Austria, cosa che, come aveva previsto astutamente Lloyd George, consentiva agli alleati di “imporre alla Germania termini più duri” con minori probabilità di rifiuto. I tedeschi furono indotti ad accettare frettolosamente questi termini non tanto dalla situazione esistente sul fronte occidentale quanto piuttosto dal crollo del “fronte interno”, cui si aggiungeva il pericolo di un nuovo colpo alle spalle attraverso l’Austria”(Liddell Hart). Il precedente “colpo” era stato il collasso della Bulgaria. Il collasso militare austriaco in Italia non lo provocò ma contribuì al “crollo del fronte interno” in Germania: esso dimostrava all’improvviso a tutti i tedeschi che la guerra era irrimediabilmente perduta.

Il generale Erich Ludendorff, Capo di Stato Maggiore dell’esercito imperiale tedesco, uno dei maggiori responsabili della sconfitta finale, scrisse ad implicita conferma in una lettera del 7 novembre 1919: “A Vittorio Veneto l’Austria non aveva perduto una battaglia, ma aveva perduto la guerra e se stessa, trascinando la Germania nella propria rovina. Senza la battaglia distruttrice di Vittorio Veneto noi avremmo potuto, in unione d’armi con la Monarchia austro-ungarica, continuare la resistenza disperata per tutto l’inverno, avere in tal modo il tempo e la possibilità di conseguire una pace meno dura, perché gli Alleati erano molto stanchi” (Faldella).

Sì, “tutto crollò, il centro non resse più, sul mondo si scatenò l’anarchia”. Ma in questo tragico “crollo” finale di u n mondo, quanta parte vi ebbero anche gli errori di valutazione e le vedute ristrette, i pregiudizi e la superbia dei militari tedeschi e dei governanti e militari austro-ungarici, incluso l’imperatore Carlo? Forse la storiografia e la saggistica di impostazione cattolica “tradizionalista” e tutti gli adepti del “mito asburgico” dovrebbero porsi quest’interrogativo, a un secolo di distanza. E magari chiedersi quanto effettivamente cattolico fosse rimasto il supposto centro dell’Europa costituito dalla Monarchia Danubiana, pur continuando ad essere nel complesso uno Stato cattolico.
4. Nell’impero austro-ungarico il “riflesso della Christianitas medievale” appariva ormai opaco, messo in crisi dalla rinascita del giuseppismo e dal diffondersi dello spirito del Secolo:
4.1 Il rilassarsi della morale

L’immagine di una monarchia danubiana integralmente cattolica sino alla fine, centro e baluardo immarcescibile della fede e della morale cattolica nel mare magnum della cultura e pseudocultura materialistica e anticristiana, di tipo positivistico e scientifico da un lato, irrazionalistico dall’altro, che si era diffusa sin dalla seconda metà dell’Ottocento, andrebbe a mio giudizio anch’essa rivista. In questo senso: è vero che si era conservata la “Christianitas medievale” ma piuttosto diluita, per così dire, nell’inarrestabile processo di secolarizzazione, ben all’opera anche nello Stato asburgico e non contrastato nel dovuto modo dall’istituzione imperiale. Sotto il lunghissimo regno di Francesco Giuseppe il giuseppismo non era stato solo un ricordo del passato, c’era stata una sua riesumazione. Né si può dire che la morale della classe dirigente si fosse mantenuta al livello richiesto dalla vera pratica cattolica.

Francesco Giuseppe ebbe un matrimonio infelice e la moglie, l’imperatrice Elisabetta, irrequieta ed eccentrica principessa bavarese (da lui scelta come sposa quando aveva solo 16 anni) insofferente della pesante etichetta di corte, si distaccò di fatto da lui dopo la fosca tragedia del suicidio del loro unico figlio maschio (gennaio 1889), iniziando una vita di viaggi continui, con l’ausilio di una semplice dama di compagnia. Questa vita errabonda nel settembre del 1898, sarebbe finita di colpo a Ginevra ad opera dello stiletto di un esaltato e criminale anarchico, l’italiano Luigi Lucheni. L’imperatore emendò in qualche modo la sua solitudine mantenendo una lunga e stabile relazione con una famosa attrice austriaca dell’epoca, separata dal marito. All’imperatrice Elisabetta la vox populi aveva attribuito una grande simpatia (rimasta molto probabilmente platonica) per l’affascinante conte Gyula Andrássi, ministro degli esteri. Sono umane debolezze, dovute anche a circostanze avverse, sarebbe ingeneroso assumere atteggiamenti moralistici.

Non si può tuttavia sottacere la torbida atmosfera nella quale maturò la tristemente famosa tragedia di Mayerling, allorché il depravato ed esaltato giovane erede al trono, frequentatore delle più raffinate cocottes viennesi, il trentenne e (infelicemente) maritato Rodolfo d’Asburgo, si uccise subito dopo aver sparato alla sua ultima amante, la diciassettenne baronessa Maria Vetsera, che, a quanto sembra, aveva accettato di morire con lui. Né lo scandalo del capo del controspionaggio austriaco, il colonnello Redl, omosessuale, indotto dai superiori a suicidarsi (nel maggio del 1913) perché ricattato per anni dai russi, che l’avevano costretto a spiare per loro, con il pagargli i debiti del suo dispendiosissimo regime di vita. Carlo I, esemplare marito e padre, è stato uno dei pochi regnanti asburgici senza amanti o scappatelle checchesia, così come sembra che solo san Luigi IX, Luigi XVI e pochi altri siano stati i Re di Francia capaci di mantenere il talamo incontaminato. La prima favorita ufficialmente in carica di un Re di Francia si chiamava Agnese Sorel, morta nel 1450 poco dopo il quarto parto. Diede quattro figlie a Carlo VII, tutte riconosciute e ben sistemate dal monarca. Così i re cattolici, cristianissimi e apostolici, istituzionalmente difensori della morale cristiana e del matrimonio cattolico, svilivano di fatto l’una e l’altro, dando (in troppi di loro) il cattivo esempio con le loro non esemplari vite private (comunque acqua fresca rispetto a quello che succedeva con il Gran Turco, dove la successione al trono era dominata dagli intrighi intrecciati da mogli, concubine, schiave, eunuchi e per diverse generazioni visse la prassi mostruosa di far strangolare i (numerosi) fratelli di colui che era stato indicato come erede al trono, in un caso sino a sedici in una volta). La colpa dello svilimento del matrimonio cattolico da parte dei regnanti era anche della politica dinastica, che spesso imponeva a prìncipi e principesse che non si erano mai conosciuti prima di sposarsi in nome della ragion di Stato, visto che la moglie portava in genere in dote territori e popoli o preziose alleanze, anche se a volte proprio da queste “doti” scaturivano guerre tremende, come quella detta dei Cento Anni tra inglesi e francesi. O imponeva matrimoni troppo legati ad una concezione angusta dei quarti di nobiltà necessari per la successione al trono.

Queste unioni furono raramente felici. Lo furono, per esempio, nel caso del citato Carlo I con sua moglie Zita di Borbone-Parma; di Maria Teresa d’Austria con Francesco Stefano di Lorena; della coppia granducale assassinata a Sarajevo. Nell’aristocrazia asburgica del tempo sembra che le infedeltà matrimoniali e la licenziosità fossero abbastanza diffuse (il padre di Carlo I, ad esempio, l’arciduca Ottone Francesco, era un libertino notorio; dopo una vita di scandali, morì a soli 41 anni, lontano dalla famiglia, devastato dalla sifilide). Ma anche tra i contadini, in certe regioni dell’impero, e nella stessa Vienna, i figli illegittimi erano relativamente frequenti, ci ricorda Arthur J. May (dal censimento imperiale del 1910, meno del 10 % dei nati, in Dalmazia; più del 37% in Carinzia). Anzi, l’Austria, da statistiche ufficiali del 1909 risultava avere il tasso di illegittimi più alto d’Europa, il 14-15% delle nascite tra il 1896 e il 1900 (Tannenbaum). Mentre non si può dire che la borghesia in ascesa fosse immune da un certo lassismo: la madre del citato grande scrittore austriaco Robert Musil impose al debole marito la presenza ufficiale del suo amante, immortalato il ménage à trois in una foto includente il giovane Robert, nella quale il “decoro borghese” non riesce a nascondere il carattere stralunato e falso della situazione (Cases).

L’aristocrazia austro-ungarica perì in gran numero sui campi di battaglia della Prima Guerra Mondiale, i nobili fecero coraggiosamente il loro dovere sino in fondo, non mancarono di certo nel patriottismo e nel senso dell’onore, nello spirito di sacrificio, allo stesso modo dell’aristocrazia mobilitata negli altri eserciti. Ma nei decenni precedenti la guerra quella fondamentale classe appariva in decadenza, troppo presa anch’essa, salvo le inevitabili eccezioni, dalla tendenza dell’epoca alla “gioia di vivere”, al materialismo, al carpe diem, alle mode di una pseudocultura ammantata di “spiritualità” ovvero pervasa di spiritismo, teosofia, occultismo et similia. Non si sottraeva, quella classe, al clima decadente e al fondo irreligioso della Belle Époque, così ben rappresentato, per la Francia, in certe pagine della proustiana Recherche, per ciò che riguarda il suo aspetto più raffinato. E per la stessa Austria, per l’appunto da L’uomo senza qualità di Musil, il cui primo volume uscì nel 1931, ma dopo lunga gestazione. L’aristocrazia, salvo qualche eccezione, era anche ignorante, nel senso che si limitava ad una cultura minima, superficiale, senza nulla sapere degli orientamenti di pensiero dominanti, preferendo di gran lunga i balli e la caccia, lo sport (May). La grande scrittrice cattolica austro-morava, baronessa Marie von Ebner-Eschenbach (1830-1916), nei suoi racconti e romanzi, pur non trascurando di rappresentare nei suoi personaggi i nobili ancora praticanti le antiche virtù nei confronti di inferiori e contadini, metteva in rilievo la vacuità, l’aridità, la mollezza della vita della maggior parte dell’aristocrazia, di contro alla condizione dura e a volte miserabile dei contadini, incitando invano i nobili a mutare il proprio modo di vivere per dedicarsi invece “a riforme per il progresso e la rinascita della monarchia” (May; Magris).

Il tumultuoso sviluppo industriale e commerciale, demografico e sociale nell’impero, a partire dal Compromesso del 1867 (Ausgleich), positivo per i miglioramenti di vita e l’ampliarsi della cultura ma negativo per la mentalità materialistica e utilitaristica che contribuiva a far sorgere, sembrava livellare tutto, distruggendo tradizioni e valori secolari, anche estetici e paesaggistici, demolendo antichi rapporti di classe e nello stesso tempo instaurandone di nuovi, più fluidi; provocando l’accumularsi di forze materiali e spirituali soverchianti, che sarebbero poi deflagrate nella guerra mondiale. Di questa situazione risentì in particolare la religione cattolica.

In tutta la società colta europea era abbastanza diffuso l’indifferentismo nei riguardi della religione, e persino l’ostilità vera e propria, diffusa anche tra le masse dal socialismo e dal marxismo avanzanti grazie allo sviluppo di un vasto proletariato urbano, provocato dalla rivoluzione industriale. Anche esponenti prestigiosi della cultura accademica più elevata, imbevuti com’erano di positivistico disdegno per la religione, liquidavano il cristianesimo quale espressione di una mentalità pre-scientifica, animistica, come dicevano. Da quella mentalità scaturì poi il noto opuscolo dell’ateo e miscredente Sigmund Freud intitolato L’avvenire di un’illusione, dove “l’illusione” sarebbe stata la religione, interpretata in termini di nevrosi da sottoporre a terapia!

L’Austria-Ungheria non si sottraeva al clima generale, nonostante la partecipazione dell’imperatore e della nobiltà ai riti religiosi quotidiani, imposti anche nelle scuole militari, e alle imponenti festività religiose tradizionali, con recite pubbliche del Rosario da parte del monarca, in ginocchio come gli altri. E difatti arrivò la Grande Guerra, che fu un castigo tremendo per tutti, vincitori e vinti; anche se per noi italiani, non dobbiamo mai dimenticarlo, fu, con l’eroico sacrificio di un’intera generazione, il prezzo di sangue che dovemmo pagare per riscattarci da quasi quattro secoli di servitù e umiliazioni di ogni tipo e ricostituirci finalmente come popolo libero e sovrano nella pienezza dei suoi confini naturali.

4.2 Il Sacro Romano Impero tra ideale e realtà

Bisognerebbe poi precisare, a mio modesto avviso, cosa si intende effettivamente con “Christianitas medievale”, al di là dell’idea di una religiosità mantenutasi nell’Austria-Ungheria in modo per vari aspetti (formalmente) simile a quella praticata nel Medio Evo, epoca cristiana per eccellenza. La nozione risulterebbe discutibile se identificata, come suo simbolo, con l’istituzione del Sacro Romano Impero, che in realtà di quella Christianitas fu solo una componente, per di più contestata da monarchie nazionali, liberi comuni, papato. Anzi, le lotte feroci tra comuni italiani e impero e tra papato e impero per questioni temporali che poi tracimarono nel dogma, con l’ereticale proclamazione della superiorità dell’imperatore sul Papa, provocata, questa deriva, anche dalla crisi della Scolastica scaduta nel nominalismo e nel volontarismo; tali lotte indebolirono notevolmente la medievale Christianitas, mettendola in crisi prima ancora dell’avvento dell’Umanesimo.

Il Sacro Romano Impero, che il miscredente ed irriverente Voltaire definiva non del tutto a torto “né romano, né impero”, non coincise mai con la totalità dei popoli europei occidentali. La sua “romanità” era un’astrazione, se da riferirsi al “popolo romano”, scomparso da secoli, assieme al suo impero, rimasto in piedi nella sua parte orientale, ma come Stato greco, bizantino e non più romano. Il “rinnovato” o meglio reinventato impero, con l’incoronazione di Carlo Magno, Re dei Franchi, da parte del Papa la notte di Natale dell’AD 800, dalla fine del X secolo fu uno Stato tedesco con l’Italia come sua appendice. Si aggiunsero secoli più tardi, sotto la dinastia asburgica, le “appendici” vallone, slave e ungheresi. Si trovò a dover sempre lottare contro altri Stati europei (p.e. contro la monarchia francese e quella polacca) e al proprio interno (all’epoca degli imperatori tedeschi) contro la nobiltà, i regni più piccoli, i comuni, le città libere: una frammentazione politica che non si riuscì mai a ridurre, in Germania e in Italia. Esiziale fu il conflitto con il papato, che comunque non ne uscì affatto indenne, sul piano politico e spirituale. Dopo la fase iniziale, delle conquiste consolidatesi nella unitaria civiltà carolingia, che durò in buona salute solo per qualche decennio, poco dopo la morte di Carlo Magno (814) l’impero fu travagliato da crisi gravissime, devastato per circa un secolo dalle guerre civili e dalle nuove invasioni barbariche (Vikinghi, Ungari, Saraceni); sprofondò in un caos sanguinoso che coinvolse anche lo Stato della Chiesa e dal quale risorse non come effettivo, restaurato impero (a parte il nome) bensì come Stato tedesco in formazione, uno Stato accanto agli altri, p.e. alla monarchia francese nascente a sua volta dalle ceneri dell’impero carolingio, grazie ai Capetingi, e alla monarchie slave e ungheresi.

Ma lo Stato tedesco restò sempre suddiviso in molteplici entità territoriali, sino al 1871, anche se non occupato dagli stranieri. Ciò dipese in larga misura dal fatto che il peso dell’impero “romano” lo obbligò a sprecare grandi energie nello sforzo di tenere l’Italia, troppo spesso ribelle, ragion per cui l’autorità imperiale nella stessa Germania era debole, vittima di infiniti compromessi e lotte (anche cruente) con il particolarismo interno. E le lotte medievali per l’indipendenza comunale e pontificia concorsero a mantenere divisa anche l’Italia, a farvi trionfare l’endemico e settario particolarismo, iniziatosi dopo la nefasta Guerra Gotica (535-554) che riconquistò per breve tempo l’Italia all’impero romano d’Oriente, ma devastandola completamente. Dall’appartenere all’impero, l’Italia ebbe qualche vantaggio, per esempio quando l’imperatore scendeva con il suo esercito a combattere contro i Saraceni, a difendersi dai quali tuttavia dovevano provvedere in genere i potentati italiani, con le loro scarse risorse. E vantaggio ne ebbe il Papa, quando invocava l’aiuto imperiale contro gli eretici o contro le fazioni romane che lo attaccavano o i rivoluzionari isolati come Arnaldo da Brescia o Cola di Rienzo. Ma non esitavano i Papi a chiamare il popolo e le fazioni alla rivolta contro l’imperatore, quando era lui ad angariarli, il che non accadde di rado. Maggiori furono gli svantaggi, dipendenti in primo luogo dal fatto che le nostre organizzazioni politico-territoriali (non ecclesiastiche) dovevano aver sempre il beneplacito imperiale per esser considerate legittime ossia l’approvazione di un sovrano nei fatti straniero, che procedè anche, come potè, all’intedescamento delle nostre zone alpine. Quando il Sacro Romano Impero fu formalmente abolito da Napoleone, scrisse Luigi Salvatorelli, “l’Italia fu liberata da una delle più gravi schiavitù reali e ideali gravante da secoli su di lei, e da cui i vecchi Stati italiani non erano per sé riusciti a liberarla mai”.

Rappresentava certamente, l’idea dell’impero, un elevato ideale di governo universale cristiano, in accordo con il Papato. L’ideale di un governo che difendeva i sudditi da tutti i pericoli, puniva i malvagi, premiava i meritevoli, insomma attuava la giustizia in tutte le sue forme, mettendo sotto controllo la molteplicità degli interessi e delle fazioni, delle passioni, nell’esercizio di un potere uno e unitario perché fondato sulla vera religione e sui valori di un’aristocrazia cosciente della sua missione. Ma, al dunque, questo alto e nobile ideale ebbe sempre un’attuazione difficile, stentata, contestata e limitata da ogni lato, sia per ragioni interne che esterne. Quando l’ufficio imperiale divenne elettivo, aperto a tutti i maneggi dei prìncipi, la sua autorità si indebolì ulteriormente. I momenti di unione, di slancio concorde dei componenti la politicamente e socialmente frammentata Christianitas medievale, furono rari, nonostante l’unità di fede e di costumi, garantita dal Magistero della Chiesa.

Con la Pace di Westfalia del 1648, sigillante la Guerra dei Trent’anni, iniziata per questioni religiose ma risoltasi con il prevalere del nuovo soggetto politico, gli Stati nazionali sovrani, tutti monarchie tranne le repubbliche mercantili olandese, svizzera, di Venezia, l’impero era in sostanza definitivamente tramontato come realizzazione politica e spirituale di una Christianitas unitaria; ben prima, dunque, che Napoleone ne imponesse la soppressione formale nel 1806. Infatti, quella pace aveva riconosciuto anche ai calvinisti la libertà di culto già concessa con la cinquecentesca Pace di Augusta ai luterani (1555) e, tra le inutili proteste del Pontefice Innocenzo X, aveva regolato la disposizione di numerosi beni ecclesiastici in modo minuzioso, attribuendone molti in feudo a prìncipi protestanti. Inoltre, aveva limitato il potere degli Asburgo, titolari dell’impero, dando vita ad una elastica Confederazione Germanica e conferendo maggior libertà e potenza a Stati tedeschi come la Baviera e la Prussia. È da notare che la Bolla di protesta di Innocenzo X, del 26 novembre 1648, non fu nemmeno pubblicata a Vienna, ormai acquisita al nuovo spirito (Bettanini).

Lo Stato che si fondava sul suo proprio sovrano potere fu la risposta laica alle guerre di religione che avevano devastato l’Europa per più di un secolo, creando una situazione di guerra civile semipermanente, rivelatasi impossibile a risolversi sul piano religioso, cioè con il riassorbimento dello scisma dei protestanti eretici. Il potere sovrano si scindeva dalla vera religione: si affermava, infatti, il principio della libertà di culto, in modo che in ogni Stato si imponesse la religione del detentore del potere, cattolico o protestante che fosse (cuius regio, eius religio: la religione sia di colui cui appartiene il territorio).

L’impero austriaco, deciso nel 1804 sui domini ereditari asburgici, si poneva in evidente successione ideale con il Sacro Romano Impero, soppresso per imposizione di Napoleone nel 1806. Ma si trattava semplicemente di uno Stato cattolico che riaffermava la continuità con le sue istituzioni, con se stesso, con la sua tradizione, nella nuova forma costituzionale imposta dalle circostanze storiche, esse stesse il risultato di una situazione maturatasi in un lungo arco di tempo. Sparivano la sacertà e la fittizia romanità. Finiva l’equivoco, restava lo Stato cattolico, la monarchia multietnica austriaca, danubiana e balcanica, la cui creazione specifica era la Mitteleuropa, che di “romano” non aveva nulla. Ma cattolico, come? Esteriormente, con molteplici “riflessi” della Cattolicità medievale, in uno Stato che istituzionalmente proteggeva e privilegiava la vera religione, fondamento del costume e dell’etica, sia privata che pubblica, nel rispetto dei suoi istituti e della solennità e puntigliosità delle forme di culto e devozionali tramandate; ma con cedimenti anche vistosi alle infiltrazioni liberali, o comunque allo spirito del Secolo, che già si spingeva oltre la “mentalità liberale”; cedimenti evidenti nei rapporti fra Stato e Chiesa, nella vita morale e di famiglia, nel costume. E anche nella cultura, che vedeva il predominio di concezioni del mondo sempre più laiche e sempre meno cattoliche.

4.3 Le contraddizioni dell’asburgico “cattolicesimo illuminato”, anticuriale, filogiansenista e anticlericale prima della Rivoluzione Francese, filoliberale all’epoca di Francesco Giuseppe.

L’assolutismo illuminato aveva trovato proprio in Austria, in uno dei figli di Maria Teresa, fratello di Maria Antonietta, l’imperatore Giuseppe II di Asburgo-Lorena, uno dei suoi artefici più radicali, deciso a riformare la società in tutti i suoi aspetti secondo i canoni del razionalismo illuminista allora culturalmente prevalente – razionalismo che, del resto, sotto la spinta di necessità concrete sempre più forti, aveva cominciato ad apparire anche nel riformismo teresiano. Molte riforme erano necessarie, a cominciare da quelle riguardanti la riorganizzazione amministrativa dello Stato, la riduzione dei privilegi fiscali della nobiltà e del clero, la pubblica salute, la lotta all’analfabetismo, la possibilità di esprimere le proprie opinioni politiche, le condizioni dei contadini.

Tuttavia Giuseppe II, poco curandosi della sensibilità e delle tradizioni dei suoi sudditi, diede alle riforme un taglio tendenzialmente astratto e, quel ch’è peggio, accentuatamente anticlericale oltre che imposto dall’alto con maniacale regolamentazione burocratica, con tendenza ad entrare nel merito delle questioni di culto e religiose. Si lasciò influenzare dalle tesi del Fabronius, al secolo Johan Nikolaus von Honthein, vescovo suffraganeo, poi ritrattatosi in punto di morte, il quale affermava che il Papa dovesse considerarsi solo un primus inter pares e che dovessero crearsi delle chiese nazionali (S. K. Padover). Giuseppe II fece dei vescovi e del clero degli impiegati dello Stato; concesse libertà a tutti i culti con un editto di tolleranza; iniziò l’emancipazione civile degli ebrei; attenuò la censura, avocandola allo Stato, e concesse la libertà di stampa; cominciò a sviluppare un’istruzione pubblica obbligatoria, di Stato; eliminò numerosi conventi degli ordini contemplativi e mendicanti, incamerandone le vaste proprietà, il cui ricavato impiegava per il sostentamento del clero e per le riforme civili.

La Massoneria, all’epoca molto diffusa in tutta l’Europa colta sino ad esser diventata una vera e propria moda, fiorì notevolmente sotto di lui, che non risulta esser stato iniziato. Del resto il padre, marito di Maria Teresa, Francesco Stefano di Lorena, Granduca di Toscana e poi Imperatore, era massone, gran maestro di una delle Logge viennesi (e difatti la scomunica della Setta, fulminata nel 1738 da Clemente XII, non fu pubblicata in Austria [Padover]). In Toscana, Francesco Stefano, iniziatosi a Londra, contribuì al fiorire delle Logge, ivi introdotte da residenti inglesi (Mola). Il figlio Pietro Leopoldo, granduca di Toscana e poi per due anni imperatore nel 1790 alla morte di Giuseppe II suo fratello, fu in Toscana un grande riformatore però anticlericale anzi anticuriale, favorevole al giansenismo e alla formazione di una Chiesa di Stato, insomma promotore di una politica ecclesiastica simile a quella di Giuseppe II. Nel 1786 favorì il famoso Sinodo di Pistoia, nel quale i giansenisti subornarono la gran parte dei parroci ignari partecipanti (delle sue 86 proposizioni, Pio VI ne condannò poi sette come eretiche e le altre come “prossime all’eresia, false, scandalose” [Wandruzska]). Questi granduchi e imperatori imbevuti dello spirito del Secolo praticavano in realtà, già nel Settecento, un cattolicesimo cosiddetto ragionevole, illuminato, adattato ai tempi, pur attuando sempre scrupolosamente i loro doveri formali di sovrani cattolici, protettori della vera religione.

“Il cattolicesimo illuminato di derivazione lorenese, ispirato a Fénelon e Muratori, non senza numerosi apporti postgiansenisti, e con qualche venatura perfino massonica, non escludeva né in Francesco Stefano né nei figli e neppure nei figli di questi uno stretto e coscienzioso adempimento dei doveri religiosi. Sappiamo che Francesco Stefano imponeva ai figli la quotidiana preghiera del mattino, l’ascolto quotidiano della Messa, l’esame di coscienza serale, la frequente confessione (caratteristico che tenesse molto più alla confessione, assai meno alla comunione): tutti princìpi che ritroviamo esposti in una delle memorie trovate tra le sue carte dopo la sua morte. È anche vero che, pur astraendo dal fatto che la stretta osservanza dei doveri religiosi era considerata obbligo morale di un sovrano cristiano e imperatore del Sacro Romano Impero, tanto per Francesco Stefano quanto più tardi per i figli Giuseppe e Leopoldo, essa era anche premessa indispensabile per poter andare d’accordo con Maria Teresa, di così stretta e così rigorosa osservanza religiosa. Che la coscienza di una assoluta ortodossia cattolica presso Maria Teresa come presso Giuseppe e Leopoldo si accompagnasse poi a forti interferenze nella vita ecclesiastica, a controversie violente con la Curia di Roma, con aperte prese di posizione a favore di tendenze e personalità gianseniste, può apparire a noi uomini del XX secolo una insolubile contraddizione, ma secondo ogni più attendibile testimonianza dell’epoca, né l’imperatrice né i suoi figli ebbero mai coscienza di una tale contraddizione” (Wandruzska).

Gli ultimi anni di Giuseppe II furono tristi. Anche per colpa delle numerose riforme oltre che di una difficile guerra contro gli ottomani, il peso fiscale era diventato greve, intere province si ribellavano, come l’Ungheria e soprattutto i ricchi Paesi Bassi austriaci, l’attuale Belgio, che gli Asburgo avrebbero presto perso nel turbine che stava cominciando ad investire l’Europa, a causa della Rivoluzione Francese. Giuseppe II morì nel febbraio del 1790, angosciato dalla Rivoluzione scoppiata solo l’estate precedente, pentito delle sue riforme e dopo aver revocato la libertà di stampa, che del resto aveva provocato anche notevoli effetti negativi, quali l’impressionante diffondersi di una letteratura di bassissima lega, non solo anticlericale ma anche libertina, per non dire pornografica (S. K. Padover).

4.4 L’Italia “appendice austriaca” nell’epoca della Restaurazione

Dopo il turbine rivoluzionario e napoleonico, momentaneamente scomparsa dalla scena la Francia, l’Austria appariva effettivamente la potenza egemone nell’Europa continentale, in particolare in Italia, ridotta la nostra penisola quasi ad una “appendice austriaca” (May). Si salvava solo il Regno di Sardegna: Piemonte, Liguria, Sardegna, come Regno autenticamente indipendente. All’inizio del Settecento, venuto meno il lungo dominio spagnolo, l’Austria, dopo varie campagne militari in casa nostra, si era impadronita della Lombardia, tranne la parte sotto la sovranità veneziana. L’aveva persa ad opera di Napoleone, che ne aveva fatto il nucleo di un piccolo Regno d’Italia sotto tutela francese ma strutturato come Stato indipendente, esteso al nord sino al Brennero, ad Est sino all’Isonzo, a Sud sino alle Marche, dotato di istituzioni civili e militari moderne, sul modello francese. La Lombardia l’Austria l’aveva riacquistata nel 1815. Al Congresso di Vienna, l’impero austriaco dovette rinunciare ai Paesi Bassi meridionali e a qualche possedimento lungo il Reno ma acquistò la Dalmazia, l’Istria occidentale, alcune isole adriatiche, tutti possessi veneziani, la stessa Venezia con il Veneto, la Lombardia. Fu creato il Regno del Lombardo-Veneto, governato da Vienna tramite un Vicerè che risiedeva a Monza. Rami della dinastia austriaca continuavano a regnare a Parma, Modena (considerata “terza progenitura asburgica”) e nel Granducato di Toscana (“seconda progenitura asburgica”) mentre lo Stato del Papa e il Regno delle Due Sicilie subivano fortemente l’influenza di Vienna, la quale ottenne a Est anche la Galizia polacca, assorbendo poi la piccola Repubblica di Cracovia.

In base a quale principio del diritto internazionale l’Austria si annetteva la Repubblica di Venezia con tutti i suoi possedimenti? Uno Stato neutrale e pacifico, in pratica disarmato, dissolto e occupato da Napoleone, non avrebbe dovuto esser ripristinato nella sua indipendenza e sovranità, se si fosse voluto applicare il diritto? Ma si disse che i veneziani non avevano combattuto contro il Tiranno, erano stati imbelli, quindi… Ai milanesi e a tutti quegli italiani che cercavano di salvaguardare l’indipendenza del napoleonico Regno d’Italia, in pratica ormai della sola Lombardia, non si disse forse che essi avevano combattuto sino in fondo ma dalla parte sbagliata, appoggiando il Tiranno sino all’ultimo, quindi… Anche la Repubblica di Genova fu assegnata al Piemonte sabaudo, che aveva combattuto sino in fondo contro Napoleone, il quale l’aveva persino incamerato nel suo effimero impero. Il fatto è che la storia non fa sconti. Le due antiche e gloriose Repubbliche erano imbelli e decrepite, campavano solo di ricordi. Ugualmente senescente lo Stato Pontificio, che però non poteva ovviamente esser tolto al Papa.

La Restaurazione aveva ristabilito per l’appunto l’antico ordine, con i suoi pregi, costituiti soprattutto dalla stabilità del governo e dal rispetto per l’autorità, dal ristabilimento della famiglia tradizionale, ma anche con le sue chiusure sociali e tutte le sue ipocrisie, a cominciare dall’occultamento della tradizionale, rapace politica di potenza giustificata con alti princìpi morali, religiosi, dinastici. Lo aveva ristabilito, quest’ordine, anche e soprattutto nei rapporti con la Chiesa cattolica, sanzionati in Austria dal Concordato del 1855, che restituiva alla Chiesa molte delle prerogative sottrattele da Giuseppe II, anche se l’Imperatore manteneva, tra altri antichi privilegi, il diritto di nominare i vescovi: approvata la nomina imperiale dal Papa, i vescovi dovevano poi giurare fedeltà all’imperatore (Huber-Dopsch).

La Restaurazione fu per vari aspetti un fatto positivo. I popoli dovevano pur tirare il fiato, dopo i 26 anni di rivoluzioni, guerre, ingenti perdite umane e materiali, profondi sconvolgimenti spirituali e sociali provocati dalla Rivoluzione Francese e dal Grande Còrso. Ma la quiete durò poco. Le esigenze nuove, imposte dagli inizi dell’industrializzazione collegata allo sviluppo della scienza, dall’espandersi planetario del colonialismo europeo, dall’avanzata della borghesia, dietro la quale già si affacciavano le masse dei proletari sradicati dalle campagne; dall’inquietudine intellettuale di ceti che non si riconoscevano più (e da tempo) nella visione del mondo del cristianesimo, messa in crisi dal pensiero scientifico e filosofico: tutto ciò non trovava gli sbocchi agognati. I quali sbocchi, nel campo politico, si traducevano nella richiesta di costituzioni, anche conservatrici, e di libertà di associazione e di parola, di stampa mentre le élites di popoli sottomessi e divisi da secoli cominciavano ad anelare alla libertà nazionale. Così, dopo conati minori nel 1821 e nel 1830-31, si giunse al 1848, quando, dopo alcuni anni di seria crisi economica, tutta l’Europa andò in fiamme, ad iniziare dalla Sicilia, cosa che non viene mai ricordata: preceduta da agitazioni minori a Milano e a Livorno, Palermo insorse il 12 gennaio, esibendo coccarde tricolori e chiedendo il ripristino della Costituzione del 1812. L’agitazione e i torbidi si estesero in tutta Italia – Parigi insorse il 22 febbraio, cacciando il re Luigi Filippo, che abdicò il 24, andando in esilio in Inghilterra: il 25 fu proclamata la Repubblica. L’impero austriaco sembrò addirittura sul punto di crollare. Grazie alla disunione dei vari Stati italiani (il Regno delle Due Sicilie, dotato di un discreto esercito e una buona flotta, purtroppo si disimpegnò subito dalla lotta per l’indipendenza mentre il Papa toglieva il suo appoggio morale, lasciando partecipare obtorto collo solo formazioni volontarie di suoi sudditi, a titolo personale), l’occupante austriaco riuscì a ristabilire rapidamente la situazione nel nostro Paese ma fu la Russia dell’autocrate moscovita (chiamato in soccorso da Francesco Giuseppe, appena asceso diciottenne al trono) a salvarlo in Ungheria, dando un contributo decisivo alla repressione della rivoluzione nazionale. La Prussia represse senza troppi affanni i rivoluzionari tedeschi. In Austria e Ungheria, si ebbe una vera e propria guerra, civile e convenzionale, molto cruenta (Deák).
5. La vera missione storica dell’Austria: difendere l’Europa dalle invasioni provenienti dall’Est e dai Balcani, civilizzare sia l'Est che i Balcani, abbattere la potenza ottomana.
Seguì un periodo di crisi, anche economica, il cui punto più basso non fu la sconfitta in Italia nella Guerra del 1859 contro Francia e Regno di Sardegna, dovuta soprattutto alla superiorità francese, coniugata all’inettitudine di alcuni generali austriaci e alle cattive condizioni dell’esercito imperiale: fu nel 1866, quando la nascente potenza prussiana spacciò l’esercito austriaco con una rapidità impressionante, in una sola grande battaglia, a Sadowa o Königgrätz, in Boemia, il 3 luglio 1866 (Guerra delle sette settimane). Magro contentino per gli austriaci la duplice vittoria, terrestre e navale, contro di noi, che avevamo le forze armate e la flotta ancora in fase di rodaggio unitario, poco amalgamate e soprattutto mal dirette da un comando supremo nei fatti incapace di operare. La guerra finì quasi subito, per gli italiani non ci fu neanche il tempo di riorganizzarsi e cercare di vendicare le due sconfitte subite, mentre l’avanzata vittoriosa di Garibaldi e del generale Medici nel Trentino dovette essere bloccata e poi annullata, non rientrando il Trentino nei territori che al tempo si potevano togliere all’Austria.

Nel ‘66 l’Austria perse anche il Veneto, concessoci comunque da Bismarck in ottemperanza ai patti pregressi, acquisto confermato da un plebiscito praticamente unanime dei veneti. In sette anni l’Austria aveva visto svanire la Lombardia e il Veneto, due province importanti, soprattutto dal punto di vista agricolo, preziose nell’economia dell’impero, in particolare la Lombardia. Non solo. I disprezzati e detestati italiani, soggetti in vario modo agli Asburgo da più di tre secoli, si stavano costituendo come Stato unitario, potenziale minaccia da Sud, per via dell’aspirazione ai confini naturali della Penisola, sino al Brennero, a Tarvisio, a Trieste, e dei desideri di espansione in Adriatico e nei Balcani. L’emergente potenza tedesca che si poneva come la prima nel mondo tedesco ed anzi europeo, unita alla perdita delle due province italiane, costringeva l’Austria a ripiegarsi sulla sua missione originaria, di Marca di frontiera e poi Stato, “Regno a Oriente”, come dice il suo nome (dal 996 si trova Ostarrichi [Ost-reich ossia Österreich], il cui confine orientale, con l’Ungheria, era il fiume Leith --- Huber-Dopsch); Stato a difesa dell’Europa dalle invasioni dall’Est e dai Balcani cioè, in sostanza, dai turchi e poi dai russi, succedendo nell’opera al monarca tedesco, che in passato aveva posto fine con la forza alle devastanti incursioni magiare, sul declinare del X secolo (battaglia di Augusta, 955). E subentrando al Re d’Ungheria, quando questa nazione fu in gran parte sottomessa dai turchi dopo la disastrosa battaglia di Mohács, nel 1526. Difesa, ovviamente, che era e non poteva non essere anche conquista: politica, militare, culturale, religiosa. Nel rapporto vitale e drammatico tra difesa ed espansione si crea una civiltà, se la conquista si tramuta in effettiva opera di governo.

“Un contributo letterario di notevole interesse, e che si distingue per alcune sue peculiari caratteristiche, giunge dalle estreme terre orientali dell’impero, quelle in cui più si accentuano i contraddittori problemi della monarchia austro-ungarica. Galizia e Lodomiria [Volinia], Bucovina e Transilvania, le remote province al confine russo e rumeno che ricordavano le gesta e la colonizzazione tedesca di Maria Teresa, s’inseriscono con un tono particolare nel mosaico absburgico, e nella letteratura paesana e locale. In queste terre d’oriente, che Franzos chiama “Halb-Asien”, russe per civiltà e stirpe, lo sforzo di creare un patriottismo austriaco, vasto e rispettoso delle caratteristiche locali, è particolarmente intenso. Anzi, proprio il loro carattere asiatico, lontanissimo dalla cultura tedesca, farà di esse in un certo senso i tipici paesi absburgici, legati cioè alla monarchia danubiana da un ideale etico-culturale, sovranazionale. Terre che erano un crogiolo di popoli, un punto d’incontro di stirpi […] Era la Zwischen-europa [l’Europa intermedia], che era stata il teatro della secolare missione dell’Austria, colonizzatrice militare ed economica dei paesi posti fra la Russia e la Germania, vero e proprio cuore della tradizione absburgica la cui vera ragion d’essere era stata la reciproca incapacità tedesca e slava di costituirsi in confini geografici nazionali” (Magris, che sviluppa uno spunto di Scipio Slataper).

Giustamente Cesare Balbo, esponente liberale moderato del Risorgimento, esortava l’Austria a riprendere la via dell’Oriente e a farvi persino conquiste, a “inorientarsi” ai danni dei turchi, lasciando libera l’Italia e facendosi magari alleata degli italiani. Visione politicamente utopistica quella di Balbo, quanto alle concrete possibilità di attuazione, però di larghe vedute e confortata da un dato di fatto inoppugnabile: la vera missione storica dell’Austria non era conquistare la pianura padana e dominare in tal modo l’Italia, logorandosi in guerre secolari contro l’espansionismo francese, vòlto testardamente ed ottusamente allo stesso obbiettivo (Richelieu: “chi tiene Milano, tiene l’Europa”), bensì quella di essere la protettrice della religione cattolica contro gli eretici, gli scismatici e l’Islam, l’educatrice dei popoli balcanici e orientali suoi sudditi (come hanno riconosciuto anche i politici ed intellettuali slavomeridionali e romeni più obbiettivi, nonostante la loro ostilità al centralismo asburgico). O la “protettrice” di alcune nazionalità, come quella cèca, altrimenti schiacciata dai tedeschi (come ricordava un secolo fa Giani Stuparich, citando il celebre detto di un illustre storico cèco, che propugnava una completa autonomia nazionale ma all’interno di un impero austriaco confederato: “se l’Austria non ci fosse stata, si sarebbe dovuto inventarla”). Protettrice, anche e soprattutto di fronte all’avanzata poderosa dei turchi e nonostante l’oppressione e le dure repressioni da essa inflitte dopo la Guerra dei Trent’anni, il cui scopo era anche quello di estirpare l’eresia hussita; scopo tuttavia riuscito solo in parte, essendo poi successivamente riemerso quel tipico atteggiamento di ribellione in nome della libertà assoluta della coscienza individuale, quale connotato peculiare dell’intellettualità ma anche dell’anima nazionale cèca, sia pur privo ormai di autentico risvolto religioso.

Ma non solo nei riguardi dell’I t a l i a, anche contro la P o l o n i a possiamo dire che l’Austria, a partire da un certo momento, sia venuta meno alla sua missione storica, di potenza cattolica, per di più imperiale e quindi maggiormente tenuta ad una politica ispirata ai principi del cattolicesimo. Superati precedenti contrasti, dopo essersi alleato ai polacchi nelle guerre contro i turchi e averne ricevuto un aiuto decisivo, l’Asburgo quasi un secolo dopo partecipò tuttavia alle tre spartizioni che la Polonia subì da parte di Prussia e Russia, e incamerò territori polacchi e ucraino-polacchi nella prima e nella terza. Solo nel 1918 la Polonia avrebbe riacquistato la sua integrità di Stato e nazione. Così agendo, Vienna si allineò alla luterana Prussia e alla grecoscismatica Russia per cancellare dalla carta geografica un antico e cattolico Stato come la Polonia, ai cui troppo vasti domini (per un breve periodo dal Baltico al Mar Nero) gli Asburgo opposero loro precise aspirazioni, soprattutto sulla Galizia. C’era stato un espansionismo polacco, aggressivo come tutti gli espansionismi, ma non era quello il modo di contrastarlo per una Potenza che si voleva cattolica, ovvero applicando i metodi della Ragion di Stato, finendo quindi col cooperare alla scomparsa di uno Stato cattolico che avrebbe dovuto invece cercare di mantenere sempre in vita e con il quale avrebbe dovuto essere sempre alleata, nei limiti del possibile.

Non credo di peccare di presunzione nell’affermare che la condizione dell’Italia, nonostante le sue miserie e arretratezze, era alquanto diversa da quella dei popoli balcanici e nemmeno da porre sullo stesso piano di quella della Boemia soverchiata dai tedeschi. Forse che la Lombardia, le Venezie, il ducato di Parma, la Toscana (attribuite le ultime due arbitrariamente dalle Potenze agli Asburgo dopo l’estinzione dei Medici e dei Farnese, nonostante le proteste dei diretti interessati, con il pretesto che erano ancora feudo imperiale, del quale l’Imperatore poteva disporre come voleva), avevano bisogno di essere “civilizzate” da un’occupazione asburgica o asburgo-lorenese diretta e indiretta? O di essere “protette” contro popolazioni straniere? Lo straniero invasore era proprio l’occupante austriaco, efficiente amministratore e freddamente civile ma puntuale nell’avvantaggiarsi delle risorse locali, severo nel tassare e senza remore nell’infliggere carcere e forca ad oppositori e ribelli, nel mostrare (quando ritenuto necessario) il volto truce del gendarme croato che picchiava, incarcerava, fucilava e impiccava. L’espansione austriaca in Italia (raccomandata all’imperatore da uno dei suoi migliori generali, l’italo-savoiardo Principe Eugenio, il gran nemico di Luigi XIV) era pura conquista, pura politica di potenza; tradizionale lotta con le altre Potenze europee, in particolare contro la Francia, una volta scomparsa dalla scena italiana la Spagna, per il dominio diretto della pianura padana e indiretto dell’intera Italia (indiretto, su alcuni territori, poiché bisognava pur lasciare ai veneziani o al Papa la loro formale indipendenza, anche se poi, quando occorreva, se ne violava impunemente e brutalmente la neutralità con i propri eserciti, facendo sprezzantemente spallucce di fronte alle alte quanto inutili proteste del disarmato Pontefice o della decaduta e non meno disarmata Serenissima – vedi supra). Il grande condottiero, il “nobile cavaliere” Eugenio di Savoia scriveva in proposito al suo imperatore: “preferisco sentire le loro proteste piuttosto che vedere il mio esercito sbandarsi” (Henderson).

Nei domini austriaci, i trentini si sentirono “protetti” contro l’elemento tedesco avanzante da Nord; gli italiani di Dalmazia, Istria, delle città sino a Trieste e Gorizia, si sentirono “protetti” contro l’elemento slavo, incalzante dal contado: da qui la loro lunga fedeltà all’impero, che tuttavia cominciò ad incrinarsi, quando, dopo il 1859 e il 1866, Vienna cominciò a favorire l’avanzata tedesca e slava contro di loro (vedi supra). Il Trentino fu separato dalle altre provincie italiane dell’Impero e sottomesso all’egemonia istituzionale del Tirolo tedesco, la cui capitale era Innsbruck - cosa che imbaldanzì i nazionalisti tedeschi, quelli che affermavano, mentendo spudoratamente, l’inesistenza di un Trentino italiano. In Dalmazia l’elemento slavo potè iniziare una politica di graduale assimilazione forzata nei confronti degli italiani. “Nei territori italiani d’Austria anche dopo la conclusione della Triplice continuò la politica del governo austriaco mirante al ridimensionamento dell’influenza dell’elemento italiano e italofilo nel Tirolo e nelle regioni adriatiche, attraverso il sostegno ai partiti nazionalistici slavi, tirolesi tedeschi o cattolici lealisti”(Monzali). Più che del tradizionale “divide et impera” praticato più volte dalla dirigenza austriaca e ungherese, che evidentemente non sapeva come altrimenti sbrogliarsi dal viluppo dei contrasti delle nazionalità, nei confronti delle popolazioni italiane sembra si sia voluta attuare, ad un certo punto, una loro progressiva emarginazione, che avrebbe portato al loro finale assorbimento o alla loro cacciata dalle loro antiche sedi, se non ci fosse stata la nostra vittoria nella Grande Guerra.

Il tracollo del periodo 1859-1866 aveva dimostrato che l’Austria era mancata in due tra quelli che la geo-politica poneva come suoi tre obbiettivi fondamentali, al fine di mantenere una posizione di predominio continentale: impedire la nascita di un forte Stato unitario tedesco e di uno Stato unitario italiano. Il terzo obbiettivo, impedire la formazione di uno Stato unitario degli slavi meridionali, alla fine non si potè ugualmente conseguire e fu la lotta per mantenerlo a provocare il tracollo finale dell’impero, nella Grande Guerra. Ma forse questi tre obbiettivi, che si imponevano contemporaneamente, erano superiori alle forze della Duplice Monarchia, che, al pari della Germania, cominciava anche a sentire il peso massiccio della crescente potenza russa, il “rullo compressore” da tutti temuto. Superata la grave crisi del 1848-49 anche grazie all’aiuto zarista, e, indirettamente, a quello prussiano, dopo l’ancor più grave crisi del periodo 1859-1866, Vienna, per mantenersi e per mantenere lo status di grande Potenza, dovette associarsi agli ungheresi, facendo incoronare l’imperatore come monarca costituzionale in quel paese, protettore delle antiche e tradizionali prerogative di quella nazione. La costituzione stessa della monarchia di diritto divino venne a mutare, diventando di fatto quella di un regime costituzionale, di taglio liberal-conservatore: accanto all’Indice dei libri proibiti e alla censura, ad un Esecutivo ancora di nomina regia, si concedevano quasi tutti i diritti del cittadino o civili, tipici dello Stato borghese liberale. La polizia, efficiente ed occhiuta, continuava a godere di una certa discrezionalità ma sempre nell’àmbito della legge.

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La monarchia austriaca, da Stato solo tedesco-vallone che era inizialmente, aveva cominciato a diventare plurinazionale nel 1526 quando l’arciduca Ferdinando d’Austria, in nome dei diritti della moglie, di un trattato e del fatto che non ci fossero eredi reclamò le corone dei regni di Boemia e d’Ungheria. Il giovane Luigi II, re d’Ungheria e di Boemia, era morto senza eredi nella citata battaglia di Mohács. I turchi erano alle porte, così “le assemblee dei due regni alla fine ratificarono la sua pretesa e lo nominarono re pur avanzando delle riserve intese a salvaguardare l’indipendenza e le libertà nazionali dei loro paesi “(May; Huber-Dopsch). In Ungheria ci furono dei brevi combattimenti con un pretendente locale. Dal punto di vista di cèchi e magiari non si trattava di un’unione fondata sul diritto divino quanto piuttosto di un’unione che dava vita a una sottomissione fondata su un contratto, con un patto pubblico che aveva valore costituzionale, una sorta di covenant. Il motivo della salvaguardia delle rispettive tradizioni nazionali, con le loro autonomie, avrebbe costituito la causa principale dei susseguenti conflitti con il centralismo asburgico. Ma rinforzatosi con le accessioni dei due nuovi regni, il regno asburgico fu capace nel 1529 di resistere a Solimano il Magnifico giunto con le sue poderose e crudeli schiere sotto le mura di Vienna, costringendolo dopo tre settimane a retrocedere nella parte di Ungheria che aveva da poco conquistato. Fu quella una vittoria difensiva assai importante, per la sopravvivenza dell’Europa, dilaniata dai conflitti religiosi scatenati dallo scisma protestante e dalle guerre in corso tra gli stessi Asburgo e i re di Francia per la conquista della debole e divisa Italia, mentre il Gran Turco puntava al cuore stesso dell’Europa e stava sviluppando una sempre più audace strategia navale offensiva nel Mediterraneo occidentale, grazie all’apporto delle notevoli capacità degli abili e spietati comandanti delle flotte dei pirati barbareschi.

La vittoria del 1529, dunque, non impedì dunque ai turchi di consolidarsi in Ungheria e nei Balcani. I tempi di una decisiva controffensiva cristiana, guidata dagli Asburgo d’Austria e dai polacchi in occidente e dalla nascente potenza russa in oriente, si stavano però avvicinando. Gli Asburgo erano impegnati su molti fronti : nelle Guerre d’Italia contro i francesi, che terminarono formalmente solo nel 1559, con il Trattato di Cateau-Cambrésis, che sanzionò il predominio degli Asburgo di Spagna sulla nostra penisola; nelle guerre civili e non contro i protestanti, che si appoggiavano ai turchi, in particolare i calvinisti, la cui setta veniva in Ungheria favorita dal Sultano (Inalcik); contro i corsari barbareschi nel Mediterraneo occidentale, i quali, dalle basi nei loro criminali domini (Algeri, Tunisi, Tripoli) inquadrati ormai nell’impero ottomano, martoriavano anche le coste spagnole, mantenendo il collegamento tra i moriscos iberici e la Sublime Porta.

Nella seconda metà del Cinquecento aveva fatto la sua comparsa l’espansionismo russo, con lo zar Ivan IV detto Il terribile. Tra il 1552 e il 1556 conquistò e annettè i khanati mussulmani del bacino del Volga (Kazan e Astrakan), spingendosi sino al Caucaso del Nord, in tal modo iniziando a minacciare il Caucaso e il Mar Nero, controllati direttamente ed indirettamente dagli ottomani, con cordoni di fortezze e con l’ausilio di popolazioni vassalle come i tatari della Crimea, regolarmente impiegati dal Sultano in crudelissime scorrerie di masse di cavalieri che si spingevano sino alle pianure polacche.

Nella seconda metà del Cinquecento, gli austriaci non smisero di lottare contro gli ottomani per il possesso dell’Ungheria, subendo una serie di sconfitte, seguìte da “pagamenti di tributi e paci umilianti”, anche se i turchi non riuscirono a riprendere subito la via di Vienna, obbiettivo difficilmente rinunciabile, possedendo già essi Belgrado e Buda (Leoni).

Ma la marea mussulmana, che sembrava inarrestabile anche sul mare, tra il 1565 e il 1571, nel giro di sei anni, subì una battuta d’arresto decisiva. Nell’estate del 1565 la flotta turca unita ai barbareschi, che da alcuni anni scorazzava impunemente per il Mediterraneo, dopo aver distrutto quella cristiana nel 1560 alle Gerbe, isolotto di fronte alla costa tunisina, ed essersi avvantaggiata (dal 1536) dell’alleanza fedifraga del Re di Francia, che aveva anche concesso per un certo tempo Tolone come base, tentò la conquista di Malta, difesa dai Cavalieri di S. Giovanni, espulsi dai turchi da Rodi e successivamente incardinati da Carlo V a Malta, da dove, con le loro piccole ma audaci flotte, conducevano una molesta guerra di corsa contro il naviglio turco, ripagando l’Islam aggressore con la sua stessa moneta anche se non con l’identica crudeltà. Tale conquista – un passaggio obbligato della strategia offensiva ottomana – avrebbe praticamente chiuso ai cristiani il Mediterraneo orientale e aperto ai turchi la porta del Mediterraneo occidentale. Inoltre, avrebbe messo in pericolo la Sicilia, granaio della Spagna imperiale nonché antemurale difensivo della penisola italiana contro l’Africa. Ma l’assedio, dopo un’epica e feroce lotta durata circa quattro mesi, finì in un clamoroso scacco per gli ottomani, che dovettero reimbarcarsi, decimati dai combattimenti e dalle malattie, intimoriti da un modesto corpo di spedizione italo-spagnolo sbarcato in tardivo soccorso.

L’anno dopo, Solimano riprese la via di Vienna con un formidabile esercito ma dovette attardarsi inaspettatamente parecchi giorni per conquistare la fortezza di Szigetvár in Ungheria, difesa con una modesta guarnigione in gran parte croata dall’eroico conte croato Nikolas Zriny. Durante l’assedio il Sultano, sempre più irato per il prolungarsi dell’intoppo, che durò un mese e finì con una carica suicida di Zriny e dei resti della guarnigione, seguita dall’esplosione della fortezza sui turchi assalitori, morì all’improvviso, sembra stroncato da un colpo apoplettico (1566). Pertanto, la spedizione si arenò e Vienna fu di nuovo salva.

Il successore attaccò Cipro, ricco possesso veneziano, che fu conquistata dopo un’eroica resistenza da parte della guarnigione, massacrata contro i patti di resa dai turchi, che avevano subito enormi perdite. Il comandante, l’impavido Marcantonio Bragadin, che aveva rifiutato di convertirsi all’Islam, fu scorticato vivo tra i bestiali dileggi della soldataglia maomettana (1571). Ma la strapotenza navale ottomana, che mirava a togliere ai veneziani i loro ancora numerosi possedimenti nell’Egeo e all’imbocco dell’Adriatico, nonché ad invadere l’Italia, forse sbarcando in forze ad Ancona una volta messo sotto controllo l’ingresso dell’Adriatico, provocò una Lega Santa delle potenze cristiane mediterranee (Francia esclusa), auspice l’azione energica e formidabile di papa S. Pio V, sorretta anche da gravi sacrifici sul piano economico. Si venne quindi il 7 ottobre 1571 alla famosa battaglia navale di Lepanto, nel greco Golfo di Patrasso, nella quale l’intera flotta turca (quasi duecento galee) fu cancellata dalle acque: 170 galee distrutte o catturate, 30.000 turchi morti o feriti (circa 25.000 i morti), 3000 prigionieri. Alla vigilia della battaglia, i veneziani vennero a sapere da un mercantile di passaggio delle atrocità commesse dai turchi a Famagosta, capitale di Cipro; di come questi ultimi avessero trucidato a sangue freddo tutti i superstiti della guarnigione, compresi gli ufficiali e tecnici veneziani arresisi dietro (ingannevole) promessa di un salvacondotto --- cosa che (comprensibilmente) inferocì i veneziani, che fecero pochi prigionieri e sterminarono a loro volta i quadri turchi catturati (Beeching; Crowley; Leoni). Le perdite cristiane non furono leggere: solo dieci galee ma quasi 8000 i morti e 21.000 i feriti. In compenso, vennero liberati 15.000 cristiani incatenati al remo sulle galee turche (Konstam).

Più che dall’azione voluta dei supremi reggitori politici delle Potenze cattoliche, l’imprevista battuta d’arresto subita dai turchi fu dovuta al coraggio e alla eroica tenacia di pochi, quali il Maestro dei Cavalieri di Malta, il francese Jean de la Valette, che fu l’anima e la mente della disperata resistenza contro un avversario molto superiore; il comandante croato della fortezza che bloccò l’enorme esercito di Solimano; la determinazione a combattere, infine, dei comandanti veneziani a Cipro e a Lepanto, o di Marecantonio Colonna, capitano delle galee ingaggiate e schierate dal papa, unitamente alla vocazione alla lotta del comandante della flotta cristiana, Don Giovanni d’Austria, il figlio naturale della relazione di Carlo V vedovo con una donna tedesca nubile, fermamente deciso alla battaglia nonostante l’atteggiamento cauto e calcolatore del suo fratellastro, Filippo II di Spagna, el rey prudente, come veniva chiamato, sempre attento, come il padre del resto, agli equilibri strategici, che per la Spagna si fermavano al Mediterraneo Occidentale, sulla verticale Meridione d’Italia-Messina-Malta-Tripoli. Nei combattimenti mediterranei contro l’aggressore islamico, notevole fu anche il contributo di sangue italiano, che non mancò anche in altri settori. A Malta, sui circa 9000 difensori al comando di La Valette (contro quasi 40.000 turchi e alleati africani) 5000 erano residenti maltesi e 4000 fanti siciliani, toscani, marchigiani, mentre su 600 Cavalieri, 171 erano di lingua italiana, 200 francese, 130 circa spagnola e tedesca. Dei difensori solo 600 sopravvissero (Panetta). A Lepanto, su circa 80.000 “genti di guerra, di capo e di remo” delle flotte cristiane, vi erano 20.000 fanti italiani “assoldati dalle varie potenze”, accanto a 8.000 fanti spagnoli (Panetta). Le perdite maggiori le ebbero i veneziani, più di 4000 morti, un salasso notevole.

Ancor oggi storici pur competenti diminuiscono il valore strategico di quella vittoria, che fu invece grandissimo. Dopo la disfatta cristiana alla Gerbe, in Europa si era sparso il terrore dell’invasione mussulmana dell’Italia e di Roma: un incubo del quale si compiacevano solo i protestanti più fanatici, come i calvinisti. La fece festeggiare, la vittoria di Lepanto, persino l’eretica Elisabetta d’Inghilterra, dotata però di fine intuito politico. Si capì subito che quella straordinaria vittoria aveva spezzato l’egemonia mediterranea globale che gli ottomani stavano acquisendo. Certo, si sarebbe dovuta sfruttare, la grande vittoria, per attaccare l’inesperta flotta ricostruita in tutta fretta dai turchi: le probabilità di distruggerla erano buone, nonostante l’abile strategia difensiva perseguita dal suo nuovo comandante, il pirata Ulugh-Alì, sanguinario rinnegato calabrese, eccellente uomo di mare. Ma la Spagna non voleva avvantaggiare Venezia, unico Stato italiano rimasto indipendente dal suo dominio: non per nulla, le flotte da essa controllate (genovesi, napoletane, oltre alle proprie) avevano quasi sempre la raccomandazione di non impegnarsi in battaglia assieme ai veneziani contro i mussulmani, nelle campagne navali condotte in comune in quegli anni, spesso per istigazione del papa (“No sepan Venecianos que Su Majestad tracte de que no se pelée” - Panetta). Non si trattava di viltà ma di miope calcolo politico, che impediva quell’alleanza operativa permanente in tutto il Mediterraneo con la flotta veneziana, potente e ricca di vittorie ma numericamente sempre inferiore a quella turca,; un’alleanza onesta unico mezzo per spazzar via i barbareschi dal Nordafrica e conquistare la supremazia navale in tutto il Mediterraneo; alleanza da costituirsi in chiave permanente, inutilmente caldeggiata ripetutamente dal Papa in nome della Crociata contro l’infedele.

Ma appare comunque fantasioso credere che, dopo Lepanto, le potenze cristiane avrebbero addirittura potuto abbattere l’impero turco, sbarcando a Costantinopoli e altrove, come pure si è letto. Quell’impero restava fortissimo e bisognava sconfiggerlo per via di terra. La vittoria di Lepanto non rappresentava un minimo ma un massimo, conseguito con enorme sforzo e solo grazie all’iniziativa politica, organizzativa e religiosa di un Pontefice di eccezionale tempra come S. Pio V.

Il valore strategico di quella vittoria risulta da altre considerazioni. Se avessero vinto, i turchi, che da decenni erano (con i barbareschi alleati) all’offensiva sempre più audace anche nel Mediterraneo occidentale, avrebbero fatto dell’intero Mare Nostrum, Adriatico incluso, un Mare Turcicum, cosa che avrebbe sicuramente comportato un loro attacco diretto a Roma (la Mela Rossa, al pari di Vienna, da tagliare in due con la spada dell’Islam) e a Venezia. Un disfatta così totale come quella subita a Lepanto, tale da far sparire di colpo, oltre alle navi, i migliori quadri della flotta, ebbe anche un notevole effetto sul morale: “dopo Lepanto, le forze militari delle province [dell’impero ottomano] fecero tutto il possibile per evitare di partecipare alle campagne navali”(Inalcik). Non solo. I barbareschi tornarono a lavorare prevalentemente in proprio, per così dire, ingrassando nell’amata pirateria, continuando ad infierire ma perdendo il collegamento strategico con la flotta turca, ricostruita in gran numero di navi in tempi velocissimi e pertanto inesperta. Per alcuni decenni questa flotta rimase praticamente inattiva, per quanto riguarda operazioni strategiche, e nemmeno riuscì ad imporsi nel Mediterraneo orientale su quella veneziana, come si vide nella successiva lunga guerra per la riuscita ma dispendiosa conquista di Creta (Candia), ultimata nel settembre del 1669.

Due anni dopo Lepanto, vedendosi abbandonata di fatto dagli spagnoli, che non mostravano alcun desiderio di chiudere nell’angolo l’inesperta flotta turca, nonostante le opportunità presentatesi, la Serenissima, che si trovava anche in una difficile situazione economica, fece inaspettatamente la pace con il Sultano. Una pace onerosa e, si disse, vergognosa. Un tradimento della causa, provocato però, a ben vedere, dal comportamento ambiguo e sleale del rey prudente, che con i veneziani cercava sempre di menare il can per l’aia. Filippo II tenne la flotta spagnola a Messina nel 1572, mentre i veneziani e le navi a servizio del papa cercavano inutilmente di provocare i turchi a battaglia. Nel 1573 mandò Don Giovanni d’Austria alla conquista di Tunisi, che però Ulugh Alì riprese l’anno dopo, fidando sul numeero cioè impiegando tutta la numerosa flotta turca e un gran corpo di spedizione. La situazione si stabilizzò, con il Nordafrica in mano ai mussulmani, Malta ai cristiani, un trattato tra Filippo II e il Sultano, tra quest’ultimo e Venezia. Ma la pace, se era costata a Venezia la perdita di Cipro e il pagamento di una forte indennità, fece anche sì che per decenni essa non venisse molestata da flotte turche in quei traffici internazionali sui quali si fondava la sua ricchezza (e le cui vie di terra erano tutte in mano ottomana). Inoltre, nel Mediterraneo orientale si rafforzò alquanto la guerra di corsa dei Cavalieri di Malta e di quelli livornesi di S. Stefano contro le linee di traffico ottomane, che ebbero parecchio a soffrirne (Inalcik) mentre una serie di campagne contro l’Austria e la Persia si trascinarono straccamente costringendo alla fine ad un trattato di pace (Zsitva-Torok, 1606, richiesto sin dal 1595), nel quale la Sublime Porta riconosceva all’imperatore come legittimo il possesso delle parti di Ungheria che era riuscito a conservare e lo sollevava dal pagarle il tributo annuo di 30.000 ducati (Inalcik).

* *
Se gli Stati europei fecero enormi progressi nel campo degli armamenti e dell’arte della guerra, perfezionando l’uso dell’artiglieria e facendo valere nelle fanterie, nella cavalleria e sulle navi da guerra la potenza di fuoco mentre gli ottomani restavano indietro in questo campo, il sopravvenire della Guerra dei Trent’anni, impedì agli Asburgo d’Austria di continuare la loro lotta contro il turco invasore. Di continuarla, nel senso di prendere l’iniziativa. Ci si doveva limitare a difendersi, a mantenere una situazione dove le incursioni di frontiera ottomane erano però frequenti. Questa arcigna tregua fu interrotta dai turchi, quando l’imperatore Leopoldo I decise di appoggiare gli ungheresi in rivolta, nel 1661. L’armata del Sultano prese di nuovo la via di Vienna ma all’attraversamento del fiume Raab subì una tremenda sconfitta da parte dell’esercito austriaco, comandato dal modenese Raimondo Montecuccoli, uno dei migliori generali del suo tempo, rinforzato da contingenti di principi dell’impero e da un agguerrito corpo di cavalleria francese, cosa rara, data l’alleanza tra la monarchia francese e la Sublime Porta (10 agosto 1664).

In questa fase, si fece in particolare valere nella lotta contro gli ottomani la Polonia, nazione che era riuscita a resistere sia ai mongoli che agli stessi turchi. La Polonia era ambìta dalle monarchie europee a causa dell’instabilità provocata dalla sua costituzione. Essa contemplava un monarca elettivo fortemente condizionato da una nobiltà bellicosa, capace di grandi slanci patriottici e nello stesso tempo anarchica, per la quale il re era solo un primus inter pares. La Dieta polacca (Sejm) comprendeva il re, il Senato, la Camera dei nobili, e i nobili erano gli unici titolari dei diritti politici. Lo Stato si considerava una Repubblica regia. Purtroppo si era imposto ad un certo punto il disastroso principio del liberum veto, ossia dell’unanimità obbligatoria per le deliberazioni della Dieta nazionale, cosa che portò gradualmente al caos e al collasso dello Stato. Inoltre, la nobiltà era anche incline ad eleggere monarchi stranieri e a far comunella, a volte, con interessi stranieri. L’esercito polacco era di notevole valore, soprattutto nella sua celebre cavalleria pesante (gli “ussari alati”), l’arma più adatta a combattere sulle estese pianure polacche (Leoni). I turchi avrebbero voluto raggiungere il Baltico ma non riuscirono mai a superare l’ostacolo rappresentato dai polacchi. Nel Seicento la Polonia era ancora considerata “antemurale e baluardo” contro i turchi, i tartari, i moscoviti (Halecki); possiamo dire, ancor più dell’Austria. I suoi monarchi, federati con la Lituania dal 1565, si erano tenuti fuori dalla Guerra dei Trent’anni, riuscendo ad estendere il loro dominio per l’appunto sino all’Ucraina e alla Russia centrale, occupando per breve tempo anche Mosca: uno sforzo eccessivo e anche megalomane, che difatti non potè essere mantenuto a lungo, contro avversari che li attaccavano da tutte le direzioni e sfruttavano cinicamente le debolezze della sua costituzione nonché l’immaturità di parte della nobiltà.

La Polonia fu aggredita, durante la Guerra dei Trent’anni, dalla luterana Svezia e dai turchi, che sostenevano i calvinisti ungheresi nei loro tentativi di assalire Vienna. Sconfitti a Cecora in Moldavia (1620) dai turchi, le cui forze erano almeno il triplo dei circa diecimila polacchi impegnati, questi ultimi si rifecero ampiamente nel 1621 a Chocim (Chotin) sul fiume Dniester, bloccando la loro avanzata (Halecki). Ma in quello stesso anno gli svedesi di Gustavo Adolfo, il re capofila dei protestanti, attaccarono la Polonia lungo il Baltico, togliendole la Livonia e possedimenti prussiani. La Polonia si trovava quindi a combattere su due fronti. Nell’Ucraina (nome dato ai voivodati di Kiev e Braclaw ---- Halecki) scoppiò l’insurrezione dei cosacchi locali, fino a quel momento alleati dei polacchi, i quali si allearono con il Khan tataro di Crimea ossia con uno degli strumenti militari più efferati del nemico turco. “Tutto il mondo mussulmano volle sfruttare la guerra interna dell’Ucraina per abbattere definitivamente l’ultimo baluardo della Cristianità. La battaglia di Beresteczko [in Volinia, regione tra Polonia ed Ucraina], durata tre giorni e cioè dal 28 al 30 giugno 1651 ebbe dunque un’importanza decisiva per l’Europa. Il Re, che era riuscito finalmente ad organizzare un nuovo esercito, riportò una magnifica vittoria su Chmielnicki [il capo dei cosacchi ribelli] che era alla testa di forze tre volte maggiori con aiuti turchi e tartari” (Halecki). Ma il capo dei cosacchi, sconfitto ma non domo, nel 1654 sottomise l’Ucraina all’autorità dello zar di Mosca, Alessio, in cambio della promessa di una larga autonomia, che non venne mantenuta (Halecki). In tal modo Mosca dava impulso alla sua marcia verso il Mar Nero e verso Ovest. Il problema rappresentato dai tatari (nome dato dai russi a tribù turcofone della Crimea e dell’Asia centrale, detti anche impropriamente “tartari” cioè mongoli), razziatori a vasto raggio in nome dell’Islam e del Sultano, l’avrebbero risolto non i polacchi ma i russi, quando la zarina Caterina annettè la Crimea, abolendo l’ultimo Khanato tataro (1783).

In quegli anni, riprese l’assalto svedese. Il nuovo re, Carlo Gustavo, ruppe la tregua instaurata dal suo predecessore. Grazie anche al tradimento di alcuni magnati riuscì ad avanzare all’interno della Polonia. “I veterani della guerra dei trent’anni occuparono Varsavia l’8 settembre 1655. In seguito, anche Cracovia fu costretta a capitolare qualche settimana più tardi. Il legittimo sovrano, abbandonato e scoraggiato, si rifugiò alle frontiere della Slesia, e tutte le province, una dopo l’altra, resero omaggio a Carlo Gustavo. Soltanto un miracolo avrebbe potuto salvare la Repubblica “(Halecki). Forse vale la pena ricordare come avvenne il miracolo.

“Come l’arca di Noè in mezzo al diluvio, così il Convento di Czestochowa resistette al nemico. Il Priore, Agostino Kordecki, radunò un pugno di soldati intorno alla immagine miracolosa della Vergine, venerata da secoli. Dopo 40 giorni di assedio, gli Svedesi [tutti luterani, e quindi eretici iconoclasti] furono costretti per la prima volta a ritirarsi. Questo avvenne il giorno dopo Natale. La nazione, impressionata da un fatto così straordinario, tanto simile ad una leggenda, si ridestò” (Halecki). Il re, Giovanni Casimiro, tornò dall’esilio e la nazione si sollevò contro l’invasore svedese, soprattutto nelle campagne. Giovanni Casimiro proclamò solennemente, a nome di tutta la nazione, che “la Madonna sarebbe stata venerata da quel momento come Regina del Regno di Polonia” (ivi).

Si combattè ancora a lungo ma la Polonia, avuti anche rinforzi dagli Asburgo, si salvò dall’annientamento, pur dovendo subire perdite dolorose nei confronti della Svezia, della nascente potenza prussiana, della Russia (in Ucraina: con l’accordo del 1667 Mosca si prese parte dell’Ucraina orientale, sino a Kiev)(ivi).

La situazione interna della Polonia non era comunque stabile. Le Potenze europee, soprattutto Francia e Austria, vi continuavano i loro giochi (la posta era sempre l’avere un re che rispondesse ai loro desideri o la frammentazione dello Stato). E si profilò di nuovo un preoccupante assalto turco, dall’Ucraina, dove i cosacchi continuavano ad agitarsi. Il loro capo si sottomise al Sultano Maometto IV. Nel 1672 gli ottomani occuparono la fortezza di Kamenec, chiave di accesso alle pianure polacche e strapparono una pace che dava a loro quanto di Ucraina ancora fosse rimasto ai polacchi. Ma nel 1763, ripresa la guerra, Giovanni Sobieski, dopo averne decimato le feroci avanguardie predatrici composte da cosacchi, tatari, ausiliari moldavi, distrusse l’esercito turco di invasione nella seconda battaglia di Chocim (Chotim). Pur disponendo di soli 1500 cavalieri, sorprese nel suo accampamento il numeroso oste nemico, il 9 novembre. “L’attacco della cavalleria polacca avvenne su un terreno reso candido dalla neve scesa durante la notte, e nemmeno la presenza del sultano tra le proprie truppe valse a impedire la rotta dell’esercito turco. Con una magistrale battaglia d’ala [attaccandoli in diagonale su un’ala non frontalmente], Sobieski sfondò i trinceramenti ottomani, effettuò una gigantesca conversione e schiacciò il nemico contro le rive del fiume annientandolo completamente e catturando lo stendardo verde del Profeta. Fu una vittoria così eccezionale da fruttargli, pochi mesi dopo, l’ascesa al trono il 21 maggio del 1674” (Leoni).

I turchi si spinsero sino ad assediare Leopoli, capoluogo della Galizia, senza riuscire a prenderla. I turchi, pure battuti altre volte da Sobieski in scontri minori, riuscirono ad imporre, due anni dopo, una pace onerosa ai polacchi, mantenendo parte dell’Ucraina e parte della Podolia, regione di confine tra Ucraina e Polonia, dove si trovava la fortezza della battaglia di Chotim. Il genio militare di Sobieski fu una fortuna anche per gli Asburgo. Infatti, gli ottomani, incoraggiati anche da Luigi XIV, sempre in guerra con Casa d’Austria, ripresero l’offensiva e giunsero nel 1683 con un gigantesco esercito di fronte a Vienna, dove furono alla fine sbaragliati, il 12 settembre, nella famosa battaglia di Kahlenberg, nome di una collina prospicente Vienna dalla quale gli “ussari alati” di Sobieski si slanciarono sull’esercito ottomano. La battaglia, impegnata dall’esercito imperiale al comando di Carlo di Lorena, fu risolta dalla carica finale della cavalleria pesante di Sobieski. Da quel momento, iniziò una controffensiva cristiana condotta soprattutto dall’esercito imperiale austriaco, che portò alla riconquista dell’Ungheria. In queste campagne, come è noto, si confermò il genio di Eugenio di Savoia, che davanti a Vienna, ancora giovane e sconosciuto, aveva combattuto come semplice “principe volontario”. Furono conquistate Buda e Belgrado. La controffensiva inflisse ai turchi, tra le altre, una disfatta apocalittica a Zenta, sul Tibisco, dove l’intero esercito messo in campo fu praticamente distrutto (10 agosto 1697). Gli ottomani, mantenendo fede alla loro proverbiale tenacia e forniti ancora di larghe risorse, si erano rifatti sotto, avevano ripreso Belgrado, vinto un’importante battaglia a Seghedino, rimesso piede in Ungheria. Ma la disfatta di Zenta fu decisiva: da quel momento il loro declino militare fu inarrestabile, nonostante conservassero sempre la capacità di vincere battaglie e di battersi valorosamene sino all’ultimo.

Negli anni successivi al regno di Sobieski, la Repubblica polacca sprofondò in una crisi politico-istituzionale dalla quale non riuscì a risollevarsi, dovuta anche agli intrighi delle potenze straniere, che fomentavano il particolarismo e le megalomani velleità di grandezza del ceto nobiliare. Nel XVIII secolo la Polonia fu pertanto spartita per ben tre volte tra Prussia, Russia ed Austria, sino all’estinzione dello Stato: 1772, 1793, 1794 -- dimostrandosi l’Austria per la verità piuttosto ingrata nei confronti di quella nazione il cui esercito, un secolo prima, aveva contribuito in modo decisivo alla salvezza di Vienna dai turchi, impresa dovuta anche all’applicazone di un trattato. Sobieski aveva infatti stipulato un’alleanza con l’Austria, contemplante “un reciproco soccorso immediato nel caso di un attacco contro la capitale di una delle due parti contraenti” (Halecki); alleanza patrocinata dal grande Papa Innocenzo XI, intensamente impegnato a suscitare una nuova Santa Alleanza contro l’ennesima invasione ottomana, grazie anche all’opera del formidabile Padre cappuccino e predicatore Marco d’Aviano, dallo stesso Innocenzo XI scelto e inviato al fronte quale condottiero spirituale dell’armata cristiana.

Per infliggere sconfitte decisive ad uno Stato forte come quello turco occorrevano solide alleanze tra le Potenze cristiane. Ma questo non era possibile finché le alleanze erano solo occasionali, per determinate campagne, ricadendo poi le Potenze nelle loro sempiterne lotte reciproche, in conseguenza delle quali la monarchia francese si era addirittura alleata in modo stabile con il nemico della fede. Da questo punto di vista anche la politica austriaca fu manchevole, non riuscendo essa a risolvere la contraddizione tra politica di potenza e politica volta a superarla, perché politica di oneste alleanze con gli altri Stati cristiani, rivolte contro l’impero ottomano, nemico della fede e della nostra civiltà. Possiamo dire che la politica austriaca fu manchevole soprattutto nei confronti della Polonia, il cui esercito aveva dimostrato di essere in grado di contenere vittoriosamente gli ottomani. Una Polonia che fosse rimasta integra, indipendente, riformatasi nella sua costituzione, anche se ridotta alla sola Polonia etnica, non avrebbe permesso alla Prussia di ascendere a grande potenza e avrebbe sicuramente rappresentato un ostacolo per l’avanzata russa verso Ovest, come si vide successivamente, nell’estate del 1920, quando l’Armata Rossa avente come obbiettivo Berlino, fu sconfitta nella battaglia della Vistola dall’esercito del rinato Stato polacco e costretta ad una caotica ritirata.
6. I guasti prodotti dall’anticlericalismo di taglio liberale durante il regno di Francesco Giuseppe, il quale sanzionò l’introduzione del matrimonio civile (1868) e reagì negativamente al dogma dell’infallibilità pontificia (1870) denunciando unilateralmente il Concordato del 1855.
Ai fini del tema che qui ci interessa maggiormente – l’effettiva continuazione della Christianitas medievale da parte dell’impero asburgico e della Duplice Monarchia – bisogna dire che la tradizione di anticlericalismo inaugurata da Giuseppe II non scomparve ed anzi riprese vigore sotto Francesco Giuseppe, a partire dal tracollo del 1866. L’imperatore chiamò al governo un protestante tedesco liberale anti-prussiano come il barone Ferdinand Beust nonché il principe austro-boemo Karl Auersperg, grande nemico del “clericalismo”, considerato ora responsabile della generale arretratezza dell’impero nei confronti dell’emergente potenza prussiana. Era ormai convinzione diffusa, nella classe dirigente, che fosse necessario modificare profondamente la struttura ancora assolutistica dello Stato, forse la causa principale dell’immobilismo austriaco, dell’inefficienza dimostrata dall’esercito, delle ripetute sconfitte. L’ampia e originale riforma costituzionale che diede vita alla Duplice Monarchia dimostra che la classe dirigente austro-ungarica non era affatto votata all’immobilismo: essa attuò un trasformazione che rafforzò lo Stato e ne prolungò sicuramente l’esistenza, anche se in tal modo venne a compromesso con le istanze liberali e a urtarsi seriamente con la Chiesa. A partire dal compromesso del ’67, che fece progredire notevolmente l’Ungheria, l’impero fu sempre in pace, cessarono le rivolte interne, si effettuarono riforme sociali e si diffuse un certo benessere medio, anche se ad un certo punto cominciò la grave crisi politica con la componente slava, che voleva anch’essa esser riconosciuta, al pari di quella ungherese. L’unica attività bellica fu la repressione della guerriglia-brigantaggio dei bosniaci, passati sotto amministrazione austro-ungarica nel 1878 e annessi nel 1909, con gran scorno dei serbi e dei russi, che avrebbero appunto cercato di rifarsi nel 1914. In Bosnia, l’amministrazione austro-ungarica sollevò rapidamente il paese dalle condizioni pietose nelle quali l’aveva lasciato l’impero ottomano, con il risultato che le divisioni bosniache, in gran parte composte da musulmani, largamente impegnate contro di noi, furono tra le migliori e più fedeli nella Grande Guerra (Deák).

La costituzione nata dal Compromesso (Ausgleich) all’origine della Duplice Monarchia o Monarchia Austro-Ungarica era piuttosto elaborata e complessa. Un caso unico nella storia, che merita la nostra ammirazione per l’ingegneria costituzionale escogitata e per le capacità della burocrazia imperiale e regia di farla funzionare in un modo che possiamo considerare eccellente, nonostante gli inevitabili limiti e difetti, dovuti anche alla complessità del meccanismo messo in opera, assai più complicato, per esempio, di quello operante nello Stato federato polacco-lituano (vedi supra).

Si creava un dualismo istituzionale. Esistevano due Stati, separati ed indipendenti, con la loro legislazione, il loro Parlamento, il loro governo, con proprie regolamentazioni, amministrazione, sistema giudiziario. Erano separati dal Leith, fiumiciattolo a Est di Vienna. L’Austria (Cisleithania perché al di qual del Leith) includeva: Boemia, Moravia, Slesia austriaca, Galizia, Bucovina, più le terre ereditarie austriache, compresi i distretti sloveni. L’Ungheria (Transleithania, perché al di là del Leith) includeva l’Ungheria vera e propria più i possessi della Corona di S. Stefano: Croazia, Voivodina, Transilvania, parte della Romania, Slovacchia. I due Stati venivano però inscindibilmente connessi in un’ unione reale, che comprendeva, oltre alla Dinastia, i soggetti, gli enti che dovevano occuparsi della politica estera, delle forze armate, delle finanze statali. Queste attività “comuni” dovevano esser esercitate da tre ministeri comuni, restando tuttavia l’organizzazione e la direzione delle forze armate di competenza esclusiva dell’imperatore. E difatti l’esercito si denominava kaiserliche und koenigliche Armee (k. u. k. Armee) o Imperiale e Regio Esercito, poiché era l’esercito dell’imperatore d’Austria e re d’Ungheria. Era ancora l’antica concezione della forza armata come forza personale del Sovrano: nel giurare fedeltà alla sua augusta persona si giurava fedeltà allo Stato che il sovrano incarnava. Questo era indubbiamente un “riflesso” medievale, comune tuttavia a tutte le altre monarchie dell’epoca, anche a quella costituzionale britannica. Accanto all’esercito comune c’erano quelli nazionali austriaco (Landwehr) e ungherese (Honvédség). In quello ungherese erano ricomprese le milizie locali della Croazia-Slavonia (Deák).

Inoltre, si introducevano (come si è detto) molti elementi del moderno Stato di diritto, riallacciandosi ai Diplomi di Giuseppe II. La costituzione garantiva al suddito determinati diritti individuali e la protezione delle leggi nei confronti degli eventuali soprusi dell’autorità. L’imperatore conservava la possibilità di legiferare direttamente mediante ordinanze (art. 14) ma solo in caso di necessità e con l’assunzione di responsabilità del Ministero competente, quando il Parlamento (Reichsrat o “consiglio dell’impero” per l’Austria, Reichstag o “Dieta dell’impero” per l’Ungheria) non era convocato e sempre sul presupposto che il suo decreto non violasse la costituzione. L’ordinanza imperiale perdeva forza di legge se dopo un mese non era presentata al Parlamento o se una delle due Camere del Reichsrat non la ratificava. Il Parlamento, bicamerale, veniva eletto su base di ceto e censo, ma dal 1907 fu concesso il suffragio universale maschile, fatto che mise in crisi nell’irrequieta Boemia (la regione più ricca ed evoluta dell’impero) la componente tedesca, divenuta minoritaria rispetto a quella cèca. Le materie di interesse comune, elaborate dai tre ministeri competenti, dovevano essere approvate dai due Parlamenti. “Nessuno dei ministri comuni poteva essere simultaneamente un membro dei gabinetti austriaci o ungheresi”(May). Non c’era un esecutivo comune nominato dal Parlamento, i ministri erano di nomina imperiale allo stesso modo del capo del governo. L’imperatore poteva dimettere qualsiasi ministro o capo del governo, ungherese o austriaco. La funzione comune di governo era esercitata, al di fuori della costituzione in senso formale, anche da un Consiglio della Corona, presieduto dall’imperatore, organo “di carattere informale, che comprendeva i ministri in comune ed i primi ministri dei due paesi; di tanto in tanto altri funzionari di gabinetto, uomini politici di rilievo e capi militari erano presenti a questo consiglio che si occupava di questioni di interesse generale, specialmente di affari esteri” (May; Huber-Dopsch).

Venivano poi garantiti al suddito “diritti del cittadino” tipici del costituzionalismo liberale, quali l’uguaglianza di fronte alle leggi, l’accessibilità di tutti i sudditi ai pubblici uffici, l’inviolabilità della persona, della proprietà, della corrispondenza privata; il diritto di associazione, di parola entro i limiti stabiliti dalle leggi, completa libertà di fede e di coscienza, di ricerca scientifica e di insegnamento. Si tutelava maggiormente l’individualità delle nazionalità e l’uso delle loro rispettive lingue. Si riconosceva poi libertà di culto pubblico e di organizzazione nell’ambito delle leggi esistenti ad “ogni Chiesa e Comunità religiosa riconosciuta dalle leggi” (per tutti i dettagli sopra esposti, Huber-Dopsch, pp. 362-372; May).

Il taglio liberale della nuova Costituzione sembrava mettere la religione cattolica sullo stesso piano delle altre, cosa grave per uno Stato ufficialmente cattolico e in patente contraddizione con il Concordato del 1855, espressione per molti aspetti dello spirito della Restaurazione e, per l’appunto, ancora “riflesso della Cristianità medievale”. Da qui le inevitabili sdegnate rampogne di Pio IX.

Ma nel maggio del 1868 furono emanate tre leggi che colpivano duramente la Chiesa e la religione, approvate dalla maggioranza liberale del Reichsrat e sanzionate dall’imperatore, anche per influenza della moglie, si disse. Esse stabilivano:
  1. La possibilità del matrimonio civile, nella forma di un “matrimonio civile di necessità”(Notzivilehe) quando ci fossero impedimenti ecclesiastici ma non di diritto civile. Si applicava soprattutto ai matrimoni misti. In pratica, un cattolico poteva ora sposare civilmente una protestante, che non era più obbligata a convertirsi e a sposarsi in chiesa. Inoltre, le questioni matrimoniali erano tolte ai tribunali ecclesiastici ed affidate a quelli civili. In regime concordatario, i tribunali laici si occupavano solo degli aspetti civili del matrimonio.
  2. L’istruzione e l’educazione della gioventù fu tolta alla Chiesa e passò allo Stato; rimase al clero solo l’istruzione religiosa, peraltro facoltativa. (Rimanevano le scuole private, i collegi gestiti dal clero, in particolare dai Gesuiti, tra i migliori - May).
  3. Si davano nuove regole per i rapporti interconfessionali tra i cittadini nell’ambito dei matrimoni misti: a 14 anni si poteva scegliere la propria religione liberamente e persino dichiarare di non averne alcuna, concedendosi così di fatto la possibilità di uscire dalla Chiesa (Maigesetze (Österreich-Ungarn) wikipedia.de; Huber-Dopsch).
Ci furono ovviamente violente manifestazioni anticlericali e drammatici dibattiti alla Camera Alta, con i prelati cattolici (anch’essi tra i deputati) che uscivano dall’Aula per non votare l’iniqua legislazione. La legislazione ecclesiastica imponeva altre limitazioni: per esempio, non si potevano negare le esequie a un membro di una fede diversa se la parrocchia comprendeva una sola chiesa. I “liberi pensatori” non potevano più esser perseguiti né imprigionati. Lo Stato non interferiva nella autonomia amministrativa della Chiesa e non si appropriava della sua vastissima proprietà fondiaria, ma gli ecclesiastici dovevano presentare ogni anno un bilancio dei loro conti alle autorità civili (May). Il vescovo di Lienz, mons. Rudigier invitò in una ferma lettera pastorale i cattolici a resistere a questa legislazione, cioè alla disobbedienza contro l’autorità macchiatasi di leggi inique perché ostili alla religione e alla Chiesa. Fu processato e condannato a 14 giorni di prigione, contro i sei mesi chiesti dall’accusa, ma l’imperatore lo graziò. Ci furono manifestazioni popolari a suo favore.

La nuova legislazione ecclesiastica, dal taglio fortemente giurisdizionalistico, smantellò sensibilmente l’opera della Restaurazione. Le proteste e anche ribellioni degli uomini di chiesa austriaci furono molte e accanite. Pio IX definì in un Concistoro tutta questa legislazione “assolutamente dissacrante, corruttrice, abominevole e condannabile”, dichiarando inoltre che non aveva valore legale (come aveva spiegato san Tommaso, una legge di per sé ingiusta non doveva ritenersi vincolante) (May). L’Allocuzione di condanna di Pio IX fu violentemente contestata dal primo ministro austriaco, il succitato protestante tedesco Friedrich Ferdinand von Beust, in nome della libertà dello Stato nei confronti della Chiesa, come se questa normativa non colpisse profondamente la morale cattolica e il suo fondamento religioso, e cioè quei valori che lo Stato austro-ungarico, in quanto monarchia cattolica di origine divina, riconosceva come supremi e si impegnava a far rispettare e difendere. Con la piena approvazione dell’imperatore, lo Stato asburgico perseguiva nei confronti della Chiesa una politica che, pur non facendo venir meno la tradizionale collaborazione tra Trono e Altare, ne riduceva l’ambito e ne minava le fondamenta. Non sembrava tanto diversa, come impostazione, da quella del “libera Chiesa in libero Stato”, messa in atto dal detestato conte di Cavour e dai liberal-massoni in quell’epoca al governo nel Regno d’Italia; i quali erano riusciti (con il Codice civile del 1865) ad istituire anch’essi il matrimonio civile, però addirittura quale unico riconosciuto dallo Stato, fallendo nel contempo il tentativo di introdurre il divorzio, anche a causa dell’opposizione di Casa Savoia, oltre a quella della Chiesa, che mobilitò tutte le sue organizzazioni. Nella Duplice Monarchia, che era uno Stato con forti minoranze protestanti (in Boemia e Ungheria soprattutto) e ortodosse (in Dalmazia e Transilvania) si voleva, inoltre, promuovere la parificazione di tutti i culti.

L’anticlericalismo era appoggiato dalle classi medie e da ampi settori del mondo politico; avversato dalle masse rurali, soprattutto in alcune regioni, per tradizione più conservatrici, come il Tirolo ed il Vorarlberg (May). L’introduzione del matrimonio civile portò ad una progressiva modificazione dell’istituto matrimoniale in senso laico ed ugualitario. L’illustre giurista Eugen Ehrlich, ebreo della Bucovina, uno dei padri della sociologia del diritto, poteva affermare, in una conferenza del 1906, dedicata a “Sociologia e giurisprudenza”, che il diritto di famiglia austriaco era diventato uno dei più individualisti d’Europa. La moglie rispetto al marito e i figli rispetto ai genitori godevano di notevole indipendenza patrimoniale e il marito, formalmente pater familias, era ridotto piuttosto alla posizione di un tutore.

Unitamente alla Baviera, la dirigenza austro-ungarica si oppose al dogma dell’infallibilità del Romano Pontefice, quando si pronuncia in modo solenne sulla fede e i costumi, proclamato dal Concilio Vaticano I. Francesco Giuseppe, in un rescritto imperiale, dichiarò che il dogma dell’infallibilità alterava i rapporti tra Chiesa e Stato, così come regolati dal Concordato del 1855, che doveva esser riconsiderato. Con questo pretesto, il Concordato fu abrogato nel 1871. Un nuovo Concordato si sarebbe avuto solo il 5 giugno 1933, firmato per lo Stato austriaco dal Cancelliere Engelbert Dollfuss, cattolico conservatore e amico personale di Mussolini, assassinato l’anno dopo dai nazisti. Diversi vescovi austriaci erano pubblicamente contrari al dogma dell’infallibilità. Si allinearono poi rapidamene alla posizione ufficiale, tranne il famoso mons. Josip Juraj Strossmayer, patriota croato, sostenitore dell’illirismo, cioè di quell’ideologia che contemplava uno Stato croato ma già jugoslavo sempre ricompreso nell’impero e tuttavia autonomo rispetto all’Ungheria, alla quale la Croazia allora apparteneva; Stato che avrebbe dovuto includere, oltre alla Bosnia-Erzegovina e alla Dalmazia (parte dei possessi austriaci), anche Gorizia, Gradisca, Trieste; insomma, profeta di quel trialismo che avrebbe dovuto dar finalmente spazio agli slavi meridionali nell’impero, ponendoli sullo stesso piano degli ungheresi; progetto politico che si dimostrò di impossibile attuazione per la rigida opposizione dell’elemento magiaro da un lato e dei tedeschi della Boemia (ma anche dell’Austria) dall’altro. Il molto stimato mons. Strossmayer auspicava che la curia romana e lo stesso papato venissero “deitalianizzati”. Egli era avverso al Primato di Pietro, favorevole all’abbraccio “ecumenico” con gli Ortodossi scismatici. Si piegò al dogma dell’infallibilità solo verso la fine della sua lunga vita (morì nel 1905, a novant’anni).

Il trialismo, in verità, era ben visto dall’arciduca Francesco Ferdinando, l’assassinato di Sarajevo, anch’egli, come Strossmayer, fortemente ostile all’Italia (e ancor di più, ma per altre ragioni, all’Ungheria). L’arciduca Francesco Ferdinando, pur essendo divenuto erede al trono, non coltivava rapporti con le comunità italiane dell’impero e sarebbe stato favorevole alla proditoria guerra preventiva contro di noi, nonostante fossimo alleati, auspicata dai circoli militari austriaci oltranzisti nel 1908 e nel 1911 (vedi supra). Ma l’arciduca non avrebbe voluto guerre contro la Serbia. L’arciduca aveva un carattere difficile, autoritario e i suoi pregiudizi, ma era senz’altro uomo preparato ad affrontare gli ardui problemi dell’impero, dei quali aveva lucida percezione: era convinto che il “dualismo” fosse stato un male perché aveva indebolito il potere centrale senza risolvere le questioni di fondo; pertanto, “egli intendeva ripristinare un forte potere centrale unitario, ma lo riteneva possibile solo con la contemporanea concessione di larghe autonomie amministrative a tutte le nazionalità della monarchia” (Valiani). Si trattava di ridurre l’oppressione esercitata dagli ungheresi sui romeni della Transilvania, sugli slavi del pari sudditi della Sacra Corona Ungherese (slovacchi, croati, serbi) con l’instaurare un “federalismo supernazionale”: Croazia, Dalmazia, Bosnia-Erzegovina riunite in un Regno autonomo nell’àmbito di una “riforma federalistica di tutto l’impero” (Valiani).

L’imprescindibile riforma costituzionale dell’impero implicava tuttavia una redifinizione del concetto stesso di Austria o meglio del principio ideale che quello Stato doveva far proprio. Finivano sempre col contrapporsi due visioni, come ha messo in modo eccellente in rilievo il prof. Giovanni Franchi, cogliendole nelle riflessioni su questo vitale tema sviluppate in articoli e saggi del periodo di guerra e dopoguerra da due scrittori e intellettuali del calibro di von Hoffmanstahl e Musil. Secondo il primo, l’Austria doveva superare la dimensione plurinazionale per diventare “sovranazionale”, costituirsi cioè come patria in primo luogo “culturale o storico-spirituale”, continuando in tal modo a svolgere in chiave europea la sua missione di “mediatrice” tra Est e Ovest. Ciò poteva avvenire solo recuperando determinati valori tradizionali. Hoffmanstahl fu il primo ad usare il termine “rivoluzione conservatrice”, in una conferenza del 1927. La concezione di Hoffmanstahl sembrava una proiezione in chiave sovranazionale, europea della nozione di “Austria dello spirito”, intesa sempre come autentico valore (e non come semplice metafora) da parte delle élites dell’impero. Essa faceva prevalere, in chiave ideale e federativa sul piano istituzionale, l’elemento della nazione di contro a quello dello Stato. Una nazione, però, che doveva intendersi in modo “sovranazionale”, prospettiva non priva di un taglio utopistico anche se coerente con la tradizione culturale austriaca.

Di contro, Musil riaffermava la necessità di uno Stato centrale, ben solido nelle sue prerogative, senza concessione di autonomie nazionali che avrebbero trasformato i tedeschi in minoranze più o meno oppresse. Lo Stato non poteva essere “federale” e quindi largamente aperto alle tendenze centrifughe. Esso doveva basarsi su una nazionalità egemone, compatta nei suoi valori e soprattutto nella sua lingua e cultura, come quella tedesca, alla quale si doveva del resto la fondazione della monarchia danubiana. L’impostazione di Musil era simile a quella dell’Arciduca Ferdinando, senza però concedere, almeno in linea di principio, le autonomie amministrative che quest’ultimo giudicava indispensabili alle varie nazionalità. Musil, nel difficilissimo Primo Dopoguerra, era favorevole allo Anschluss, all’unione con la Germania, come molti altri intellettuali dalle più disparate tendenze: l’esistenza di un’Austria solo tedesca, come Stato indipendente, gli sembrava una contraddizione in termini.

6.1 Francesco Giuseppe non fu “buon figlio devoto al Santo Padre”, anche se fu un imperatore sollecito dei suoi sudditi, amato dal gran numero, rispettato da chi non lo amava.

L’atteggiamento di Sua Maestà l’Imperatore d’Austria e Re Apostolico d’Ungheria, Francesco Giuseppe I, nei confronti del dogma dell’infallibilità, sembra l’opposto di quello di un fedele servitore e difensore della Chiesa, obbediente in tutto al suo insegnamento innanzitutto per ciò che riguarda la religione. Il divorzio restava al bando ma l’imperatore aveva approvato l’introduzione di una forma di matrimonio civile, grave lesione del concetto del matrimonio e della famiglia, come intesi ed insegnati dal Cattolicesimo. Maria Teresa, nelle Istruzioni lasciate al figlio Pietro Leopoldo, che un giorno sarebbe stato imperatore (vedi supra), scrisse: “Mostrati buon figlio, devoto al Santo Padre su ogni questione di religione e di dogma. Ma ricordati di essere sovrano, e non consentire la sia pur minima interferenza della Corte di Roma negli affari di Stato”(Wandruszka). Ma il dogma dell’infallibilità e l’istituto del matrimonio cattolico, non riguardavano forse “la religione e il dogma”? Rifiutando di riconoscere nei suoi Stati il primo e autorizzando un tipo di matrimonio civile accanto a quello religioso, Francesco Giuseppe non si dimostrava per nulla “buon figlio, devoto al Santo Padre”, come aveva raccomandato la grande imperatrice. Né dava il buon esempio con la sua vita privata. Voglio dire, il buon esempio che avrebbe dovuto dare come imperatore, monarca cattolico per diritto divino a capo di uno Stato cattolico, avente l’obbligo morale di difendere la fede innanzitutto con il suo esempio di vita conforme in tutto (o comunque il più possibile) a quella fede. Ma, prescindendo dalla sua vita privata, come uomo di Stato cattolico aveva comunque l’obbligo di legiferare mantenendosi sempre nell’insegnamento della Chiesa per ciò che concerneva questioni fondamentali della fede, rilevanti anche politicamente, o un istituto come il matrimonio.

In queste contrapposizioni, non si rinnovavano forse (in chiave moderna) gli antichi e dolorosi conflitti che nel Medio Evo avevano a lungo contrapposto impero e papato? Ma non è certo questa la Christianitas medievale che il prof. De Mattei vede ancora riflessa nella Duplice Monarchia. Era rimasta, ovviamente, la tradizione di mutua collaborazione tra Chiesa cattolica e Stato asburgico (“fra trono e altare”), ma il rapporto con la Chiesa, rimessosi al bello con la Restaurazione e il Concordato del 1855, dopo lo shock delle riforme del mangiapreti Giuseppe II, si era di nuovo incrinato e in maniera che possiamo definire profonda. Non conferire riconoscimento ufficiale al dogma dell’infallibilità appena proclamato, significava misconoscere l’autorità del Romano Pontefice che quel dogma aveva voluto far definire solennemente da un Concilio Ecumenico, indebolire quell’autorità agli occhi del Secolo e di tutti i suoi sudditi. Sul piano della morale e del costume, ugualmente grave era poi l’introduzione del matrimonio civile, anche se circoscritto ai matrimoni misti. Sul piano dei rapporti tra Stato e Chiesa, grave era la pretestuosa denuncia unilaterale del Concordato del 1855, che il Papa non aveva violato in alcun modo.

Se l’alta concezione della propria missione di reggitore per grazia di Dio induceva Francesco Giuseppe ad atteggiamenti anticuriali, giurisdizionalistici e persino anticlericali nei confronti della Chiesa o comunque a tollerarli e a farsene in certi casi interprete, egli mostrò comunque di possedere sempre un alto senso del dovere, applicandosi giornalmente con sollecitudine al disbrigo degli affari correnti e non facendo mai venir meno, per quanto possibile, quel contatto personale con i sudditi tipico delle monarchie del passato. Per questo era amato dalla gran maggioranza dei suoi sudditi e comunque rispettato anche da chi gli era politicamente avverso.

“Cortese e ad un tempo distaccato, Francesco Giuseppe non aveva difficoltà a ridimensionare quanti si presentavano da lui con delle lagnanze. Ogni settimana egli concedeva oltre cento udienze, durante le quali riceveva ogni visitatore – si trattasse di arciduchi, membri del gabinetto o del più povero dei poveri – nella stessa atmosfera di dignità e rituale accuratamente orchestrato. Fermo sull’attenti, l’imperatore e re faceva assumere ai suoi ospiti la stessa postura militare ed esigeva che essi riferissero in modo breve e preciso. Al minimo segno di un contegno scorretto, l’ospite veniva congedato prima dello scadere del tempo a lui concesso con un appena percettibile battere di tacchi o con un cenno dell’imperiale capo. Alla sua augusta presenza, ogni passione e ogni odio venivano ridotti a semplice cerimoniale e routine burocratica” (Deák).

L’ironia finale dello storico che ci rammenta questo stile di governo con i sudditi, mi sembra fuori luogo. Va apprezzato, invece, lo sforzo dell’imperatore di mantenere l’autentica dimensione imperiale, quella che fa del governante non un nume inaccessibile bensì un capo di Stato che, come un buon padre di famiglia, ascolta le lagnanze e le suppliche di tutti i sudditi per deciderle in modo imparziale, secondo equità e giustizia. E in questo c’era indubbiamente il “riflesso” della Christianitas medievale, anche se essa a sua volta, dobbiamo dire, riprendeva, arricchendolo di contenuti cristiani, il modello di un governare imperiale che ritroviamo nei migliori monarchi dell’antica Roma. Francesco Giuseppe viveva in modo semplice, con il suo patrimonio privato soccorreva poveri ed indigenti, soprattutto fra i militari (Deák). Con la sua esemplare dedizione all’ufficio, dava il buon esempio ai suoi funzionari, ispirandoli nelle loro qualità migliori: il senso del decoro, la rigida disciplina, il dovere di essere al servizio di tutti senza preferenze di sorta, l’orgoglio di appartenere ad un corpo di élite improntato allo spirito di fedeltà all’istituzione nella persona del Sovrano. La burocrazia imperiale avrà anche avuto i suoi aspetti negativi, quali ad esempio una tendenza ad accentrare, un’eccessiva pignoleria e troppo rigide vedute su determinate questioni, ma vale comunque il giudizio complessivo che ne ha dato la storia: essa era “in Austria, se non in Ungheria, scrupolosa ed imparziale” (Valiani – nato Weiczen, ebreo magiaro-tedesco di Fiume, di sentimenti italiani, costretto dal fascismo ad “italianizzare” il suo cognome). L’efficienza della burocrazia era una delle ragioni del relativo benessere economico goduto da larghe fasce della popolazione dell’impero, anche se ovviamente esistevano zone di povertà e miseria, soprattutto nelle campagne e in certe periferie operaie viennesi.

Chi ritiene che il quadro angosciante e sinistro di una burocrazia impersonale, prevaricatrice e anche corrotta, quale emerge dalle pagine de Il Processo di Kafka, sia in realtà una rappresentazione crudele ma giustificata della burocrazia dell’impero asburgico, erra grandemente, come ha sostenuto a ragione Ladislao Mittner. L’atmosfera da incubo de Il Processo, con l’accusato che ignora quale sia l’accusa, il processo che si svolge per via solo amministrativa, ad opera di un’entità che non compare mai in prima persona, pur incombendo continuamente, la feroce esecuzione finale: tutto ciò anticipa profeticamente l’atmosfera diabolica dei processi bolscevici e staliniani, la mostruosità di un apparato dominato da un arbitrio assoluto e tutto avvolgente, come quelli del totalitarismo, comunista prima e nazista poi.

Aspetti negativi nella società e mentalità asburgica risultano piuttosto da certi eccessi repressivi in tempi di crisi nonché dall’atmosfera mefitica che si poteva installare nelle scuole ed accademie tecnico-militari, con la loro severissima e persino disumana disciplina, cui facevano da contraltare il sadismo e la prevaricazione serpeggianti tra gli allievi, tra i quali in genere dominavano quelli superiori agli altri non tanto per meriti quanto per origine sociale ed etnia. Mali riscontrabili in consimili istituzioni di altre nazioni, testimoniati comunque per l’Austria con particolare pathos da grandi scrittori come Rilke e Musil, costretti a frequentare quegli istituti in giovanissima età, inadatti com’erano al mestiere delle armi, dal quale infatti subito rifuggirono. Musil, com’è noto, trasfigurò la sua personale, amarissima esperienza nel suo primo romanzo: Die Verwirrungen des Zõgling Tõrless (1906), titolo che viene tradotto con “I turbamenti (o le deviazioni) del giovane Tõrless”. (Da notare, per inciso, che la vittima preferita del sadismo dei cadetti è nel romanzo “il vilissimo e abulico Basini” (Mittner), personaggio che porta un cognome italiano. E difatti non poche volte i personaggi abietti o moralmente deboli o intellettualmente ambigui e quindi in generale “negativi” nel romanzo austro-tedesco di quest’epoca, portano cognomi italiani: vedi il Settembrini de La montagna incantata di Thomas Mann. Anche questo dettaglio, dimostra, credo, il basso conto nel quale era tenuta la nostra non numerosa etnia nella Felix Austria ).

* *
Durante il regno di Francesco Giuseppe, si ebbe anche una ripresa del Protestantesimo. Estintosi con la Controriforma, grazie anche alle maniere forti impiegate, era timidamente riemerso in séguito all’editto di tolleranza di Giuseppe II. Nel 1861 ottenne la libertà religiosa, effettiva solo dopo il 1875. I protestanti godevano di una certa autonomia amministrativa e di aiuti statali. All’Università di Vienna fu creata una Facoltà teologica evangelica (May).

La Massoneria era stata soppressa dalla Restaurazione, in quasi tutta Europa. In Austria era fuori legge ma non in Ungheria. Karl Popper, filosofo della scienza e teorico del liberalismo, ritenuto uno dei più importanti pensatori del XX secolo, nato a Vienna nel 1902, figlio di un avvocato molto colto e umanista, tipico esponente della borghesia ebraica laboriosa e benestante dell’impero, ricorda che il padre era Maestro Venerabile di una loggia massonica, che finanziava anche un orfanatrofio, nella cui amministrazione, come in quella di altre organizzazioni simili non massoniche, il padre prestava la sua opera. “Il lavoro di assistenza sociale di mio padre ricevette un inaspettato riconoscimento quando il vecchio Imperatore lo fece Cavaliere dell’Ordine di Francesco Giuseppe (Ritter des Franz Josef Ordens), cosa che costituì non solo una sorpresa ma anche un problema. Infatti, mio padre, per quanto, come la gran maggioranza degli austriaci, rispettasse l’Imperatore, era un liberale di tendenze radicali, cioè della scuola di John Stuart Mill, e non approvava la politica del governo. In quanto massone, era persino membro di una organizzazione che era stata dichiarata illegale dal governo austriaco di Francesco Giuseppe ma non dal governo ungherese di Francesco Giuseppe. Pertanto i massoni si riunivano spesso poco dentro il confine ungherese, a Pressburgo (ora Bratislava in Cecoslovacchia [oggi, 2022, Slovacchia, all’epoca inclusa nell’Ungheria])” (Popper).

Popper ricorda come il Parlamento fosse limitato nei suoi poteri dal fatto di non poter far cadere i due primi ministri o i due governi e come la censura, anche politica, fosse assai attiva, sequestrando libelli di satira politica (tra cui uno del padre) e iscrivendoli nell’Indice dei Libri Proibiti. Tuttavia, rammenta anche come l’Università di Vienna, “con i suoi molti insegnanti di alto livello, godesse di un alto grado di libertà e autonomia”(Popper). Ciò favoriva indubbiamente lo sviluppo della scienza e in generale della cultura.

Allo sviluppo dell’economia, della società e della cultura gli Ebrei diedero un importante contributo. Dopo l’emancipazione (1867-1870), erano presenti nel cuore della società: nelle professioni, nel commercio, nell’industria, nella finanza, nella cultura. Secondo il censimento del 1910 costituivano quasi il 5% della popolazione. La maggior parte viveva nella provincia della Galizia, zona di povertà dalla quale emigravano verso Ovest e verso gli Stati Uniti, dopo il 1870.

“Il venditore ambulante ebreo era un personaggio familiare in ogni parte dell’impero austriaco. Nel 1914 non c’era villaggio senza un negoziante od un proprietario di osteria ebreo e molti praticavano contemporaneamente l’usura insieme al loro lavoro, mentre molti erano impiegati nelle grandi proprietà come camerieri. A Vienna, Praga ed in altre città gli ebrei si contavano a migliaia. L’Austria doveva gli ebrei molte industrie d’avanguardia, come quelle del cuoio e della seta, la lavorazione del tabacco e la distillazione su grande scala di bevande alcoliche […] Mentre si andava prodigiosamente allargando la partecipazione ebraica nel mondo del commercio e della finanza, rimaneva comunque sempre in proporzione più numerosa la loro presenza nelle categorie dei piccoli operatori all’ingrosso e al dettaglio. Per quanto non si abbiano dati statistici attendibili si può affermare con sicurezza che verso il 1914 l’industria e il commercio di Vienna erano in misura preponderante in mano agli ebrei. Spesso si notavano esponenti cristiani negli uffici delle più importanti imprese commerciali e se essi erano quelli che il grosso pubblico notava, dietro le quinte chi veramente teneva i fili erano degli ebrei” (May).

Si stava formando una industriosa, ricca e colta borghesia ebraica, che si stava integrando, convertendosi in parte consistente al cattolicesimo. Cosa che a molti non piaceva, neppure tra gli ebrei. “Tra gli ebrei che abitavano nelle città occidentali, in modo particolare a Praga e a Vienna, c’era la tendenza spiccata ad abbandonare la fede dei padri, ad accettare il battesimo cristiano e a mescolarsi completamente al resto della popolazione. Questi ebrei che si erano assimilati scoprivano però spesso di esser considerati traditori e rinnegati dagli ebrei rigidi e conformisti e di venir considerati come degli indesiderabili intrusi dai nemici dell’ebraismo” (May).

Il tumultuoso sviluppo capitalistico e sociale, provocò ad un certo momento un prevalere del desiderio di arricchirsi, una diffusa febbre speculativa: ci furono scandali politico-finanziari ed episodi di corruzione, nel 1873 si ebbe un clamoroso crollo alla Borsa di Vienna. Data la evidente presenza ebraica fra capitalisti e finanzieri, ciò contribuì al diffondersi (con l’ausilio di politici demagoghi) di un virulento antisemitismo tra il popolo, combattuto però dalle autorità civili e dai vescovi. Nel 1869 e nel 1872 ci furono convulsioni finanziarie minori prima del grande crollo del 1873: la situazione ritornò alla normalità solo verso la fine degli anni Novanta. Espressione del malessere spirituale del quale soffrivano gli ebrei fu l’azione politica e culturale di Theodor Herzl, ebreo ungherese trapiantato a Vienna: da sostenitore acceso dell’assimilazione divenne poi all’opposto acceso sostenitore del “sionismo messianico”, ideologia di origine ebraico-orientale, da lui rielaborata e teorizzata nell’opera Der Judenstaat, del 1896 (May).

Accanto alla borghesia ebraica che si integrava socialmente e voleva integrarsi anche spiritualmente, c’era invece una parte che, pur integrandosi socialmente, confluiva nell’opposizione ideologica, prevalentemente di sinistra, e quindi socialista e marxista. La socialdemocrazia austriaca era forte ed anche ben attrezzata culturalmente; diversi dei suoi intellettuali di spicco erano ebrei. Ciò favoriva l’antisemitismo di coloro che volevano vedere negli ebrei solamente la partecipazione ai movimenti di opposizione o addirittura rivoluzionari, traendone spunto per considerarli in blocco un elemento dissolvente da restringere nuovamente nei ghetti. Lo stereotipo negativo dell’ebreo era duplice e anche contraddittorio: o il finanziere speculatore o il rivoluzionario socialista. Quando non partecipava dei mali del capitalismo, speculando in Borsa o controllando settori troppo ampi del commercio, contribuiva attivamente a quelli della rivoluzione in marcia, come se fosse nell’essenza dell’ebraismo concorrere da due lati opposti, e per di più tra loro nemici, alla distruzione della società borghese e ancora cattolica. Ma la falsità di questo modo di considerare l’ebraismo era dimostrata dal fatto che larga parte della borghesia ebraica in ascesa cercava sinceramente di assimilarsi, diventando cattolica.

Intellettuali ebrei si trovavano anche tra i liberali di tendenza nazionalista, i liberal-conservatori. Tra i cinque estensori del primo Programma di Linz, nel 1882, promosso dal nazionalista Georg Ritter von Schönerer, c’erano due intellettuali ebrei: Victor Adler, che avrebbe poi fondato la socialdemocrazia austriaca, e lo storico Heinrich Friedjung, allievo di Momsen e Ranke. Il programma degli austriaci nazionalisti tedeschi, non ancora inquinato da Schönerer con il suo feroce antisemitismo accompagnato dalla conversione (politicamente motivata) al protestantesimo al grido di Los vom Rom!, via dalla Roma cattolica, voleva salvare l’Austria tedesca dalla preponderanza demografica slava, separare le due nazionalità con una serie di riforme, territoriali e sociali, far gravitare la monarchia danubiana verso la Germania (Wandruszka). Si preparava così di fatto la via che avrebbe condotto al pangermanesimo, un’involuzione ovviamente rifiutata dagli Adler e dai Friedjung oltre che dalla maggioranza dei cattolici, fedeli all’impero. Da notare in von Schönerer il connubio di antisemitismo e odio per il cattolicesimo, che ritroveremo poi nell’austriaco Adolf Hitler, originario della periferia dell’impero, in quegli anni squattrinato déraciné nella Grande Vienna, pittore di acquarelli. Il fatto è che il mondo ebraico, cadute tutte o quasi le restrizioni civili di un tempo, partecipava totalmente alla vita della società, presentando al proprio interno le medesime divisioni di quella, riconducibili grosso modo alla contrapposizione di progressisti e conservatori. È vero che la maggioranza degli intellettuali ebrei era di tendenza liberale, e sosteneva l’indirizzo anticlericale del governo, attirandosi ovviamente l’avversione (spesso assai polemica) dell’antigiudaismo cattolico tradizionale, il cui fondamento era religioso e non razziale (May), ma è anche vero che questa intellighenzia non metteva in discussione il sistema-politico economico vigente e la fedeltà all’impero.

Contro le ingiuste e malsane generalizzazioni a danno degli ebrei, foriere di ben più gravi atteggiamenti ostili, bisogna ricordare che, in conseguenza dell’emancipazione, anche gli israeliti sudditi austro-ungarici furono chiamati al servizio militare. E fecero interamente il loro dovere, allo stesso modo degli ebrei tedeschi, nella Grande Guerra. Contro la leggenda insensata degli ebrei “traditori” che avrebbero pugnalato alle spalle i due imperi, portandoli alla sconfitta, valgano i fatti, che qui riporto per l’Imperiale e Regio : “circa 300.000 ebrei, fra i quali 25.000 ufficiali, servirono nella prima guerra mondiale. Furono numerosi gli ebrei che raggiunsero il grado di generale. Oltre al Generaloberst [colonnello generale] Hazai, ci furono altri ventiquattro generali ebrei o ebrei convertiti. Delle tante onorificenze militari guadagnate dagli ebrei, bisogna almeno ricordare le 76 medaglie d’oro al valore e i 22 ordini della Croce di Ferro di terza classe. Ufficiali ebrei prestarono servizio anche in formazioni elitarie, ad esempio, nel Primo Reggimento Kaiserschützen della Landwehr, una celebre unità da montagna” (Deák). Tra gli intellettuali e gli scrittori che hanno ricordato con grande nostalgia, non scevra però di notazioni critiche, il defunto impero, spiccano notoriamente su tutti tre ebrei: il saggista e romanziere austriaco Stefan Zweig, l’illustre storico ungherese François Feitö, il celebre scrittore austriaco Joseph Roth.
7. Nella cultura della “Grande Vienna”, prevalentemente positivista e antimetafisica, si delineava la dissoluzione della recta ratio, la fuga nell’irrazionale in accoppiata con la subcultura esoterica e völkisch.
Oltre ai vantaggi, materiali e spirituali ma avvolti entrambi nel turbine intrinsecamente distruttivo del “progresso”, si diffondevano dunque anche certi evidenti mali della modernità nella Duplice Monarchia. Il fatto è che anche nella Felix Austria il cattolicesimo non era più in grado di rappresentare un argine, di raccogliere le sfide del Secolo. Raccoglierle, nel senso di contrapporvi una visione del mondo capace di attrarre ed imporsi, come nel passato ormai lontano. Capace, pertanto, di orientare la società in senso autenticamente cristiano. Proprio verso la fine dell’Ottocento (scomparsi in apparenza i problemi creati dal giansenismo e dal liberalismo) non cominciò a diffondersi nel cattolicesimo il successore di entrambi, l’errore modernista, che mirava a rendere la religione rivelata succube del pensiero moderno, adottando il soggettivismo di quest’ultimo per reinterpretare i dogmi, con il fine ultimo di dissolvere la Chiesa nell’umanità in marcia verso la supposta democrazia universale? Nella Duplice Monarchia la Chiesa ne restò forse immune? E la cultura cattolica? Uno Strossmayer, con la sua contestazione del Primato e le sue aperture “ecumeniche” agli Ortodossi, fino a che punto era un isolato?

La Grande Vienna tra fine Ottocento e inizio Novecento, lasciando da parte la patina brillante ma vacua e superficiale dei balli, di corte e popolari, dell’Operetta, del teatro popolare e tutto il contorno Kitsch che ne scaturiva, incapace però di nascondere “un’atmosfera [ormai] crepuscolare, da tramonto di una civiltà”(Magris), risplendeva per le sue istituzioni scientifiche, per la sua cultura di grande capitale cosmopolita, per le tendenze innovatrici che vi apparivano, come in altre capitali europee e forse in misura maggiore. Le scuole austriache nell’economia, nel diritto, nella filosofia del diritto, nella filosofia, nella storiografia, in vari rami della scienza, davano contributi essenziali alla cultura europea, ma nello spirito per l’appunto della modernità.

Da un lato, certamente influenzate dai difficili problemi politici e costituzionali dell’impero, si slanciavano nelle speculazioni più ardite, miranti a conciliare contrapposte esigenze in una armonia superiore, secondo la migliore tradizione austriaca: penso ai Merkl, ai Verdross e ai Kelsen, alla loro costruzione a gradi dell’ordinamento giuridico, da quello nazionale a quello internazionale, in un sistema armonioso anche se astratto di norme, realizzante la perfetta immagine giuridica del mondo; norme poste da norme in base al principio di validità, riposante kantianamente sulla validità di una norma fondamentale presupposta, fondamento della validità dell’intero ordinamento; o allo stesso austromarxismo, che tentava, ispirandosi anch’esso al neo-kantismo, di coniugare Marx con l’etica kantiana e di costruire una razionale via parlamentare e democratica al socialismo, che ne eliminasse il terribile carico di violenza rivoluzionaria, suscitando con ciò il dileggio e l’ira funesta di un Lenin, il genio crudele della Rivoluzione alle porte, levatrice la Grande Guerra.

Se la cultura dominante, in apparenza del tutto sicura di sé, tendeva ad una visione il più possibile razionale del diritto, dello Stato, dell’economia e persino del socialismo, la determinazione delle leggi della natura, quale avrebbe pur dovuto risultare dalle speculazioni della fisica e della filosofia della conoscenza in senso stretto, risultava invece per più aspetti problematica. I fondamenti forniti alla scienza fisica dal positivismo, che sembravano solidissimi, venivano in realtà ad esser messi in discussione dalla scoperta dell’atomo e poi (soprattutto) del quanto elementare di energia, nell’anno 1900; cose tutte che introducevano la discontinuità e la probabilità nell’ordine della natura, almeno dal nostro punto di vista, puramente umano e limitato quanto agli strumenti di conoscenza. Ne discendeva un inevitabile ripensamento delle categorie fondamentali del conoscere, a cominciare dal principio di causalità. Tutto ciò, in filosofia, portava ad accentuare sempre più l’indirizzo antimetafisico inerente al positivismo, a credere (ad un certo punto) di poter risolvere il problema della conoscenza riducendo la filosofia all’analisi logica del linguaggio, con il viennese Ludwig Wittgenstein, per esempio, che finì di scrivere il suo celebre Tractatus durante la Grande Guerra e in prigionia in Italia; o con il ridurre la filosofia alla “logica della ricerca scientifica”, come titolava il famoso volume pubblicato nel 1934 da un altro celebre viennese, Karl Popper: una “logica” che metteva in discussione il principio di induzione dell’universale dal particolare e in sostanza la possibilità stessa di un concetto dell’universale, riaprendo, senza risolverle, antiche questioni metafisiche (anche se a Popper va riconosciuto il merito di aver impostato una articolata critica filosofica del metodo scientifico, aprendo così il necessario confronto tra filosofia e scienza).

Il supposto “centro [ancora] cattolico” dell’Europa, dal punto di vista culturale era in realtà dominato dalla contraddizione tipica della Weltanschauung dei moderni, risultante dal suo sempre più radicale antropocentrismo. Da un lato, lo sforzo intensissimo di costruire una visione integralmente razionale della realtà, a cominciare dal mondo della natura per finire a quello sociale e storico, pur escludendo da queste realtà la presenza e l’azione di un Creatore, ossia di ogni prospettiva trascendente – riducendo pertanto il principio di causalità alla sola causalità efficiente, intesa tuttavia come sistema di nessi il cui determinismo non rinviava ad una Causa Prima. Dall’altro, il contestuale emergere di pulsioni irrazionali coinvolgenti non solo la sensibilità ma anche i valori: l’esponente più evidente di questo movimento spiritualmente eversivo è notoriamente Nietzsche, morto pazzo nell’anno 1900, con la sua dissacrante opera di “rovesciamento di tutti i valori”, come diceva, per sostituirvi il “nichilismo” ossia un vuoto morale e spirituale riempibile dalla creatrice “volontà di potenza” del soggetto naturalisticamente inteso, in ogni sua azione legge a se stesso.

La spinta irrazionalista si esprimeva soprattutto nelle ben note forme di decadentismo letterario e artistico fin de siècle. Alle “scuole” codificanti la tradizione, si opponevano “i circoli” e “le secessioni”, famosa la Secessione viennese nelle arti figurative. Soprattutto in Austria e in Boemia (a Vienna e a Praga) nei letterati e negli artisti più significativi di questo periodo (nei von Hofmannsthal, nei Rilke, nei Kafka, nei Trakl; in pittori come Klimt, Schiele, Kokoschka) si mostrava una sensibilità visionaria, morbosamente attratta dal tema della morte, della dissoluzione, della catastrofe, del finis Austriae. Aleggiava l’attesa angosciosa della fine dolorosa di un mondo, e un’attesa simile pervadeva anche certi ambienti dell’intellettualità russa, la cosiddetta “san Pietroburgo mistica” degli anni anteriori alla Grande Guerra; si intende, “mistica” nel senso “spiritualistico” del termine, ovvero di una sensibilità impregnata di esoterismo, occultismo, teosofia (Webb).

In un grande e difficile poeta come Rainer Maria Rilke, anticipante la “disperazione” del posteriore esistenzialismo heideggeriano con il suo fascinoso lirismo, prodigo tuttavia di un “misticismo naturistico che ignora completamente Dio, in cui vede, se mai, una via dell’anima, non uno scopo da raggiungere” (Mittner), il senso della morte occupa un posto assolutamente centrale. Delle sue celebri Duisener Elegien, le elegie composte quasi tutte quad’era ospite nel castello di Duino, vicino a Trieste, nel 1912, scrisse che “affermazione della vita e della morte sono una sola cosa nelle Elegie”(Traverso). Affermazione della vita, chi non la condivide? Ma, “della morte”? Perché questo volersi tuffare nel non-essere, come se da esso zampillasse chissà quale arcana conoscenza?
“Ma le notti! Ma le alte notti d’estate, e le stelle,
le stelle della terra. Oh, un giorno essere morti
e senza fine saperle, tutte le stelle – ahimè, come,
come dimenticarle?” (Settima Elegia - tr. it Leone Traverso)
Oh, un giorno esser morti…O einst tot sein: sembra quasi un’invocazione alla felicità. E nelle città, anche nell’amata Parigi, non regna forse la morte nelle piazze?
“Piazze, oh piazza in Parigi, infinito teatro
dove madame Lamort, la modista,
le inquiete vie della terra, nastri senza mai fine,
annoda e piega e inventa dai loro intrecci le nuove
asole, gale, fiori, coccarde, frutti finti – dai falsi
colori tutti, - pei poveri
cappelli invernali della sorte” (Quinta Elegia)
Ma cosa c’è, secondo il poeta, al di là della morte? Forse una vita nuova, una vita eterna che può, come speranza, dare un senso al nostro presente sofferente e mortale? Vita e morte in realtà si confondono, sprofondando nell’abisso dell’Indeterminato, nel gorgo cosmico:
“………………..Ed essere morti è fatica
e molto ha da ristorare perduto, chi attinga
a grado a grado un poco d’eternità. Ma i viventi
errano, troppo chiari delineando i confini.
Gli angeli (è fama) sovente non sanno
se tra i viventi vadano o i morti. L’eterna corrente
ogni età fra i due regni trascina e sovrana risuona…”
(Prima Elegia).
Anche l’erotismo, specchio della diffusa sensualità dell’epoca, veniva rappresentato da due indubbiamente grandi pittori austriaci come Gustav Klimt e il suo allievo Egon Schiele non certo “tizianescamente” bensì in modo malato e deforme, nudità scheletriche afflitte da pallori mortali, tali da riuscire a render sgradevole il corpo della donna, trasformandolo in simbolo di malattia e morte. Il movimento verso il disordine, la decomposizione, il caos, la “perdita del centro” per l’appunto (Sedlmayr), e quindi dell’equilibrio e dell’armonia, iniziatosi da tempo in Europa, investiva in modo sempre più ampio le arti figurative e la musica. E proprio nella patria di Mozart, con la teoria e la musica del viennese Arnold Schönberg, che sembrava voler codificare la disarmonia e creare un nuovo ordine in realtà impossibile, si iniziava nella musica quel processo di autoannientamento dell’espressione artistica in generale, che oggi ha raggiunto in Occidente livelli inimmaginabili di degrado e squallore, almeno nell’arte prevalente sul mercato d’arte. Se l’architettura civile e industriale, in particolare con Walter Gropius e l’esperienza della Bauhaus, conservava ancora un’impostazione razionale, che in Italia avrebbe dato i migliori risultati negli anni Venti e Trenta, all’epoca del fascismo, oggi siamo arrivati ad edifici storti, sghembi, contorti, deformi, siamo cioè giunti alla fine di un cammino iniziatosi allora. Accanto alla ricerca della razionalità, separatasi però dal divino, anche nella Felix Austria abbiamo dunque (forse proprio a causa di questa separazione) l’emergere di un fondo oscuro e tenebroso, l’irruzione di un irrazionalismo, l’inizio di un’involuzione che, in filosofia, sembra ben rappresentata da pensatori come Wittgenstein.

7.1 L’irrrazionalismo a sfondo nichilistico di Wittgenstein, emblematico del tramonto di una cultura e di una civiltà.

Ludwig Wittgenstein, rampollo (e pecora nera) di una prolifica famiglia della colta e benestante borghesia ebraica, il cui padre, magnate dell’acciaio convertitosi al cattolicesimo, era uno degli uomini più ricchi d’Europa, nel suo celebre Tractatus muove dalla necessità, tradizionale nel metodo filosofico di tipo empirico, di mettere ordine nel mondo, che appare a noi, in quanto “eventualità” o “caso” (Fall), costituito da mere “circostanze di fatto”, semplice “connessione esteriore di oggetti (cose, enti) [Der Sachverhalt ist eine Verbindung von Gegenständen (Sachen, Dingen)]” (Tractatus, 2.; 2.01). Elabora quindi i consueti nessi (usuali, da Locke in poi) tra realtà e immagine della realtà, ove l’immagine (Bild) nostra del reale deve avere (ovviamente) un elemento in comune con la realtà che essa contiene (2.1 ss.; 2.161). L’immagine è “la forma logica della realtà”(2.18), intesa sempre la realtà come “fatto” o “realtà di fatto, effettuale”(Tatsache). Il pensiero allora è “l’immagine logica delle realtà di fatto”; “Das logische Bild der Tatsachen ist der Gedanke” (3.). Ma nel bilden c’è l’idea del formare, costruire: l’idea che il pensiero costruisce, forma logicamente la realtà. E come avviene questa “costruzione”? Non con concetti a priori, nuova forma di kantismo, ma con un sistema ugualmente del tutto formale, costituito dalle proposizioni e dai segni del linguaggio (3.1 ss.: “Im Satz drückt sich der Gedanke sinnlich wahrnehmbar aus”: “Nella proposizione il pensiero si esprime in modo da essere sensibilmente percepito”).

Ma le connessioni analitiche che Wittgestein stabilisce, con un procedere che sembra a scatole cinesi, tra proposizione, segni, significato, nomi, forma e contenuto, simbolo, etc., sono tali da permetterci di giungere ad una soddisfacente conoscenza della c o s a , della realtà oggetto di questa conoscenza, così com’è in sé, anche senza pretendere di esaurirla? I “nomi”, scrive, sono “i segni semplici”che si ritrovano nelle proposizioni (3.202). Qual è il loro significato? “Il nome significa l’oggetto. L’oggetto è il suo significato. (“A“ è lo stesso del segno di ”A”)(3.203). Alla configurazione dei segni semplici nei segni della proposizione corrisponde la configurazione degli oggetti [Gegenstände] nella realtà di fatto. Il nome rappresenta l’oggetto nella proposizione”. Abbiamo qui concordanza di realtà esteriore e pensiero nella proposizione che contiene il nome con cui definiamo razionalmente questa realtà? Anche la semplice possibilità di questa concordanza, presente in noi in potenza già per il fatto di possedere un intelletto razionale? No. Qui il discorso subisce, a mio giudizio, uno scarto che non appare giustificato, nemmeno dal discorso stesso: “Gli oggetti posso solo nominarli [nennen]. I segni li rappresentano. Posso solo parlare di essi, non posso esprimerli [Ich kann nur von ihnen sprechen, sie aussprechen kann ich nicht]. Una proposizione può dire solo come una cosa sia non cosa sia [Ein Satz kann nur sagen, wie ein Ding ist, nicht was es ist]” (3.202-3.221; corsivi nel testo).

A cosa si riduce allora la nostra conoscenza? E siamo qui veramente oltre Kant e i neo-kantiani? La conoscenza della realtà è sminuita a mera possibilità di conoscere le nostre “proposizioni” sulla realtà. Il pensiero non è ciò che realizza la concordantia tra il soggetto conoscente e l’oggetto conosciuto. Visto che esso si deve intendere, in generale, come “la proposizione fornita di senso” (“Der Gedanke ist der sinnvolle Satz”). E poiché la “totalità delle proposizioni è il linguaggio”(4.001) ecco che “ogni filosofia dovrà ritenersi “critica del linguaggio”(4.0031). Pertanto, “il fine della filosofia è la chiarificazione logica del pensiero. La filosofia non è una dottrina filosofica bensì un’attività. Un lavoro filosofico risulta essenzialmente di chiarimenti [Erläuterungen]. Il risultato della filosofia non consiste di “proposizioni filosofiche” bensì nel chiarificarsi di proposizioni” (4.112).

Bisognerebbe forse dire, parafrasando il Petrarca, “povera e nuda vai filosofia”, così ridotta, umile e disprezzata ancella del linguaggio. Il Wittgenstein del Tractatus era convinto di aver trovato la pietra filosofale cioè una “forma universale della proposizione” costituente “la forma universale della funzione di verità [die allgemeine Form der Wahrheitsfunktion]”, funzione che egli esprime con i segni della logica simbolica (6-6.001 ss.). Tale “forma universale” resta del tutto astratta, come del resto l’intera costruzione di Wittgenstein, con la sua pretesa di aver trovato nel linguaggio una forma che permette di accedere alla verità, in quanto linguaggio, non in quanto verità di ciò che è significato nel linguaggio. La “verità” lo è qui sempre della “proposizione”, si viene a costituire mediante l’articolazione delle “proposizioni”, secondo la loro logica formale, coerente con determinate premesse o meglio definizioni, non è la verità del contenuto delle proposizioni e quindi della realtà indagata dal pensiero, mediante l’articolazione delle proposizioni nel discorso razionale.

La “ricerca della logica significa la ricerca di ogni regolarità. E al di fuori della logica tutto è a caso [Zufall]” (6.3). Non possiamo che concordare. Ma questa Gesetzmässigkeit nel senso appunto di “conformità alla norma, regolarità” non ci permette di giungere alla legge causale vera e propria. Per Wittgenstein, “la legge causale non è una legge bensì la forma di una legge”. Le “leggi causali” della fisica, per esempio della meccanica, sono solo “ un nome di genere [ein Gattungsname]” (6.32-6.321). Il nominalismo di Wittgenstein salta fuori ad ogni pie’ sospinto. Per lui, la meccanica newtoniana si limita a “conferire forma unitaria alla descrizione del mondo”, dove l’unitarietà è da intendersi sempre nel senso formale, risultante dalla logica che regola i rapporti tra proposizioni fornite di senso. Non si può pertanto dire che esistano “leggi di natura” nel senso nel quale comunemente si intende tale nozione ma solamente “connessioni regolari” tra i fenomeni (6.36-6.361). La critica al principio di causalità risente qui in parte delle discussioni sull’argomento tra i Fisici, dalla fine dell’Ottocento in poi.

La realtà rimane pertanto sconosciuta e il “significato del mondo” resta per noi indeterminato. Dal par. 6.373 sino alla fine, par. 7, abbiamo la parte “mistica” del Tractatus, che ne rappresenta per l’appunto la conclusione nell’irrazionale, per non dire nel nichilismo.

Muovendo dalla ovvia constatazione che “il mondo è indipendente dalla mia volontà”, Wittgenstein afferma tuttavia che “il significato del mondo deve trovarsi al di fuori di esso”(6.41). Ma dove? Presso un Dio creatore? No. “Nel mondo tutto è com’è e accade come accade; in esso non v’è alcun valore – e se vi fosse, non varrebbe [a sua volta] nulla. Se vi si trova un valore che ha valore, deve situarsi al di fuori di tutto l’accadere e l’esserci [del mondo stesso]. Infatti ogni accadere ed esserci dipendono dal caso [Denn alles Geschehen und So-Sein ist zufällig]. Ciò che rende l’accadere non casuale non può trovarsi nel mondo, altrimenti diverrebbe a sua volta casuale. Deve trovarsi fuori del mondo”(6.41, corsivi nel testo). Trovarsi allora in Dio? In nessun modo. “Ciò che sta più in alto” è del tutto indifferente al mondo: Dio non si rivela nel mondo (6.432). L’aver-senso del mondo non appartiene al mondo ma nemmeno a Dio. Da dove ricavarlo, allora? Dove trovare il nostro ubi consistam?

Stabilito questo principio, che il c a s o domina nel mondo rendendolo in sostanza privo di senso, principio che appare del tutto irrazionale già per esser in contraddizione con l’esistenza stessa di una logica checchesia, anche del linguaggio - Wittgenstein ne trae le seguenti proposizioni: “Pertanto ne consegue che non si dà alcuna proposizione concernente l’etica. Le proposizioni non possono esprimere ciò che è superiore [Sätze können nichts Höheres ausdrücken]” (6.42): non possono esprimere una realtà spirituale, per di più trascendente. In ogni caso non possono esprimere niente di spirituale, se si vuol rendere in questo modo il termine Höheres (letteralmente: ‘ciò che è più alto, superiore’). Allora l’etica (conclusione gravissima) non appartiene alla dimensione di questo mondo. “È chiaro che l’etica non si lascia esprimere. L’etica è trascendentale. (Etica ed estetica sono la stessa cosa)”(6.422). Eppure, osservo, niente è più facile ad “esprimersi” dei comandamenti del Decalogo, immediatamente comprensibili a chiunque, istruito o illetterato che sia; perfettamente intuibili nel loro nesso con quella che è stata sempre chiamata morale naturale (onora il padre e la madre, non rubare, non ammazzare, non commettere atti impuri, non mentire, non desiderare la donna d’altri, etc.). Per qual motivo sarebbe impossibile “esprimere” l’imperativo, il comando contenuto nelle proposizioni dell’etica, ciò resta pertanto un mistero.

Wittgenstein deve comunque ammettere come valida l’esigenza di una “ricompensa e punizione in senso morale”, conseguenti a determinate azioni. Ma pena e ricompensa, scrive, “devono sempre ricavarsi dall’azione stessa [aber diese müssen in der Handlung selbst liegen]”(6.422). Dall’azione, non dall’applicazione di una norma superiore, contenuta in una “proposizione” indipendentemente dall’azione e ad essa anteriore, che costituisca il parametro in base al quale giudicare il valore morale dell’azione stessa. Come poi le conseguenze dell’azione possano ricavarsi dall’azione senza applicare a quest’ultima i criteri di valutazione (buono-cattivo) stabiliti in una “proposizione” che deve avere significato normativo, significato di legge e norma del giudizio, non si riesce a comprendere. La prospettiva di Wittgenstein implica il concetto assurdo che l’azione debba giudicare se stessa, contenere occasionalisticamente in se stessa la norma che deve stabilire la sua punizione o ricompensa. Il giudizio morale, come concetto, viene qui arbitrariamente espunto dalla realtà. Cosa dobbiamo dire, allora, della volontà morale? Esiste una volontà eticamente orientata nel soggetto, nell’essere umano? Una volontà consapevolmente orientata ai valori morali e, all’opposto, alla loro consapevole negazione?

Una volontà del genere non esiste, per Wittgenstein. “Non si può parlare della volontà come protagonista della dimensione etica [Träger des Ethischen]” (6.423). La volontà è fenomeno che interessa la sola “psicologia”(ivi). Su questo rifiuto dell’etica, fondato sulla ripulsa del nesso tra volontà e morale, aleggia indubbiamente lo spirito di Nietzsche, oltre a quello dello scientismo di marca positivista. Ma vi si riflette chiaramente la personalità tormentata e torbida di Wittgenstein, il quale non teme di cadere in ragionamenti che appaiono del tutto privi di fondamento pur di costruire una “mistica” che sollevi il soggetto da ogni imperativo etico e dal timore della morte. Che significa, infatti, scrivere che l’etica “non si lascia esprimere” o che etica ed estetica “sono uno”? A ben vedere, niente significa. Si tratta di affermazioni apodittiche, del tutto sinnlos, prive di senso. Affermare che l’etica sarebbe la stessa cosa dell’estetica, sa, in questo contesto, di ricercata quanto ingiustificata cancellazione dell’etica dal nostro orizzonte assai più che di richiamo a uno Schiller.

Riecheggiando in qualche modo Epicuro, scrive poi Wittgenstein sulla morte: “La morte non è un evento della vita. Della morte non c’è esperienza vissuta [Den Todt erlebt man nicht]” (6.4311). Come dobbiamo allora intendere questo superamento della morte, che non sarebbe “un evento della vita”, kein Ereignis des Lebens? Convincendoci del fatto che la nostra vita è in realtà senza fine o meglio che può esser percepita come un esser senza fine. La seguente proposizione del Tractatus spiegherebbe l’arcano: “Chi per eternità non intende la durata infinita bensì il non vivere nel tempo giusto [sondern Unzeitlichkeit], costui vive in eterno già nel presente. La nostra vita è senza fine così come senza confini è il nostro campo visivo”(6.4311). La chiave della spiegazione è costituita dalla nozione di Unzeitlichkeit, termine inusuale praticamente intraducibile, che rinvia all’idea dell’esistenza di colui che si trova nella Unzeit, nel “tempo inopportuno” e quindi “inattuale”, se vogliamo vedervi una sfumatura nietschzeana. Allora, considerando la nostra esistenza come inattuale o inopportuna, rispetto al suo tempo storico: inattuale perchè non limitabile ad esso o ad esso opposta sul piano dei valori e quindi, rispetto ad esso, sempre “fuori tempo”, “nel momento sbagliato”, noi ci astraiamo dal presente finito e con ciò guadagniamo l’eternità già qui, nella condizione nella quale ci troviamo?

Ma come può una concezione del genere sostituirsi in modo valido ed efficace a quella dell’eternità in senso proprio? Per Wittgenstein, l’eternità sarebbe solo la proiezione di una presa di coscienza del soggetto, del modo di (ipoteticamente) concepire il suo rapporto con il tempo della sua esistenza storica, dal quale tempo non può sentirsi mai limitato e cui può contrapporsi sul piano dei valori. Ma valga il vero: nell’idea dell’eternità ciò che ci atterrisce è proprio la sua natura oggettiva, di eterna durata, sulla quale assolutamente nulla possiamo e che si impadronisce implacabilmente di noi non appena siamo morti, scomparendo per sempre da questo mondo. Non c’è consapevolezza di sé come soggetto astrattamente (e oscuramente) fuori del proprio tempo che possa sostituirvisi, creando un surrogato accetto alla nostra mente.

Tutto il discorso finale del Tractatus mira a stabilire un’atmosfera mistica nella quale di chiaro c’è solamente il rifiuto della possibilità di ogni etica in nome della mancanza di ordine e razionalità che si registrano nel mondo, dominato dal caso. E il rifiuto di Dio, relegato nella sfera sideralmente lontana degli dèi impotenti di Epicuro, entità del tutto indifferenti a ciò che accade nel mondo.

L’enigma della vita – conclude il Nostro – lo si vorrebbe risolvere nel tempo e nello spazio, ovvero (sottolineo) utilizzando categorie razionali, ma esso richiede una soluzione al di fuori del tempo e dello spazio (6.4312). Ma di nuovo egli scarta l’ipotesi trascendente. Al di fuori del tempo e dello spazio - osservo - ci può essere soltanto Dio, che ha creato il tempo e lo spazio, oltre al cosmo e al mondo. Invece, per Wittgenstein, “all’esterno del tempo e dello spazio” vi è solo l’essere incomprensibile e inspiegato del mondo, che rappresenterebbe in sé la realtà mistica per eccellenza (das Mystische).

Come il mondo sia, ciò è assolutamente indifferente per il Principio Superiore. Dio non si rivela nel mondo. Le realtà effettuali individuano tutte i nostri compiti, non le soluzioni. Non come è il mondo bensì il fatto di esserci, quest’è la dimensione mistica [das Mystische]. La visione del mondo sub specie aeterni, è la sua visione come-Tutto-delimitato. Mistico è il sentimento del mondo come-Tutto-delimitato [Das Gefühl der Welt als begrenztes-Ganzes ist das mystische]….Non c’è alcun enigma” (6.432-6.5).

L’autentica visione “mistica” consiste dunque non nell’elevarsi dell’anima verso l’infinito, cioè verso Dio, andando spiritualmente al di là, per quanto possibile, della nostra finitezza di limitati esseri umani: consiste, all’opposto, nel sentimento (ben consapevole) della finitezza del Tutto, di tutta la realtà nella quale ci troviamo immersi. Il vero sentimento mistico sarebbe dunque non l’anèlito verso l’infinito ma quello verso il finito, verso “il Tutto delimitato”, circoscritto da un confine (Grenze) e quindi chiuso in se stesso, rappresentato dal mondo (nel quale, non dimentichiamolo, tutto, per Wittgestein, è e accade secondo il caso, l’arbitrarietà più completa). Abbiamo qui un rovesciamento completo del concetto della mistica in senso proprio.

Ma Wittgenstein è convinto che affidandosi a questa concezione mistica si avvierebbe “la soluzione dei problemi della vita”, di quelli che sono “i nostri problemi”(6.52 e 6.521). Una soluzione, tuttavia, alquanto peculiare. Non tanto perché destinata a restare individuale e personale, quanto perché essa, per definizione vorrei dire, non si può “esprimere”, tant’è vero che spesso, precisa il Nostro, viene sostituita dalla negazione dell’esistenza stessa del problema, del fatto cioè che la nostra vita presenti a ciascuno gravi problemi (6.521). Ma ciò che non si può esprimere non dovrebbe esser escluso dalla “mistica”, come la concepisce Wittgenstein, se tale “mistica” si sostanzia soprattutto nel “sentimento” del carattere “delimitato” del Tutto che ci ricomprende? “Delimitato”, osservo, vuol dire evidentemente finito, il che implica una actio finium regundorum che non può non esser condotta all’insegna delle misurazioni, di diverso tipo, che l’intelletto è in grado di fare - all’insegna insomma del discorso razionale. Ma il Nostro include invece anche l’inesprimibile nella sfera della “mistica”.

“Vi è senza dubbio l’inesprimibile. Esso si mostra, è il Mistico” (6.522: Es gibt allerdings Unaussprechliches. Dies zeigt sich, es ist das Mystische). Non ci ricorda, questo dictum, il di poco posteriore e heideggeriano mostrarsi, svelarsi dell’Essere nell’Essente, ma tale da restare sempre nel nascondimento e quindi in una sfera che resta inesprimibile? Ma che vuol dire “il mostrarsi dell’inesprimibile”? Interpreto: non che l’inesprimibile venga espresso e cessi pertanto di esser tale, ma che esso si renda evidente, sempre come “inesprimibile”. In altre parole, la nostra realtà quotidiana ci mostra di continuo che essa è pervasa da un “inesprimibile” che mai si disvela, mai entra nel discorso. È lì ma non può esser detto. Ma se l’inesprimibile vien fatto coincidere con il Mistico in sé, il quale a sua volta è la realtà e il sentimento che dobbiamo averne, allora questo misticismo ci appare del tutto oscuro e impenetrabile: da sentimento del mondo, che coglierebbe il senso mistico del mondo come realtà assolutamente finita e delimitata, esso trapassa nell’indicibile e inesprimibile. Ma può esistere un nostro sentimento del tutto indicibile, inesprimibile? L’esperienza mostra che no, non può esistere. Proprio perché l’uomo ha la possibilità di esprimersi con il linguaggio, nelle sue variegate forme.

In realtà, risulta inesprimibile ciò che prova il vero asceta elevatosi ai livelli appunto indicibili nella vera contemplazione mistica, che è quella che mira ad immergersi nel divino. Di questo inesprimibile testimonia san Paolo, in un celebre passo della II Lettera ai Corinti, quando accenna ad “un uomo in Cristo [lui stesso] il quale, 14 anni fa, - se nel suo corpo o fuori del suo corpo, lo sa Iddio – fu rapito fino al terzo cielo. E so che quest’uomo – se nel suo corpo o fuori del suo corpo, non lo so, lo sa Iddio – fu rapito in Paradiso e udì parole ineffabili, che non è dato all’uomo di poter esprimere [et audivit arcana verba quae non licet homini loqui]” (2 Cr 12, 2-4). Ma Wittgenstein esclude a priori il divino dalla sua peculiare “mistica”, il suo “inesprimibile” lo sarebbe (assurdamente) di sentimenti e pensieri solo umani, anche troppo umani, di una realtà mondana dichiarata peraltro priva di significato.

Comunque sia, e proprio qui credo che il discorso di Wittgenstein volesse andare a parare, siffatto “inesprimibile” riguarda anche la filosofia, in particolare la metafisica. La filosofia, conclude il filosofo viennese, dovrebbe pronunciarsi solo su ciò che le viene concesso da parte della “scienza della natura”; limitarsi pertanto:

(1) alla “critica della conoscenza scientifica”, come faranno poco dopo il Circolo di Vienna e Popper; (2) a dimostrare a chi vuol “dire qualcosa di metafisico, che non ha conferito alcun significato a determinati segni contenuti nelle sue proposizioni”(6.53). In altre parole: compito della filosofia, tenuta con le dande dalla scienza, dovrà essere quello di criticare, dimostrandone l’inutilità, ogni possibile metafisica, passata, presente e futura.

La “mistica” propugnata dal Tractatus rappresenta oltre che un’inversione una caricatura della vera mistica. È una pseudo-mistica nella quale ciò che domina è l’abdicazione ad ogni vero discorso razionale al fine di rinchiudere il soggetto pensante in un’oscurità – vera notte della ragione – nella quale l’unico atteggiamento possibile è il silenzio, ma un silenzio impotente che si annuncia carico d’odio, ben diverso da quello dei veri mistici, immersi in quella ricerca della Divinità che di per sé purifica dalle passioni. Il Tractatus termina con la celebre proposizione n. 7 e ultima, spesso citata fuori contesto: “Su ciò di cui non si può parlare, è necessario tacere”. La frase sembra chiarissima nella sua apparente ovvietà ma in realtà è ambigua, considerata nel contesto. Il silenzio che essa ordina non è quello della recta ratio di fronte a ciò che non si conosce e richiede studio e approfondimento prima di pronunciarsi. È l’inespresso ed inesprimibile della sfera “mistica” nella quale dovrebbe rinchiudersi il pensiero ossia la filosofia, lasciando campo libero alla “scienza della natura”. Il Mistico di Wittgestein è solo concime per la pianta velenosa dello scientismo, terra d’asporto nella quale si sono decomposti i buoni semi della vera filosofia. Abbiamo qui una autentica abdicazione dal pensare, consistente, nella maniera più vistosa, nel dichiarare impossibili le proposizioni dell’etica e quindi i concetti morali, impossibile il fondamento di senso del mondo in un Dio trascendente (concetto invece già chiaro ai primi pensatori greci, ad un Anassagora, per esempio), impossibile la determinazione del principio di causalità quale principio d’ordine di un mondo che si vuol arbitrariamente supporre governato dal c a s o .

Questo radicale, nichilistico immanentismo è irrazionale: si fabbrica tortuosamente uno strumento, la chiarificazione logico-formale del linguaggio, scarnificato nel sistema delle proposizioni, per dichiarare alla fine l’inutilità del suo uso, di fronte al Mistico. La contraddizione è clamorosa: la filosofia viene costruita unicamente come filosofia del linguaggio per arrivare alla conclusione che bisogna in ultima analisi affidarsi all’inesprimibile e quindi smettere di parlare, tacere. Tutta la costruzione di Wittgestein, il suo sistema di “proposizioni” affonda nell’incoerenza nella parte finale, ove si proclama per l’appunto l’avvento del momento mistico, preclusivo di ogni autentico discorso. Potremmo applicare all’irrazionalismo e al nichilismo di Wittgenstein, la dichiarazione di inguaribile malattia spirituale fatta fare da Hugo von Hoffmansthal, altro tipico esponente della “sensibilità morbosa e decadente”(Magris) diffusa all’epoca, al personaggio da lui creato, quale autore della immaginaria Lettera di Lord Chandos, 1902: “Il mio caso, in breve, è questo: ho perduto ogni facoltà di pensare o di parlare coerentemente su qualsiasi argomento”.

7.2 Filoni austriaci della pseudo-cultura esoterica e völkisch.

    Il vasto sottobosco della cultura detta völkisch, termine tradotto con “nazional-popolare”, “inerente al Volk”, era cresciuto anche nella “cattolicissima” Austria, soprattutto in quella robusta e composita minoranza che si volgeva al pangermanesimo, ideologia estremista che attraeva in particolare i giovani. Intessuto di occultismo nelle sue varie forme, tale sottobosco tendeva o ad inquinare il sano concetto di tradizione cattolica reinterpretandola alla luce di una supposta ”sapienza” iniziatica, pagana o orientale o, più frequentemente, ad avversare il cristianesimo in nome di quella stessa “sapienza” e di forme radicali di neo-paganesimo. L’esoterismo e il neo-paganesimo, mescolandosi all’odio per la civiltà industriale distruttrice della natura, della vita contadina di un tempo, delle tradizioni popolari e dei sani (e magari idealizzati) costumi di un tempo, e al diffuso social-darwinismo, alimentavano poi il razzismo e l’antisemitismo.

“Il più influente dei gruppi di occultisti fu quello che si costituì a Vienna, nei due ultimi decenni del diciannovesimo secolo, avendo a mentore Guido von List [1848-1919], un erudito austriaco ossessionato dal desiderio di provare che Vienna era stata la città santa dell’antichità. È significativo il fatto che le idee di List siano nate in una regione di confine del mondo germanico, soggetta a continui scambi con i viciniori paesi slavi. List operava una commistione di natura e storia, ove la prima era intesa quale guida divina dalla quale promanava un’incessante forza vitale. E, diceva la sua formula, quanto più una cosa era vicina alla natura, tanto più era vicina alla verità; il passato ariano tedesco era vicinissimo a tutto ciò che era vero, a tutto ciò che era degno di lode e di emulazione; in esso, materialismo e razionalismo non avevano avuto posto: si trattava in realtà di calamità affatto moderne. Ma come avrebbe potuto l’uomo contemporaneo ritrovare il passato? Stando a List, tutto ciò che occorreva era l’immediata partecipazione col paesaggio che ancora recava le tracce indelebili della gloriosa civiltà germanica […] La natura costituiva la guida al divino, poiché la ricerca della verità doveva procedere sulle orme della volontà creativa. Ma questa comprensione del paesaggio richiedeva una più profonda iniziazione: era necessario che l’individuo si accostasse al passato storico del Volk, che si impregnasse dell’elemento più genuino della forza vitale, l’antica sapienza germanica, quella che era stata soffocata dai rigori del cristianesimo, il dogma straniero che aveva tentato di sradicarla quale vestigio del paganesimo” (Mosse).

Volk è termine più pregnante che il semplice “popolo”, in quanto denota “un insieme di individui legati da una “essenza” trascendente, volta a volta definita “natura”, o “cosmo” o “mito”, ma in ogni caso tutt’uno con la più segreta natura dell’uomo e che costituiva la fonte della sua creatività, dei suoi sentimenti più profondi, della sua individualità, della sua comunione con gli altri membri del Volk” (Mosse). Questa concezione “mistica” del Volk, era alla base della balzana “sacralità” che List voleva ritrovare in Vienna. “Nel 1889 pubblicò il romanzo Carnutum [arcaico insediamento celtico sul Danubio poi centro e base militare romani], che magnificava la sacralità di Vienna sulla base del fatto che era stata la patria di Gluck, Haydn, Mozart, Beethoven e dello scopritore della “Forza odica”, il barone Reichenbach. Era il luogo dove, secondo un’antica profezia, la futura Chiesa degli ariani sarebbe sorta per diffondersi in tutto il mondo [oggi, AD 2022, dopo Bruxelles, Vienna sta diventando la città più islamizzata d’Europa]. Nel 1891 von List pubblicò un lavoro di “occultismo archeologico”, che forniva un’interpretazione romantica dei paesaggi germanici e dei resti preistorici come le iscrizioni runiche e i tumuli sepolcrali. Nello stesso anno ebbe l’ispirazione di comporre un catechismo panteistico e germanico. Il dio di von List, Allvater, veniva onorato conducendo una vita virtuosa, lavorando e servendo il Volk” (Webb).

Mosse ha dimostrato che l’ideologia völkisch, prima della Grande Guerra, era diffusa tra i giovani perché era ampiamente penetrata nel sistema scolastico tedesco pubblico. “Le idee nazionalistiche radicali ebbero un influsso relativamente forte su associazioni e leghe (Federazione ginnica, società alpinistica, cori, Associazione scolastica tedesca) e in seguito sui gruppi del Movimento Giovanile Tedesco in Austria” (Wandruzska). Tuttavia la gioventù studentesca austriaca, che subì questo influsso più di ogni altro gruppo sociale, spesso abbandonava quest’ideologia estremista “dopo aver conosciuto, durante il servizio militare o come funzionari statali, i vantaggi dell’Impero multinazionale” (Wandruzska).

Ma contro la visione del mondo “nazional-popolare” e le sue componenti esoteriche, non costituiva un valido baluardo la cultura cattolica tradizionale? Per alcuni certamente lo costituiva ma in generale essa era ridotta da lungo tempo sulla difensiva, sostituita dalla cultura laica nel sistema scolastico pubblico e obbligatorio, preso in carico dallo Stato. Giocando su di un concetto spurio di tradizione, l’ideologia “nazional-popolare” tendeva, invece, ad inquinare il cattolicesimo. E la cultura laica dominante non riusciva ad esorcizzare gli spiriti maligni presenti nell’indirizzo “nazional-popolare”? Non ci riusciva, così come l’austromarxismo non riusciva ad esorcizzare lo spirito crudele della rivoluzione montante. Ad addomesticare l’irrazionale in noi, non avrebbe dovuto dare un forte contributo la scoperta delle forze oscure dell’inconscio da parte di Freud; insomma, l’inizio della psicoanalisi? Le antiche riflessioni di filosofi e moralisti sulle passioni, sulle forze profonde che le muovono, non venivano ora sostituite da un’analisi che si poteva condurre su base scientifica, sì da rendere più facile la loro disciplina?

In realtà, le cose stavano così solo in apparenza. Per il semplice motivo che Freud avrebbe ricavato anche da una fonte inquinata come quella rappresentata dalla subcultura esoterica elementi utili alla sua interpretazione pansessualistica delle malattie mentali e poi delle caratteristiche stesse della nostra psiche; interpretazione inaccettabile nella sua evidente unilateralità, tradottasi poi in quella ben nota filosofia di vita superficiale e decadente che crede di render libero e felice l’esser umano con l’insegnargli ad abolire la repressione degli istinti. Anche se pubblicato da lui nel 1927, il citato saggio L’avvenire di una illusione, riprendendo argomenti delle vecchie polemiche anticristiane libertine e illuministiche, trattava la religione in modo estremamente superficiale, come una proiezione infantile del desiderio di sicurezza dell’uomo, originata quindi dalla paura dell’ignoto. Questo sciagurato saggio considerava la religione in sostanza una forma di nevrosi, auspicando persino una educazione dei fanciulli del tutto irreligiosa nei suoi princìpi, da fondarsi sulla scienza (oggi AD 2022 ci siamo da tempo arrivati e ne vediamo i risultati). Ma il saggio esprimeva una mentalità e un modo di considerare il Sacro e la religione ben radicati nella mentalità positivistica di fine Ottocento. Tal modo, ostile non solo al cristianesimo ma ad ogni forma di religione in quanto tale, aveva creduto di darsi una patina scientifica, cominciando appunto con l’analisi delle “varietà dell’esperienza religiosa”, come titolava una celebre opera di William James, del 1902 (la religione intesa solo come religiosità individuale, avente quindi il suo fondamento solamente nella nostra psiche, anzi nella nostra “emotionality”). L’analisi psicologica della religione si coniugava allo studio antropologico del Sacro presso i popoli primitivi, ancora legati a forme “animistiche” di esperienze religiose, che la mentalità positivistica dominante cercava di trasformare scorrettamente in parametri fondamentali di ogni esperienza religiosa, anche la più evoluta, come quella cattolica.

Ma quali sarebbero state le componenti della subcultura esoterica, il “sostrato occulto” che avrebbe influenzato Freud? Ad esempio, la bislacca teoria di una supposta bisessualità di ogni essere umano, già elaborata nell’ambiente occulto da intellettuali dediti all’esoterismo e alla teosofia, elucubranti sui miti dell’Androgino primigenio, sulla numerologia magica e simili vanità, con i quali il giovane Freud aveva avuto provati e prolungati contatti: come Wilhelm Fliess, un otorino tedesco appassionato di esoterismo, il quale aveva stabilito che la vita di ognuno era governata da periodi di 28 e 23 giorni, connessi al ciclo mestruale, e che tutti gli esseri umani erano bisessuali (Webb). Nell’ambito della sottocultura esoterica, incline di nascosto alla libertà sessuale più completa e totale, si dava un’importanza rilevante all’influenza del sesso sulla psiche e sull’inconscio. Più in generale, “nella teoria e nella pratica psicoanalitica, si incontrano idee che sono versioni laicizzate di concetti che trovano la loro espressione naturale nel linguaggio dell’occultismo contemporaneo. Non vogliamo dire che questa fosse l’intenzione di Freud, ma sul suo atteggiamento nei confronti dell’occulto è stato detto tanto da poter mostrare che un contatto esisteva effettivamente e che non poteva nemmeno esser evitato. Le teorie erano disponibili e, che egli se ne rendesse conto o meno, influenzarono Freud nella sua interpretazione dell’Inconscio” (Webb).

Nel Nuovo che avanzava si celava dunque e già mostrava l’antico, “l’antico serpente”, che seduceva gli uomini con lo spirito di ribellione a Dio e il conseguente cedimento agli istinti, dietro il paravento di filosofie e terapie originali ma f a l s e quanto al loro contenuto di verità. Contro di esse anche in Austria mancava la replica di una cultura cattolica capace di opporsi vittoriosamente alla “modernità” sul piano del concetto. Il contributo della cultura cattolica alla vera scienza c’era ancora ma soprattutto a livello individuale e nascosto, come nel caso dello scopritore delle leggi dell’ereditarietà, il monaco agostiniano Gregor Mendel (1822-1884), il “padre della genetica”, come fu poi salutato. “E fu nel monastero di Brünn [Brno] che l’abate Gregor Mendel, di origine contadina [la famiglia era di israeliti convertiti], dedicandosi ai suoi doveri ed ai suoi piselli, fece scoperte sulla fisiologia dei processi ereditari che gli meritarono un posto di poco inferiore a quello di Darwin nella biologia. I suoi studi, pubblicati su un’oscura rivista [nel 1865], rimasero sconosciuti al mondo della scienza fino ad una generazione dopo la sua morte”(May), ossia per quasi cinquant’anni.
8. L’impero austro-ungarico non era più in grado di svolgere la sua missione storica, il suo tempo si era ormai compiuto.
Cento anni dopo il 1918, l’impero asburgico rivive dunque come mito di una perduta età dell’oro e lo si può comprendere, guardando al cupo presente, dominato dalla decadenza sociale, demografica, morale, culturale delle nazioni europee, ingabbiate nella sciagurata Unione. L’Unione ha accentuato una decadenza già in corso invece di interromperla e rovesciarla. La multinazionale Unione non può in alcun modo reggere il paragone con il multinazionale impero che fu, paragone che si è tentato periodicamente di proporre, anche di recente. Innanzitutto perché la Duplice Monarchia, nonostante gli evidenti cedimenti alla mentalità e ai costumi del Secolo, era ancora uno Stato cristiano. Inoltre, era un vero Stato, che ha concorso a creare una civiltà evoluta, caratterizzata da una splendida cultura, non un’unione contrattuale di Stati tenuti insieme da vincoli economico-finanziari regolati da un’oligarchia strettamente connessa alla finanza internazionale; ispirata, quest’unione mercantile, sul piano dei princìpi, al rovesciamento di tutti i valori apportato dalla Rivoluzione Sessuale diffusasi in Occidente negli ultimi decenni, recepita con tutti gli onori nelle leggi dell’ “Unione” stessa, in nome di un concetto esasperato, materialista, edonistico all’estremo di libertà individuale. Quest’ “Unione” sembra piuttosto la caricatura di un vero Stato. E quale “cultura” è capace di esprimere? Vi domina la pseudo-cultura del “politicamente corretto”. Le sue élites di governo non hanno il vero senso dello Stato, istituzione il cui dovere primario consiste nel proteggere e difendere il territorio e il popolo, al contrario lasciati in balìa delle massicce ed indifferenziate, ingiustificate ondate migratorie clandestine afro-asiatiche e mussulmane. Né dimostrano di avere senso morale e del diritto, altrimenti non riconoscerebbero l’aborto volontario come “diritto” della donna tutelato dallo Stato né legalizzerebbero come “matrimonio” le convivenze contronatura dei “diversi” né promuoverebbero le perversità della c.d “educazione sessuale”, ora includente l’abominio del cosiddetto “transgenderismo”, sin dalle scuole elementari.

La ricerca di un valido rimedio alle infamie e nequizie del presente non può tuttavia oscurare il giudizio storico, che vuol essere il più possibile obbiettivo, razionale, né può approdare alla riesumazione di modelli definitivamente scomparsi, frutto di situazioni storiche e sociali irripetibili.

Il mito asburgico ha assunto aspetti sconcertanti in Italia, soprattutto presso i cosiddetti “tradizionalisti” cattolici, da non confondere con i cattolici “fedeli alla Tradizione della Chiesa”, dal momento che il c.d. tradizionalismo risente in genere di un concetto di tradizione di tipo “sapienziale”, non cattolico, a sfondo esoterico, che vediamo all’opera, ad esempio, nell’idea ad esso cara dell’origine e natura c.d. “sacrale” del potere legittimo, attuantesi mediante l’uso cerimoniale di determinati simboli. Da quando si è avuta la beatificazione a sorpresa di Carlo d’Asburgo sembrano risuscitati gli “austriacanti” e i “codini” di un tempo in quegli italiani che hanno celebrato il centenario della Grande Guerra schierati dalla parte dei nemici ed oppressori storici dell’Italia; beatificando, per così dire, anche Francesco Giuseppe e piangendo calde lacrime per la sconfitta della Duplice Monarchia, dovuta, si capisce, a non meglio precisate oscure mene, tradimenti e complotti. Un atteggiamento a dir poco indecoroso questo non richiesto, piagnucoloso scodinzolare e prostrarsi di fronte alle immagini di imperatori, re, generali e statisti stranieri che ci hanno sempre disprezzato noi italiani, in blocco; sempre detestato e odiato, dominato e sfruttato in tutti i modi, profittando dei nostri secolari difetti per tenerci il più possibile divisi e sottomessi: nient’altro che una “espressione geografica” l’Italia, come disse il principe Klemens von Metternich, il famoso cancelliere austriaco (tedesco di nascita) protagonista della Restaurazione, cacciato dalla rivoluzione del 1848.

Il giudizio negativo che bisogna dare della politica austriaca e asburgica nei confronti dell’Italia e degli italiani, perché politica sempre di conquista e divide et impera, che dimostrò il suo fallimento quando scoppiarono le grandi rivolte popolari milanesi, bresciane, veneziane e venete del 1848-1849; nonché della politica austriaca nei confronti della Polonia, a partire da un certo momento di conquista e spartizione, quando l’Austria cattolica avrebbe dovuto difendere la cattolica Polonia aggredita dalla luterana Prussia e dalla Russia greco-scismatica, non impedisce, ovviamente, il riconoscimento dei molteplici meriti del defunto impero, sopra sinteticamente ricordati. Né lo impedisce, il riconoscimento, la constatazione secondo la quale la monarchia asburgica ha logorato le sue forze nel lungo e secolare conflitto con la monarchia francese per il controllo del corso del Reno da un lato, della pianura padana e dell’Italia dall’altro – non meno colpevoli i francesi di tale conflitto, la cui posta voleva essere il dominio dell’intera Europa. Questo conflitto fu esiziale non solo per la Francia, l’Austria, l’Italia e per l’Europa (ha impedito per secoli l’unione delle forze contro l’assalto ottomano e barbaresco), ma anche per la Cattolicità tutta, a causa delle ricadute pesantemente negative che ha avuto per la possibilità stessa di attuare in modo valido e coerente l’ideale dello Stato cristiano. Il conflitto terminò in Italia di fatto solo nel 1861, quando nacque finalmente uno Stato italiano unitario, anche se al prezzo di una grave frattura con la Chiesa, ricomposta tuttavia con la Conciliazione del 1929.

* *
Negli Stati come negli individui, le qualità si intrecciano sempre ai difetti e i meriti ai demeriti. Per questo, all’ascesa e allo splendore seguono sempre, per implacabile naturale decorso, la decadenza e il tracollo. Quale forma statale, quale società, quale impero potrebbe durare in eterno? Solo il Dio degli Eserciti è da sempre e sempre sarà, eterno ed immutabile. Le vicende umane sono dominate dalla caducità e dal mutamento, che ovviamente si intrecciano alla crescita e al mantenimento: popoli e Stati si formano, crescono, progrediscono, si mantengono anche per secoli, ma poi comincia implacabile la decadenza e infine giunge la rovina mentre altri popoli e Stati si presentano sulla scena della storia, avanzando con ferrea determinazione.

Come già notò il filosofo illuminista tedesco Moses Mendelssohn (nonno del più famoso Felix, il grande compositore romantico), contro la filosofia della storia di Lessing e di Kant, che ammetteva, come principio regolativo, l’idea di un progresso continuo del genere umano, se non dell’individuo, verso il bene e il meglio, sotto l’educazione della ragione, ritenuta capace di creare, in prospettiva, una federazione di Stati, un “ordinamento cosmopolitico” governato dalle leggi; contro questa utopia, Mendelssohn, strenuo difensore dell’immortalità dell’anima individuale su basi platoniche, sostenne, all’opposto, la possibilità del progresso individuale, mediante l’educazione e la cultura, ma non quello del genere, non il progresso costante dell’intero genere umano. Il genere non è “un’unica persona” ed è “nello stesso tempo fanciullo, uomo e vecchio, solo in diversi luoghi e regioni della terra”. Pertanto, “vediamo che il genere considerato complessivamente compie delle piccole oscillazioni e non avanza di qualche passo senza scivolare poco dopo, con velocità raddoppiata, nella sua posizione iniziale”. In definitiva, “l’uomo va oltre, ma l’umanità oscilla stabilmente al di sopra e al di sotto di limiti fissi. Considerata nell’insieme, ritiene in tutti i periodi di tempo all’incirca gli stessi gradi di moralità, la stessa quantità di religione ed irreligione, di virtù e vizio, di felicità e miseria”(Mendelssohn). Senza dirlo apertamente, egli attaccava la nozione di maggior età del genere umano, caratterizzata dall’uso consapevole della ragione, posta da Kant alla base dell’idea di “illuminismo” come modo di essere dello spirito umano e tassello fondamentale della sua concezione della storia.

La kantiana “uscita di minorità” ad opera della ragione (l’orgoglioso sapere aude!) può aver luogo a livello degli individui o dei singoli popoli (“in diversi luoghi e regioni della terra”) ma m a i per l’umanità in blocco: ad un popolo in ascesa se ne contrapporrà uno in decadenza, in un altro luogo ma nello stesso tempo storico, onde il risultato generale sarà sempre il medesimo, dal punto di vista del progresso del genere: le oscillazioni saranno trascurabili. Kant, com’è noto, ribadì contro Mendelssohn la sua fede nel “continuo progresso verso il meglio” dell’umanità, nel III paragrafo di un suo breve scritto del 1793: Sopra il detto comune: ‘Questo può esser giusto in teoria, ma non vale per la pratica’.

La filosofia della storia dell’Illuminismo, basata sull’idea del progresso continuo del genere umano affrancatosi dalla Religione Rivelata, non dava ragione alcuna del problema del Male nel mondo né, in relazione all’idea della storia, dei periodi di decadenza, nel senso che non riusciva ad inquadrarli nell’ambito della sua concezione razionalistica e ottimistica, unilineare della storia ed anzi persino dualistica, in quanto contrapposizione elementare di luce (la ragione, faro della nuova era) a tenebra (la fede, il cattolicesimo impregnato di Medio Evo). Tale inquadramento è riuscito invece a Hegel, con la sua concezione dialettica della storia, manifestazione dello Spirito Assoluto nel cui realizzarsi si dovrebbero risolvere le contraddizioni che la storia ci offre: la decadenza e la rovina sarebbero la preparazione di una nuova epoca dello Spirito, che rinascerebbe come Fenice dalle ceneri di ciò che è irrimediabilmente trascorso.

Che questa “filosofia della storia”, a cominciare dal concetto dello Spirito, sia pienamente soddisfacente, anche dal punto di vista strettamente laico, sarebbe tuttavia temerario affermare. Quello che possiamo dire con sicurezza, guardando ai fatti, è che si riscontrano sempre nella storia popoli ascendenti contemporaneamente a popoli in decadenza, destinati (aggiungo) ad esser conquistati e sottomessi ai primi, fino a scomparire. Al mutamento che è l’ascesa di alcuni si contrappone il mutare che è la discesa negli Inferi di altri, il “lato negativo” del divenire storico, quello che più ci colpisce.

“Il lato negativo di questa idea del mutamento ci arreca dolore. Ciò che può deprimerci è il fatto che la formazione più ricca, la vita più bella, trovino nella storia il loro tramonto, che noi ci aggiriamo fra le rovine di ciò che fu eccellente. Da ciò che è più nobile e bello, e a cui ci lega l’interesse, la storia ci strappa: le passioni lo hanno distrutto, esso è transeunte. Tutto appare caduco, nulla stabile. Ogni viaggiatore ha sentito questa malinconia. Chi avrebbe potuto fermarsi tra le rovine di Cartagine, Palmira, Persepoli, Roma, senza esser mosso a considerazioni sulla caducità dei regni e degli uomini, a rimpianto per la forte e ricca vita di un tempo? Rimpianto che non si attarda, come presso la tomba di esseri amati, su perdite personali e sulla caducità dei fini propri, ma che è disinteressato dolore per il tramonto di una splendida cultura umana”(Hegel).

Chi, meditando tra le rovine del Foro Romano, non ha mai provato pensieri simili, in modo più o meno cosciente? Si vedono solo lastroni di sconnessa pietra, sul selciato ove sfilavano le legioni celebrando i loro trionfi, e di quei remoti tripudii resta nel ricordo attònito solo la frase (oh, quanto vera!) sussurrante al console vincitore la caducità delle umane vicende, pronunciata dallo schiavo al séguito, secondo il protocollo: “Hominem te esse memento! Memento mori!”.

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La gloriosa monarchia danubiana era dunque giunta alla fine dei suoi giorni. Avevano ragione tutti coloro che ne paventavano il crollo in una futura guerra europea, da Bismarck a studiosi e politici europei di varie nazioni (May). Auspicato da pochi, temuto da molti, il crollo alla fine arrivò e vi contribuirono anche gli errori della classe di governo austro-ungarica (e quelli, più gravi, dei generali tedeschi, Ludendorff in testa, che dirigevano di fatto la politica del loro paese in guerra e prevalevano sull’alleato). Che l’impero asburgico fosse ancora vitale, capace di sopravvivere, però in forma ridotta e con una struttura federale, simile a quella di un Commonwealth, e quindi non più come la grande potenza di un tempo, ma comunque sempre di dimensioni rispettabili, lo dimostra il fatto che combatté tenacemente per tutta la durata della guerra, quattro anni e tre mesi, sino alla consumazione finale. L’Esercito Imperiale e Regio fu l’ultima istituzione a cadere, ma sul campo. Si batté tenacemente e valorosamente ma le crepe nell’edificio e i suoi limiti erano ormai evidenti. Mostrò di non avere le forze sufficienti per sconfiggere da solo nessuno dei suoi nemici, nemmeno quelli di inferiore caratura, come l’Italia, la Romania, la Serbia. Da solo, vinse alcune battaglie minori contro i serbi, i montenegrini, i russi e diverse battaglie difensive, sempre contro i russi e contro di noi. Obbligò i montenegrini a capitolare e ci costrinse ad abbandonare Durazzo, occupata durante l’evacuazione dell’esercito serbo nel 1915, alla quale la Regia Marina aveva dato un contributo fondamentale.

Ma nelle offensive importanti, da solo fallì sempre. Nel ’14, contro la Serbia, dopo i successi iniziali subì nettamente la controffensiva nemica, su un terreno aspro e difficile. La Serbia fu sconfitta (non definitivamente) nel ’15 ma con l’aiuto determinante di tedeschi e bulgari. Nel ’16, partecipò alla rotta inflitta ai romeni, assieme ai tedeschi, che svolsero il ruolo principale e decisivo. A Caporetto, fu tedesco l’audace e geniale piano d’attacco nell’Alto Isonzo, dove lo sfondamento di un punto mal protetto della nostra linea avrebbe permesso di prendere alle spalle, scendendo lungo l’Isonzo o il Tagliamento, tutto il nostro fronte, schierato a semicerchio sino al mare e in gran parte al di là dell’Isonzo e sull’arco alpino. Senza le sette divisioni scelte tedesche (che assieme a sette scelte austro-ungariche formarono la leggendaria XIV armata mista – vera e propria élite della fanteria mondiale – protagonista dello sfondamento, comandata dal generale tedesco Otto von Below) un’offensiva di quel calibro non si sarebbe nemmeno potuta concepire. Le offensive del maresciallo Franz Conrad von Hötzendorf, il nostro implacabile nemico, condotte con le sue sole forze sugli Altipiani fallirono per ben tre volte: nel maggio-giugno del ’16 (la più imponente, la c.d. Strafexpedition), nell’autunno del ’17, nell’estate del ’18, così come fallì l’offensiva finale generale del giugno del ’18 (vedi supra). Contro i russi, l’Imperiale e Regio subì per due volte disfatte impressionanti, riuscendo a riprendersi (ma forse mai del tutto dalla prima) e a passare alla vittoriosa controffensiva solo in cooperazione con i tedeschi. Sul fronte orientale si ebbero casi di singoli reparti slavi, soprattutto cèchi, che si arresero senza combattere “ai loro fratelli slavi”. Contro di noi, l’Imperiale e Regio vinse tutte le battaglie difensive, le famose, terribili “battaglie dell’Isonzo”, tranne una, la sesta, quella che portò alla nostra conquista di Gorizia, allora importante piazzaforte sulla frontiera con il Regno d’Italia, nell’estate del 1916. E fu portato sull’orlo del collasso dall’undicesima, evitato anche grazie all’errore del generale Capello, che non sostenne a sufficienza l’attacco principale, sull’arido altopiano della Bainsizza, nel momento decisivo.

L’impero non aveva in realtà le forze per dominare tre fronti contemporaneamente (orientale, balcanico, alpino e isontino ossia italiano); ce l’aveva per tenerli, difendendoli accanitamente anche se a fatica ma non per piazzare con le sue sole forze un colpo risolutivo in uno di questi tre. Nell’undicesima battaglia dell’Isonzo, l’esercito italiano, sia pure con le consuete alte perdite, del resto tipiche di quella guerra di posizione su tutti i fronti, aveva aperto una breccia nello schieramento nemico sull’arido altopiano carsico della Bainsizza, penetrando a cuneo per circa 12 km nel punto massimo temporaneamente raggiunto (distanza notevole per le avanzate sanguinosissime ma striminzite di allora) e occupandolo in gran parte, sospingendo pertanto il nemico verso il bordo dell’altopiano stesso, una fascia poco profonda, al di là della quale si aprivano avvallamenti coperti da boschi e scarsi d’acqua (il Vallone di Chiapovano) nei quali un esercito non avrebbe più potuto retrocedere e riorganizzarsi. L’Imperiale e Regio riuscì con grande tenacia e valore a ricostituire una precaria linea e a bloccarci. Convinti i generali austriaci di non poter più resistere alla prossima offensiva italiana, che l’implacabile Cadorna avrebbe sicuramente sferrato nonostante la forte usura delle sue truppe, l’imperatore Carlo richiese l’aiuto tedesco per una spallata di alleggerimento nei confronti degli “italiani spergiuri”. Nacque così l’offensiva che sfondò a Caporetto, 12a battaglia dell’Isonzo, un’azione limitata che gli strateghi tedeschi trasformarono in un colpo da K.O.; ben riuscito, grazie anche alla perfetta preparazione e alla totale sorpresa sia tattica che strategica realizzata nonché alla fortuna (la fitta nebbia che per giorni impedì alla nostra ricognizione aerea di scorgere la grande concentrazione nemica in formazione); colpo che tuttavia non eliminò affatto l’Italia dalla guerra (come continua a ripetere una vulgata bugiarda e disonesta), tant’è vero che fu sempre lo stesso Regio Esercito, due settimane dopo Caporetto, a inchiodare gli austro-tedeschi sul nuovo fronte, retrocesso in tutta fretta di circa 120 km ma raccorciatosi di 200, il fronte del Piave e del Grappa (vedi supra). “Il generale Konopicky, capo di stato maggiore del fronte sud-ovest (Arciduca Eugenio)[il fronte dell’Isonzo] e quindi buon testimone, scrisse, dopo la battaglia d’arresto sul Piave e sul Grappa: ‘Sarebbe sembrato incredibile che un Esercito, il quale usciva da una così immane catastrofe, potesse tanto rapidamente risollevarsi” (Faldella}.

Il ridimensionamento dell’Austria quale grande potenza cattolica e fulcro dell’equilibrio europeo, cominciato già da quando dovette mutarsi in Austria-Ungheria, risulta anche dall’analisi degli obbiettivi di guerra. Vienna non voleva certamente imbarcarsi in una guerra all’ultimo sangue contro l’impero russo, per di più sorretto da altre grandi potenze. Tuttavia si era invischiata nel ginepraio balcanico. Voleva liquidare il problema serbo soggiogando militarmente la Serbia e il suo alleato montenegrino in modo da rafforzare ed estendere la sua influenza nei Balcani e ridimensionare le pretese della componente slava del suo impero, tenendovi fuori la Russia, che esercitava una forte attrazione sull’elemento cèco. Oltre a sottomettere Serbia e Montenegro, essa mirava anche ad occupare tutta l’Albania, escludendovi l’Italia, acquistando in tal modo la supremazia completa nell’Adriatico. I suoi obbiettivi essenziali erano prevalentemente balcanici e adriatici, connessi alle questioni sorgenti dal difficile rapporto tra slavi e tedeschi e alla necessità di tenere lontana l’Italia (oltre alla Russia, si capisce) dagli sbocchi dell’Adriatico e dagli stessi Balcani. Intrecci strategici comunque complessi, che Vienna non aveva ormai più la capacità di risolvere con le sue sole forze. Come già nel 1909, quando annettè la Bosnia, dovette appoggiarsi fortemente all’alleato tedesco, che alla fine la trascinò nella guerra europea (tra l’altro contro gli inglesi, tradizionali alleati della duplice monarchia) e nell’alleanza sciagurata, contro natura possiamo dire, con l’impero ottomano. Il 5 agosto del ’14, come si ricorderà, l’Austria-Ungheria dovette dichiarare a sua volta guerra alla Russia. Il 7 il Montenegro le dichiarò guerra, l’11 la Francia, il 12 la Gran Bretagna, il 25 agosto il Giappone, che il 23 aveva dichiarato guerra alla Germania.

Gli obbiettivi espansionistici di Vienna, in sostanza il dominio dei Balcani e dell’intero Adriatico, pur rilevanti, erano tuttavia modesti in confronto a quelli dei suoi imperiali alleati.

Il programma di pace che circolava nella dirigenza tedesca, dopo l’auspicata vittoria, era il seguente.

“La Francia avrebbe dovuto cedere Belfort, la linea delle fortezze in Lorena, da Verdun a Toul e ad Épinal, la costa da Dunkerque a Boulogne, e soprattutto il bacino di minerale ferroso di Briey-Longwy, indispensabile allo sviluppo dell’industria metallurgica tedesca; avrebbe firmato un accordo commerciale che l’avrebbe messa ‘alle dipendenze economiche della Germania’. Il Belgio avrebbe dovuto cedere Liegi, forse Anversa; sarebbe divenuto uno “Stato vassallo” che avrebbe ospitato guarnigioni tedesche e sarebbe entrato nel “sistema economico” tedesco. Il Lussemburgo sarebbe stato unito all’Impero tedesco. L’Olanda sarebbe rimasta, all’inizio, indipendente, ma avrebbe dovuto contrarre “strette relazioni” con l’Impero. Ad Est, i popoli “non russi” (polacchi, lituani, ruteni [etnicamente ucraini]) sarebbero stati separati dall’Impero russo e avrebbero formato una zona di Stati-cuscinetto, che avrebbe tenuto la Russia lontana dalle frontiere tedesche. In Europa centrale, la Germania avrebbe costituito un’unione doganale che avrebbe compreso non solo l’Austria-Ungheria ma la Francia, il Belgio, l’Olanda, la Danimarca e i territori polacchi. L’Africa centrale sarebbe diventata una colonia tedesca.

Nonostante l’esito della battaglia della Marna [dove la loro travolgente avanzata iniziale verso Parigi fu bloccata e respinta], i dirigenti tedeschi non abbandonano questo programma. In un rapporto del 6 ottobre 1914, l’ambasciatore austro-ungarico a Berlino constata che nessuno, in questi ambienti, rinuncia alla convinzione che la Germania potrà sconfiggere non solo la Francia, ma anche la Russia e la Gran Bretagna.

A Parigi, a Londra, a San Pietroburgo, la vittoria della Marna ha destato speranze che durano anche al termine della “corsa al mare” [allorché i due eserciti contrapposti estesero il fronte sino al mare, cercando ognuno di aggirare l’ala scoperta dell’altro senza riuscirci e stabilizzando il fronte nella guerra di posizione, che sarebbe durata quattro anni]. I discorsi tenuti negli incontri tra Delcassé, ministro degli Affari esteri francese, e l’ambasciatore russo, a Parigi, e tra Nicola II e l’ambasciatore francese a San Pietroburgo, testimoniano di parecchie illusioni. La Francia, dice Delcassé, non vuole solo recuperare l’Alsazia-Lorena; essa auspica “la distruzione dell’Impero tedesco”. La Russia vorrebbe ottenere una parte della Prussia orientale, la Poznania, la Galizia e il Nord della Bucovina; spera di regolare a proprio vantaggio la questione dei distretti ottomani [vuole cioè Costantinopoli e gli Stretti]; dà per scontato lo smembramento dell’Austria-Ungheria [la Russia già possedeva parte notevole della Polonia, i paesi baltici, la Finlandia, l’Ucraina, la Bessarabia, quest’ultima regione contesa dalla Romania].

Nonostante l’equilibrio delle forze che si è stabilito sul fronte della battaglia, in Francia e in Russia, dopo vicende che hanno finito per neutralizzarsi reciprocamente, nessuno pensa alla pace” (Renouvin).

Era troppo presto, per pensarvi, ma è pur vero che si era già entrati nell’ottica dell’annientamento totale dell’avversario. L’Italia è stata spesso criticata per le sue pretese territoriali, dovute accettare nel 1915 dalle Potenze dell’Intesa, militarmente in difficoltà, quando fu stipulato il Patto di Londra. L’Italia sarebbe stata egoista e megalomane perché convinta di dover recitare il ruolo della Grande Potenza e gli altri all’opposto pieni di buon senso, correttissimi e moderati nelle loro pretese avrebbero dovuto poverini cedere ai nostri ricatti? Ma di chi stiamo parlando? I francesi, che non volevano inizialmente concederci Trieste o i politici inglesi che, in privato, lanciavano insulti sanguinosi ai politici italiani, tutti e due poi a difendere virtuosamente la lettera del Trattato, nel ’19 a Versailles, in appoggio a Wilson, a noi quasi sempre ostile, e ai serbi, perché effettivamente non vi si parlava di Fiume, richiesta aggiunta da noi alla fine della guerra, avendo la maggioranza italiana della città richiesto l’annessione al Regno d’Italia (vedi supra) – questi difensori della morale internazionale si erano già messi d’accordo in segreto nel 1916 (accordo Sykes-Picot) per dividersi tra loro le spoglie opime dell’impero ottomano in tutto il Medio Oriente, la penisola arabica, il Golfo Persico. Il testo dell’accordo segreto fu rivelato dai bolscevichi, una volta al potere. I russi, che ne erano a conoscenza, non vi si erano opposti perché la loro parte dell’auspicato bottino comprendeva nientemeno che Costantinopoli e gli Stretti, quale piatto principale..

Ma cosa ci concedeva il famoso Patto segreto, se andiamo a rileggerlo? Il Trentino, il Tirolo cisalpino cioè l’Alto Adige sino al Brennero sua frontiera naturale (da sempre porta d’ingresso dell’Italia, privilegiata da tutti gli invasori, frontiera strategica irrinunciabile per noi), Trieste, Gorizia, Gradisca, tutta l’Istria sino al Quarnaro (senza Fiume) e una serie di isolette istriane, parte della Dalmazia con una serie di isole (art. V). Insomma, la frontiera naturale sino all’Istria + un pezzo di Dalmazia. Inoltre: Valona, l’isola di Saseno e un territorio (albanese) sufficiente ad assicurarne la difesa (art. VI). Contro la Turchia: la piena sovranità delle isole del Dodecaneso, già occupate nel 1911, durante la guerra conclusasi con la conquista di fatto della Libia, consolidata solo negli anni venti (art. VIII); l’occupazione della provincia di Adalia, sulla costa turca, dove avevamo già diritti e interessi, se le altre Potenze avessero occupato la Turchia asiatica [ossia l’Anatolia] durante la guerra (art. IX.3).

Poteva sembrare eccessivo volere Trieste con tutta l’Istria sino al Quarnaro (senza Fiume) e una parte di Dalmazia. Tuttavia, per difendere adeguatamente Trieste almeno una parte della costa occidentale dell’Istria era necessaria. Comunque, non si parlava di smembrare l’impero asburgico ma solo di ritagliarsi tutta una serie di territori indispensabili alla sicurezza delle nostre frontiere, tranne la Dalmazia, dove c’erano però antiche e laboriose comunità italiane da proteggere. Si mirava evidentemente a stabilire un forte perimetro difensivo, che aveva un suo perno marittimo in Valona, sulla costa albanese, antica porta d’accesso all’Adriatico, che noi volevamo in nostre mani per difendere i 700 km di indifendibile piatta costa adriatica. Le altre parti della costa adriatica venivano attribuite a Croazia, Serbia, Montenegro, Albania, con ampi tratti dichiarati smilitarizzati. Di fatto, l’Austria-Ungheria veniva di fatto ricacciata all’interno, mantenendo però Fiume, che restava croata. Ma non si parlava di distruzione della Duplice Monarchia. Anche le nostre pretese contro l’impero ottomano erano ben lungi dal rappresentarne il dissolvimento. A ben vedere, i nostri obbiettivi di guerra, pur abbastanza ampi, erano più moderati di quelli degli altri. Per l’esercito serbo il confine del loro futuro Stato jugo-slavo o degli slavi meridionali avrebbe dovuto essere ben al di qua dell’Isonzo, al Natisone, a pochi km da Udine (Galli).

Né si può dire che le nostre richieste fossero al di là del giusto in quanto ispirate unicamente dal malsano desiderio di affermarsi come “grande potenza”, endiade che pur risuonava (ahimè) nella retorica dei nostri politici. L’aspirazione a ristabilire le nostre frontiere naturali su tutto l’arco alpino sino all’Istria rientrava sempre in una visione prettamente difensiva, allo stesso modo del possesso di Valona e della Dalmazia del Nord. Tuttavia, con queste ultime due andavamo ad occupare territori altrui, anche se in Dalmazia c’erano folte nostre, antiche comunità (espulse poi in massa dalla Jugoslavia comunista alla fine della II gm, con i sistemi barbari della ben nota “pulizia etnica” di marca staliniana). La strategia difensiva diventava allora offensiva, sviluppo difficile da evitare, che comunque, come si vide in séguito, avrebbe potuto esser negoziato e limitato con il nuovo Stato jugoslavo. L’eventuale eccesso di pretese da parte nostra appare ad ogni modo poca cosa rispetto agli appetiti dimostrati dalle Potenze imperiali, Francia inclusa, essendo anch’essa fornita di un vasto impero coloniale, e da certe altre potenze, minori ma non per questo meno voraci. A Versailles non ottenemmo né Fiume né la Dalmazia, dopo violenti litigi con i Tre Grandi. Si cominciò a parlare, sulla stampa benpensante, di “vittoria mutilata”, una convinzione che si diffuse spontaneamente, trasformata poi da D’Annunzio in un mito politico dalle potenzialità eversive.

8.1 Contro tutta la propria storia, la Duplice Monarchia si trovò alla fine a dover sostenere il megalomane espansionismo panturco dei Giovani Turchi, nemici spietati dei cristiani.

La Germania, nella sua ambiziosa politica di espansione imperiale a tutto campo, aveva coinvolto nel suo gioco l’impero ottomano. Il “ grande malato d’Europa”, come veniva chiamato, era stato mantenuto in vita con l’accordo reciproco delle Potenze, nella sua parte anatolica ed asiatica, con l’appendice trace, al fine di lasciargli il controllo degli Stretti – gli Stretti cerniera contro l’espansionismo russo, da tutti temuto. Nello stesso tempo, “il grande malato” doveva lasciare spazio alla penetrazione tedesca in altre parti del suo impero, nel Medio Oriente e in Mesopotamia, dove c’erano le fonti di petrolio, scoperto da non molto, anche in Iran (ed entrato in circolazione come bene strategico da quando la Royal Navy aveva cominciato a sostituire nelle sue navi i motori alimentati da caldaie a carbone con quelli alimentati a nafta). Ma anche gli osmanlı (dal nome del loro primevo capotribù turco medievale Osman, iniziatore delle conquiste, ottomani nella versione occidentale), avevano le loro esigenze ed ambizioni, cui bisognava concedere spazio. In un ultimo sussulto prima della morte per mano soprattutto dei britannici, l’impero ottomano poté riprendere i suoi tradizionali, grandiosi e anticristiani piani di conquista e questo grazie all’appoggio di due imperi formalmente cristiani, uno dei quali cattolico, da secoli difensore della vera fede.

Dopo mesi di preparazione, il 2 agosto del 1914 fu stipulato un trattato segreto tra la Germania e il governo di Enver Pascià, esponente del Comitato dei Giovani Turchi, la formazione politica rivoluzionaria che, ispirandosi all’Occidente, stava tentando (dalla rivoluzione del 1908, che aveva imposto al Sultano una costituzione) di riformare il decrepito impero, ricorrendo anche all’uso della violenza. Il trattato “contemplava, tra altre cose, la pianificazione di una comune strategia difensiva e offensiva da attuarsi in collaborazione con l’Austria, potenza che aderì anch’essa al patto” (Rosselli). Data la lentezza della mobilitazione turca, si stabilì che all’inizio i turchi si sarebbero dichiarati neutrali, per intervenire in un secondo momento. Due incrociatori tedeschi, il Goeben e il Breslau si rifugiarono a Costantinopoli, all’inizio della guerra, dopo aver bombardato basi francesi in Algeria. Ma trovarsi nella zona degli Stretti era vietato alle navi da guerra straniere dai trattati internazionali. Così furono acquistati dal governo ottomano e battezzati con nomi turchi. Il 29 ottobre, assieme ad unità ottomane bombardarono basi russe nel Mar Nero. La Russia allora dichiarò guerra all’impero ottomano, l’1 novembre 1914, seguita il 5 da Francia e Gran Bretagna (Rosselli).

Ma com’ erano gli obbiettivi di guerra dei turchi? Amplissimi: “La riconquista dei territori caucasici occupati dagli zaristi nel 1878, l’invasione delle provincie mussulmane transcaucasiche e della Persia settentrionale [Azerbaigian persiano], l’occupazione dei porti russi del Mar Nero (Poti, Suchumi e Batumi) e quella dei grandi campi petroliferi di Baku sul Mar Caspio” (Rosselli).

Per quanto concesso dalle circostanze, si trattava della ripresa in grande stile del tradizionale espansionismo osmanlı. Il vero fondatore del grande impero turco, il Sultano Mehmed Fâtih, ossia Maometto II il Conquistatore, colui che prese Costantinopoli nel 1453 dopo un drammatico assedio di 53 giorni, ed estese il dominio turco in Anatolia e in Europa sino al Danubio, da Belgrado alla foce del grande fiume, morto nel 1481, si dichiarava “Signore delle due terre”, l’Anatolia e la Rumelia (nome ricomprendente tutta la parte europea dei suoi domini) e “Signore dei due mari”, il Mediterraneo e il Mar Nero (Inalcik; Babinger). Gli ottomani per secoli avevano perseguito il tentativo di fare del Mar Nero un lago turco e c’erano in pratica riusciti, con la dominazione diretta e gli Stati vassalli, ma nella seconda metà del Cinquecento cominciò a affacciarsi verso quelle rive la potenza del nuovo Stato russo, la Moscovia scòssasi alla fine dalla sudditanza ai mongoli: contro i turchi lanciò armate composte in prevalenza da cosacchi e divenne il loro nemico più accanito e spietato. I Giovani Turchi, riorganizzati i loro eserciti dai tedeschi e in misura minore dagli austriaci, potevano riprendere dunque l’espansione ottomana verso il Mar Nero, il Caucaso, oltre il Caucaso, verso il Caspio e nella Persia settentrionale, antico e implacabile loro rivale la Persia sciita (essendo i turchi sunniti), dichiaratasi allo scoppio della Grande Guerra subito neutrale ma nonostante ciò rapidamente occupata da forze russe nel nord del paese e britanniche nel sud. Questo perché la Persia si era scoperta ricca di petrolio, della cui estrazione la britannica Anglo-Iranian Oil Company aveva ottenuto il monopolio.

Nel rimanente dell’ancor vasto impero osmanlico (comprendente, oltre all’Anatolia con l’Armenia, il Medio Oriente sino alla penisola del Sinai, la penisola arabica, l’odierno Irak, chiamato Mesopotamia dagli occidentali) si riteneva sufficiente una tenace difensiva (sotto la supervisione tedesca) contro l’articolata offensiva montata dai britannici, che attaccarono in modo sistematico e senza mai mollare l’osso su tre direttrici: dall’Egitto, ufficialmente dichiarato loro protettorato, lungo la costa libanese, verso la Palestina; dall’Arabia, occupando lo Yemen e organizzando la guerriglia araba sotto il comando del colonnello Lawrence; dalla Mesopotamia, muovendo lentamente dal delta del Tigri e dell’Eufrate verso Nord, prendendo Bagdad nella primavera del 1917. Nell’ottobre del 1918, dopo quattro anni circa di guerra, raggiunsero il confine tra Turchia vera e propria e mondo arabo, dove la ferrovia Berlino-Bagdad si biforcava da un lato verso Damasco e Medina, dall’altro proseguendo per la futura capitale dell’Irak (Rosselli). Furono campagne molto dure, anche a causa dei fattori ambientali. I britannici subirono anche una pesante sconfitta, quando persero un’intera armata (anglo-indiana) a Kut in Mesopotamia, in parte decimata dalle malattie, nella fase iniziale della lotta. Ma, con la loro proverbiale tenacia e organizzando metodicamente le grandi risorse del loro immenso impero grazie al dominio dei mari, alla fine annientarono completamente l’apparato militare turco, impadronendosi dei Luoghi Santi, di Amman, di Damasco, attestandosi all’ormai indifeso confine meridionale della Turchia vera e propria, che a quel punto capitolò.

I Giovani Turchi commisero anch’essi l’errore di estendere le loro ambizioni su obbiettivi troppo vasti, privilegiando l’avanzata verso il Caucaso e l’Asia centrale a scapito di tutto il resto. Ma l’espansione caucasica e trans-caucasica, pur guidata dall’esigenza di impadronirsi dei campi petroliferi di Baku, corrispondeva alla loro ideologia, che accoglieva le istanze del cosiddetto panturchismo o panturanismo. Vale a dire: costituire uno Stato, a guida turca, che comprendesse tutti i popoli abitanti il cosiddetto Turan, ossia l’enorme fascia che si estendeva dai Balcani e dalle coste del Mar Nero al Caucaso e alle zone più lontane dell’Asia Centrale sino ai confini della Cina, abitata da numerose popolazioni di etnia turca o turco-mongola. Si trattava di rifondare (ed estendere) l’impero degli Osmanlı ma non più su base dinastica e mussulmana bensì sul corpo della nazione turca che si voleva ricostruire come Stato moderno sul suo bastione anatolico. Un programma forse non lontano dalle ambizioni dell’odierna dirigenza turca, considerata neo-ottomana perché intenta a rivalutare il passato ottomano e mussulmano senza rinunciare al nuovo Stato (laico) creato dal kemalismo. Rispetto al passato, i neo-ottomani possono pensare di includere nel Turan anche le folte e fedeli comunità turche in Europa, in particolare in Germania.

Il turchismo fu elaborato dal pensiero politico turco nei vivaci dibattiti che coinvolsero, tra fine Ottocento ed inizio Novecento, gli intellettuali ben coscienti della crisi irreversibile dell’impero e dei suoi valori tradizionali, fondati sulla sintesi di politica di conquista e religione (la spada e il Corano). Per la rinascita, suggerì un intellettuale tataro (della Crimea) emigrato in Turchia, Yusuf Akçura, bisognava rinunciare alla fedeltà dinastica ottomana e al fondamento pan-islamico dello Stato e impostare “una politica nazionale turca basata sulla razza turca”. Una simile politica avrebbe provocato “la lealtà della razza turca dominatrice nell’impero e di tutti i milioni di turchi viventi al suo esterno, in Russia e altrove” (Lewis). Si trattava quindi di creare una “nazione turca” sino a quel momento inesistente. Il multinazionale impero era infatti “ottomano”, osmanlı. Anche se i turchi ne costituivano l’etnia dominante, una “nazione turca” territorialmente definita con una corrispondente personalità giuridica all’interno dell’impero, non esisteva, e non esisteva nemmeno nella mentalità dei sudditi del Sultano. Il turchismo, come ideologia, diffusasi nell’Asia centrale dominata dalla Russia zarista (Feltrinelli-Fischer, vol. 16), si poneva di per sé come panturchismo, ponendo la base di una nuova visione imperiale, transnazionale e nello stesso tempo eversiva di tutti quegli Stati che avessero al loro interno comunità o popoli turchi o affini ai turchi, a cominciare dallo Stato russo e senza escludere quello persiano, che nel nord si trova gli atzeri, popolazioni turche (Azerbaigian persiano, con capitale Tabriz).

L’esercito ottomano (il Sultano era ancora sul trono, sarebbe stato dichiarato decaduto nel 1922 dalla Grande Assemblea Nazionale Turca riunita ad Ankara, ora capitale della Repubblica Turca dichiarata dal 29 ottobre 1923, mentre il Califfato sarebbe stato abolito il 3 marzo del 1924) si slanciò nel 1914-15 in troppo audaci e spericolate offensive nel Caucaso subendo pesanti sconfitte dalle armate zariste. Le aveva volute l’esaltato e militarmente incompetente Enver Pascià, uno dei capi dei Giovani Turchi, contro il parere dei generali tedeschi (Pascià è titolo onorifico, dato a civili o militari, equivale a Sir). Male armata ed equipaggiata, la III Armata turca fu costretta dal megalomane Enver ad addentrarsi su più colonne simultaneamente nelle montagne alte sino a 5000 metri, in pieno inverno, con passi posti a 2000 metri di quota. Non riuscì a superare il Caucaso ed anzi fu ricacciata indietro in una serie di disastrosi combattimenti, tra gli alti passi montani innevati e le grandi foreste della zona, riducendosi da 160.000 uomini a soli 18.000 in grado di combattere (Rosselli). Migliaia di soldati turchi morirono di freddo, pare 25.000; il rimanente combatté con grande valore (i russi ebbero 16.000 tra morti e feriti), ma l’armata fu distrutta (33.000 morti in combattimento e 10.000 negli ospedali, migliaia di prigionieri) durante le tre settimane della Battaglia di Sarikamish (22 dicembre ’14 – 17 gennaio 1915), la cittadina dell’Anatolia orientale posta in una vallata dal valore strategico essenziale, obbiettivo dell’avanzata turca. I Giovani Turchi persero successivamente anche parte del territorio nazionale, nel nord-est, nonché il porto di Trebisonda. Anche in Persia l’offensiva ottomana nell’Azerbaigian persiano fallì (The Battle of Sarikamish, en.wikipedia.org).

L’esercito turco, pur antiquato, male armato e con un corpo di ufficiali non all’altezza, tranne le eccezioni individuali, dimostrò tuttavia di non aver perso le sue antiche doti di tenacia, coraggio, valore e nemmeno, in certe circostanze, la sua tradizionale spietatezza. Conseguì anche qualche importante vittoria. Riuscì a bloccare a ridosso delle spiagge e a costringere al reimbarco il folto corpo di spedizione britannico, con contingenti francesi, sbarcato nella penisola di Gallipoli (marzo-dicembre 1915) nel tentativo di impadronirsi degli Stretti e aprire ai rifornimenti alleati la via della Russia. Furono combattimenti durissimi. I turchi, agli ordini del generale tedesco Liman von Sanders, erano inquadrati da ufficiali e comandanti tedeschi accanto ai loro, sorretti da specialisti e reparti d’artiglieria tedeschi e austriaci. Qui si distinse in particolare Mustafa Kemal Pascià, onorato in seguito ufficialmente del titolo di Atatürk (“Padre dei Turchi”), all’epoca tenente-colonnello, futuro artefice della riscossa nazionale contro i greci che, subito dopo la fine della guerra mondiale, avevano occupato parte consistente dell’Anatolia, e fondatore della Turchia laica, nel 1922-23.

Gli armeni, da secoli sudditi ottomani, nella condizione giuridicamente ed economicamente inferiore di “protetti” ossia dhimmi, perché cristiani, anche se provvisti di qualche minima autonomia, furono vittime di crudeli anche se saltuarie persecuzioni sotto gli ultimi sultani e da parte dei Giovani Turchi, soprattutto dopo la prima guerra balcanica (1912-1913), in conseguenza della quale gli ottomani persero definitivamente tutta la parte europea del loro dominio, la Rumelia, tranne la Tracia a ridosso degli Stretti. Gli armeni dovettero aderire alla leva obbligatoria imposta a tutti gli altri sudditi dell’impero. Il loro comportamento in guerra fu leale. Ma c’erano anche gli armeni confinanti, abitanti nell’impero zarista. Tra questi sudditi dello zar, i russi crearono dei corpi franchi che combatterono nella citata battaglia. Ma tra le popolazioni armene della zona, angariate a più riprese dall’armata di Enver, spesso affamata e quindi dedita al saccheggio e altro contro i villaggi locali, si crearono anche bande di tipo partigiano, che appoggiarono l’esercito russo avanzante (Rosselli). Ciò fu sufficiente perché Enver Pascià desse pubblicamente (e scorrettamente) la colpa della disfatta di Sarikamish al “tradimento” degli armeni, già visti come un corpo estraneo in quanto cristiani. Il loro contributo alla vittoria russa era stato comunque del tutto marginale. Ma il governo, creata questa sinistra leggenda, con la motivazione di garantire la sicurezza del fronte contro una popolazione accusata di essere infida e traditrice, fece iniziare la deportazione in massa degli armeni verso sud, sino in Siria, tra violenze e massacri, deportati lasciati morire di fame per via o in campi di concentramento, atrocità di ogni genere, nelle quali si distinsero per efferatezza le bande a cavallo dei curdi da sempre acerrimi nemici dei cristiani, inquadrate nell’esercito ottomano come cavalleria leggera: la deportazione assunse le forme di un vero e proprio genocidio, nonostante le autorità turche negassero e neghino ancor oggi di aver avuto un’intenzione sterminatrice (Rosselli).

Ma il crollo della Russia nel novembre del 1917 riaccese inopinatamente le ambizioni dei Giovani Turchi, il cui governo aveva comunque mandato alcune divisioni a combattere con gli austro-tedeschi sul fronte russo vero e proprio. Il fronte del Caucaso era ora tranquillo a causa del dissolvimento dell’avversario. Tuttavia, invece di inviare massicci rinforzi in Tracia e soprattutto in Palestina, dove i turco-tedeschi erano in grave difficoltà sotto la pressione sempre più forte dei britannici e della guerriglia araba da loro organizzata, “Costantinopoli preferì approfittare del crollo russo per scatenare una duplice offensiva verso l’Azerbaigian, con l’obbiettivo di conquistare i pozzi petroliferi di Baku, e in direzione della Persia settentrionale, riprendendo, nel contempo, la persecuzione contro i resti della popolazione armena che si erano rifugiati proprio nelle impervie regioni caucasiche” (Rosselli).

Tedeschi e turchi si installarono rapidamente nei paesi caucasici, i tedeschi in Georgia, i turchi nell’Azerbaigian. Parte della Georgia, paese in gran maggioranza cristiano, fu occupata dai turchi. Gli armeni venivano crudelmente sacrificati alla rinnovata espansione turca e vani furono i tentativi dei generali tedeschi di intervenire per proteggerli. Smirne, ove esisteva una folta comunità armena, fu salvata dall’occupazione dell’esercito turco, a quanto pare dall’intervento personale del generale Liman von Sanders (Rosselli). Nella Caucasia, “unità tedesche supplementari giunsero dalla Germania e altre truppe turche vi vennero spedite da altri fronti. ‘I Turchi stanno sacrificando tutta l’Arabia, la Palestina e la Siria a queste loro imprese senza limiti nel Caucaso’, si lagnava col conte von Bernstoff, ambasciatore di Germania a Costantinopoli, Liman von Sanders, Comandante in Capo delle armate turche in Siria. La Turchia aveva in animo di annettersi il Caucaso ed il Governo del Sultano, completamente dominato da Enver Pascià [di fatto capo dei Giovani Turchi], inviò dei propagandisti panturanici fin nel Daghestan e perfino in Crimea [tra le popolazioni tatare ivi residenti]” (Fischer).

Nella propaganda panturchesca non è tuttavia da credere che l’elemento religioso fosse assente, l’appello al patriottismo “turco” si coniugava sempre alla guerra santa agli infedeli, dichiarata la “guerra santa” (la famigerata jihad) dal Sultano (autonominatosi Califfo, ossia Capo dei Credenti), quando il suo impero entrò in guerra contro l’Intesa. I bolscevichi al potere in Russia aiutarono inizialmente i Giovani Turchi con l’invio di armi e rifornimenti e abbandonarono nelle loro mani le popolazioni cristiane del Caucaso, protette in passato dalla Russia zarista. Del resto, il cristianesimo lo volevano anch’essi estirpare dalla faccia della terra, al pari di ogni altra religione: perseguitavano e ammazzavano i cristiani anche a casa propria, a cominciare dai preti ortodossi. Il governo bolscevico, con Trotskij ministro degli esteri (Commissario del popolo agli Esteri), in esecuzione del durissimo Trattato di pace di Brest-Litovsk imposto dagli Imperi Centrali (3 marzo 1918), “restituì a Costantinopoli tutti i territori armeni conquistati dalle armate zariste nel corso delle campagne del 1916 […] Lasciati al loro crudele destino dai bolscevichi, gli armeni si ritrovarono costretti a combattere una battaglia pressoché disperata. Nell’arco di poche settimane, infatti, i reparti cristiani, furono sopraffatti dall’esercito e dalla polizia turchi [molto più numerosi e meglio armati], coadiuvati efficacemente dalle bande curde” (Rosselli).

La Germania era costretta ad appoggiare l’avanzata del suo scomodo alleato turco verso le fonti di petrolio e non riusciva a far nulla per fermare i massacri dei cristiani, Idem per gli austriaci, peraltro assai meno presenti dei tedeschi in quel teatro. È interessante ricordare quanto aveva acquistato la Germania imperiale dalla pace imposta ai russi sconfitti.

“La Quadruplice Alleanza [Germania, Austria-Ungheria, Impero ottomano, Bulgaria] era padrona di un’estesa frazione dell’antico Impero russo. Oltre ai territori consegnati alla Germania dal Trattato di Brest (perché conquistati dalle truppe tedesche: Polonia, Lituania, Curlandia, Livonia ed Estonia) e alla Turchia (Kars, Batum, Ardagan) le armate delle Potenze Centrali avevano occupato tutta l’Ucraina, inclusovi il Bacino del Don, ricco di ferro e carbone, e tutto il Caucaso colle sue risorse petrolifere. Una fascia continua del paese, dal Golfo di Finlandia e dal Baltico ai Mari Nero, di Azov e Caspio, comprendente circa 400.000 miglia quadrate [circa 640.000 km2] ed abitata da circa sessanta milioni di abitanti, era caduta in mani straniere. Da essa proveniva una gran parte dell’esportazione cerealicola russa, la maggior parte del petrolio ed almeno l’80% del suo carbone e ferro, nonché la maggior parte del suo zucchero e del suo tabacco. In essa erano inoltre situati grandi centri dell’industria dell’acciaio, chimica e tessile” (Fischer).

Gli austro-ungarici erano dislocati in particolare in Ucraina, territorio da loro occupato soprattutto per assicurarsi la produzione granaria e agricola della regione, della quale avevano disperatamente bisogno, anche se al di fuori dei loro interessi strategici immediati, concentrati nei Balcani che ora, dopo la sconfitta della Serbia, del Montenegro e della Romania, essi dominavano assieme ai bulgari potenza minore, tranne l’Albania, ancora tenuta dagli italiani nella parte meridionale, e la Grecia, presidiata dall’Armata d’Oriente.

L’obbiettivo dei turchi era quello “di occupare le regioni transcaucasiche ex-russe a forte componente mussulmana, per poi continuare la marcia in direzione del Turkmenistan e dell’Uzbekistan ormai sgomberati dalle forze zariste. Manovra quest’ultima assai temuta dal Comando Supremo britannico che paventava un’infiltrazione turca in Asia centrale [zona ricca di petrolio e materie prime, come ben sappiamo oggi]. Le divisioni di Costantinopoli dilagarono quindi in Armenia, Azerbaigian e Georgia, approfittando dell’occasione per sterminare le colonne di profughi e le residue bande armate armene che tentavano disperatamente di mettersi in salvo” (Rosselli). Arroccattesi nelle zone più impervie del Caucaso, le ormai sparute colonne armene furono decimate e quasi sterminate dalle feroci minoranze mussulmane del Caucaso, composte di tartari, atzeri (ivi).

Era in pratica un’avanzata nel vuoto, dal punto di vista militare, quella dei turchi, essendosi dissolto l’esercito zarista, che fino a quel momento aveva inflitto loro ripetute batoste, perdendo solo qualche battaglia minore. Cominciò una complicata corsa a tre fra tedeschi, turchi, britannici al fine di giungere per primi a Baku e ai suoi pozzi. Alla fine, strappata l’autorizzazione dei tedeschi, la spuntarono i turchi, appoggiati anche dai nazionalisti mussulmani atzeri. Occuparono Baku, abitata per metà da cristiani, che venne proclamata il 18 settembre 1918 capitale del nuovo Stato azerbaigiano indipendente. Nel voler insistere con la sua offensiva transcaucasica, militarmente poco impgnativa, Enver Pascià aveva visto giusto, dunque. La nascente Turchia, ufficialmente ancora ottomana, era riuscita a metter le mani sui ricchi giacimenti di Baku, al tempo tra i più importanti al mondo. Non solo, era ora riuscita ad occupare anche la Persia settentrionale, con la città di Tabriz, e si era spinta sino al Caspio meridionale, per occuparvi un importante porto, anticipata tuttavia da un piccolo corpo di spedizione inglese proveniente dalla Mesopotamia (Rosselli).

Ma la soddisfazione dei Giovani Turchi per i successi caucasici e persiani durò assai poco. L’esercito ottomano di Palestina era denominato Gruppo d’Armate Yildirim, ossia “folgore”, soprannome del Sultano Bajazet I, il conquistatore della Bulgaria e della Valacchia, il trionfatore a Nicopoli sull’esercito “crociato” che veniva a soccorrere Bisanzio, preso prigioniero da Tamerlano dopo una terribile disfatta ad Ankara, il 27 luglio del 1402, suicidatosi l’anno dopo in prigionia. Quest’esercito era integrato da quadri e soldati tedeschi e austriaci (tre reggimenti tedeschi di fanteria e specialisti vari più l’aviazione, costituenti l’Asien-Korps e reparti austriaci di specialisti nonché di artiglieria campale, da montagna, mortai, presenti anche a Gallipoli), Il suo comandante era il citato generale tedesco Liman von Sanders (Liman Pascià). Il Gruppo d’Armate (struttura mutuata dagli eserciti austro-tedeschi) fu in pratica abbandonato a se stesso, e finì con l’esser annientato nella battaglia di Megiddo, in Palestina, iniziata il 16 settembre 1918: furono distrutte due sue armate su tre. I britannici (inglesi, australiani, neozelandesi, indiani, sudafricani, con aggregato un piccolo corpo di spedizione francese) avevano una netta superiorità in uomini, mezzi, cannoni, aerei ma il loro comandante, generale Edmund Allenby, seppe comunque manovrare in modo brillante, scardinando rapidamente le difese turco-tedesche presso la costa ed iniziando un inseguimento implacabile con la cavalleria, durante il quale imperversarono l’aviazione inglese e australiana, che fecero strage delle lunghe colonne in ritirata, nelle quali si mescolavano soldati turchi, tedeschi, austriaci (Yildirim Army Group; Asia Corps; en.wikipedia.org).

Dopo Megiddo, gli ottomani persero rapidamente Palestina e Siria mentre dalla Macedonia unità dell’Armata d’Oriente erano ormai giunte alle porte di Costantinopoli. A questo punto, il governo ottomano chiese ed ottenne un armistizio, in cambio della resa incondizionata. Dopo tre giorni di colloqui esso fu firmato il 30 ottobre sulla corazzata britannica Agamemnon, ancorata davanti al porto di Mudros nell’isola di Lemno (Armistizio di Mudros. Gli esponenti principali del governo dei Giovani Turchi intanto fuggivano su una motosilurante tedesca verso il Mar Nero. “Una flotta alleata di sessanta navi sfilò sotto i silenti cannoni dei Dardanelli e il 13 novembre si ancorò nel porto di Istanbul […] L’8 dicembre una amministrazione militare alleata si installò in Istanbul. Truppe alleate [francesi, britanniche e italiane] occuparono diversi quartieri della città, fu stabilito dagli occupanti uno stretto controllo sul porto, tramways, forze di difesa, gendarmeria e polizia. L’8 febbraio 1919 il generale francese Louis Franchet d’Espérey [comandante dell’Armata d’Oriente], allo stesso modo di Mehmed il Conquistatore 466 anni prima, entrò nella città su un cavallo bianco, donatogli dalla locale comunità greca” (Lewis – Secondo alcuni storici, l’episodio del cavallo bianco sarebbe leggendario). L’entrata sul cavallo bianco voleva in ogni caso simboleggiare che l’impero ottomano era caduto e finito – e sicuramente lo era, a parte le entrate più o meno spettacolari dei suoi vincitori in Costantinopoli. L’occupazione alleata durò sino al 6 ottobre del 1923. L’art. 11 dell’armistizio di Mudros impose agli ottomani di sgomberare Baku e ritirarsi da tutti i territori che avevano occupato (Rosselli).

Cosa suggeriscono questi drammatici eventi storici, lontani da noi solo poco più di un secolo, in relazione al tema che stiamo qui trattando, ossia l’estinguersi della missione storica dell’Austria, antico e glorioso Stato e impero cattolico? A rimorchio delle megalomani ambizioni della luterana e laica Germania, peraltro mai distintasi troppo in passato nella lotta contro l’Islam invasore, l’Austria cattolica fu costretta a sostenere gli ultimi sanguinari conati imperiali, sempre ferocememte anticristiani, di quello Stato ottomano nemico implacabile della nostra fede e civiltà, da essa Austria per quasi quattro secoli gagliardamente e con successo combattuto, da sola e in proficua unione d’armi con la cattolicità orientale, soprattutto polacca e ungherese. Una sorta di riedizione in chiave moderna della politica traditrice della cristianità posta in essere, come si è detto, dal Re di Francia, Francesco I, quando nel 1536, messo alle corde dalla potenza di Carlo V, stipulò appunto con il Sultano (Solimano il Magnifico) un’alleanza operativa, tale da poter prendere tra due fuochi i domini mediterranei e italiani degli Asburgo.

* *
La storia ci offre sempre le stesse dramatis personae, come se in modo imperscrutabile ed arcano si realizzasse sempre la medesima rappresentazione, il medesimo archetipo tragico. Si assiste al crescere e al rafforzarsi, in senso materiale e morale, di una determinata forma di società e di Stato, il formarsi di un popolo che mostra determinate virtù. La crescita è dovuta in parte alle circostanze esteriori, che agiscono con la forza di una necessità cui ci si deve opporre senza discutere, mettendosi alla prova; in parte ad una volontà di sopravvivenza e poi di dominio che si attua via via in forme più razionali, creando rapporti e istituzioni secondo un principio d’ordine, a sua volta al servizio di un determinato ideale. Così quella società e quello Stato diventano l’attuazione dell’idea della società e dello Stato, in quanto idea che caratterizza tutto un periodo storico e il destino di un popolo. Dalla conquista, con le sue sofferenze, brutalità e crudeltà, si passa per gradi al buon governo e alla crescita di una civiltà, che, soprattutto nel caso di un impero, coinvolge anche gli sconfitti di un tempo.

Ma poi comincia, in modo inizialmente sottile ed indiretto, la decadenza. Circostanze esteriori nuove pongono problemi che appaiono di difficile soluzione mentre la spinta interiore, la fede nei propri ideali, la confidenza nella propria forza e la relativa coerenza di vita cominciano a venir meno. Appaiono nuovi nemici, più forti (la Germania unita attorno all’arcigna Prussia; l’espansionismo russo – polo di forte attrazione per serbi e cèchi - sempre più aggressivo nei Balcani, manifestazione di un disordinato ma possente sviluppo interno); o più deboli, come lo Stato italiano unificato, tuttavia potenziali fonti di guai, che si sarebbero puntualmente verificati. Si modificano in modo irreversibile i rapporti economici a livello mondiale, si impone l’industrializzazione massiccia, con i suoi grandi vantaggi accompagnati tuttavia da molti e gravi mali. I problemi politici interni più seri (quali il conflitto delle nazionalità) si rivelano insolubili mentre la vita famigliare e i costumi cominciano a decadere (segno infallibile, la cosiddetta emancipazione della donna). La religione si sfilaccia da un lato nell’agnosticismo, dall’altro nel formalismo mentre visioni del mondo ad essa ostili, come il marxismo e il positivismo, prendono sempre più piede, favorendo lo sviluppo di una mentalità utilitaristica, materialistica, avversa ai fondamenti stessi di una società cristiana e nello stesso tempo portatrice di un suo allucinato messianesimo secolare, incentrato sul mito del progresso e del trionfo della scienza. In nome della libertà e di una più matura coscienza di sè, spesso illusoria e spesso maschera di un feroce narcisismo, l’ugualitarismo comincia ad erodere il principio di autorità, senza il rispetto del quale nessuna società può mantenersi. Nella classe dirigente la percezione della crisi comincia a sedimentare ma la si respinge, cercando di attribuire la crisi stessa a fattori solo occasionali, emendabili con riforme o conquiste. Quest’autoinganno non funziona: comincia ad insinuarsi, a vari livelli, l’angosciosa sensazione che la decadenza di quella bella forma di Stato e di società, cristallizzata in costumi civili che si credevano eterni, sia ormai inarrestabile, la sua fine solo questione di tempo. Lo spirito inquieto della minoranza intellettuale e artistica mescola il sacro e il profano ossia la ragione con gli impulsi irrazionali più diversi, aprendo la via al fondo più oscuro dell’animo umano.

Il giudizio storico, che contiene sempre una filosofia della storia, è fatalmente in una certa misura antistorico dal momento che conosce il risultato finale, sa già “com’è andata a finire”. Come scrisse Hegel, nel famoso passo della Prefazione ai Lineamenti di filosofia del diritto, nel 1820, “come pensiero del mondo, la filosofia appare per la prima volta nel tempo, dopo che la realtà ha compiuto il suo processo di formazione ed è bell’e fatta”. Perciò, “quando la filosofia dipinge a chiaroscuro, allora un aspetto della vita è invecchiato, e, dal chiaroscuro, esso non si lascia ringiovanire ma soltanto riconoscere: la nottola di Minerva inizia il suo volo sul far del crepuscolo”. Nel riconoscere, ci si sforza di trovare una logica, una razionalità che spieghi in modo convincente l’accadere storico, che non è neutrale spettacolo o racconto libresco o mera pantomima bensì v i t a di tutti noi, autentica vita vissuta, lo sperare e il soffrire, le gioie e i dolori di un’umanità che è la nostra stessa. Ma la lotta contro i nostri limiti per giungere a cogliere il vero del passato, appare spesso indecisa. Si ha quasi sempre la sensazione che la storia avrebbe potuto andare diversamente, se determinati errori non fossero stati compiuti nel momento decisivo o se la fortuna fosse girata in altra direzione. Nello stesso tempo, si ha la sensazione opposta, che le cose non potevano andare diversamente, che quegli errori erano inevitabili, dato l’incastro ormai immodificabile delle situazioni di fatto, delle passioni, degli odi, dei grandi interessi, delle forze formidabili che si stavano scatenando. Il dramma storico doveva esser evidentemente recitato in quel modo e sino in fondo: i Giorni dell’Ira dovevano sopravvenire con la Grande Guerra e la Rivoluzione Bolscevica, quattro imperi dissolversi, un’intera generazione perire sui campi di battaglia.

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