Paolo Pasqualucci ci invia il testo chiarificatore della vulgata ostile alla Fraternità Sacerdotale San Pio X, che pubblichiamo di seguito.
La natura perfettamente ortodossa della “Fraternità degli Apostoli di Gesù e Maria”, meglio nota secondo il titolo pubblico di “Fraternità Sacerdotale San Pio X”, viene ancora oggi ostinatamente negata da coloro che continuano del tutto erroneamente a dipingerla come “eretica”, “scismatica”, “illecita”, “illegittima”, “invalida”, “fuori della Chiesa”, “sedevacantista”, e chi più ne ha, più ne metta. Un’ostilità dovuta in gran parte, io credo, alla scarsa conoscenza dei fatti o del loro autentico significato.
In precedenti interventi [qui - qui - qui] credo di aver efficacemente dimostrato quanto sia falsa l’accusa di eresia nei suoi confronti; accusa – teniamolo bene a mente – mai formulata da nessun organo della Santa Sede, a cominciare dal Sommo Pontefice. Vorrei ora completare quell’intervento con alcune notazioni sull’assenza totale di un qualsiasi “scisma” da parte della Fraternità: su come, pertanto, essa non possa assolutamente considerarsi “fuori della Chiesa”. Il recente riconoscimento alla Fraternità della personalità giuridica da parte dello Stato argentino, quale “associazione di diritto diocesano”, in séguito a un’inaspettata istanza dell’Arcivescovo di Buenos Aires, S. Em. Mario Aurelio Poli, che per l’appunto chiedeva allo Stato di “considerarla, fino al momento in cui troverà il suo definitivo inquadramento giuridico all’interno della Chiesa Universale, un’Associazione di diritto diocesano, secondo quanto stabilito dal canone 298 del Codice di Diritto Canonico, sul punto di diventare una Società di Vita Apostolica” - pur concedendo alla suddetta un inquadramento produttivo di effetti giuridici solo dal punto di vista del diritto positivo argentino, conferma tuttavia che, per le autorità ecclesiastiche, la Fraternità è cattolica, anche se non ancora inquadrata nella disciplina prevista dal Codice di diritto canonico vigente, promulgato nel 1983. Essendo cattolica, non è fuori della Chiesa. Non essendo fuori della Chiesa, non può evidentemente esser ritenuta “scismatica”[1].
1. La FSSPX non può considerarsi “scismatica” in senso proprio o formale
L’ha detto nel 2005 il cardinale Castrillón Hoyos, al tempo Prefetto della Sacra Congregazione per il Clero e presidente della Pontificia Commissione ‘Ecclesia Dei’. Ecco le sue dichiarazioni:
- “purtroppo mons. Lefebvre procedette con le consacrazioni e pertanto si è creata una situazione di separazione, anche se non si è trattato di uno scisma in senso formale”;
- “la FSSPX è un’istituzione ecclesiastica composta di sacerdoti validamente ordinati anche se in modo illegittimo”;
- “l’esistenza di gruppi di tradizionalisti che non riconoscono gli ultimi Papi, i cosiddetti “sedevacantisti”, è un’altra faccenda, che non riguarda la Fraternità”[2].
Tre mesi dopo, sempre rispondendo a domande, il porporato ribadì che:
- “la Fraternità non è eretica”;
- “nel senso stretto del termine, non si può dire che la Fraternità sia scismatica”.[3]
Nove anni prima, il cardinale Edward Cassidy, all’epoca Presidente del Consiglio Pontificio per l’Unità dei Cristiani, al fine di chiarire ricorrenti e malevoli equivoci, aveva dichiarato pubblicamente che: “la Messa e i Sacramenti amministrati dai sacerdoti della Fraternità S. Pio X sono validi”.[4]
Che la FSSPX non possa considerarsi “scismatica” in senso “proprio o formale”, ciò è stato sostenuto in primo luogo dalla dottrina. Poco prima delle celebri Consacrazioni del 29 giugno 1988, il prof. Rudolf Kaschewski, autorevole canonista tedesco, del tutto indipendente dall’ambiente “lefebvriano”, aveva dimostrato in un breve e magistrale articolo che, in base al Codice del 1983, una consacrazione episcopale senza mandato pontificio non poteva essere punita con la scomunica[5]. Nel 1995, i giuristi della Pontificia Università Urbaniana approvarono una “tesina di licenza” in diritto canonico del Padre statunitense Gerald Murray, tutt’altro che “lefebvriano”, nella quale si sosteneva che la scomunica dichiarata a mons. Lefebvre e agli altri vescovi non poteva ritenersi valida in punto di stretto diritto canonico né lo poteva la connessa imputazione di scisma in senso formale[6].
Maggior autorità presso i fedeli possiede tuttavia il dictum di un cardinale. C’è dunque stata una “separazione”, sottolinea il card.Castrillón Hoyos, ma non uno “scisma in senso proprio”. Cerchiamo di capire la differenza. Una situazione di “separazione” costituisce di per sé uno scisma? No, evidentemente. La “separazione” derivante da una disubbidienza sanzionata non è a ben vedere una “separazione” dalla Chiesa militante poiché la disubbidienza non configura una situazione che possa considerarsi come tale scismatica, altrimenti bisognerebbe affermare che ogni disubbidienza costituisce scisma, il che ovviamente non è. Perché si abbia uno scisma non basta una disubbidienza, occorrono altri elementi e ben più incisivi, che nel nostro caso non ci sono mai stati e non ci sono.
1.1 La normativa vigente. La disubbidienza rappresentata da una consacrazione episcopale senza mandato del Papa, cioè senza la sua autorizzazione, veniva punita dal Codex Iuris Canonici del 1917 con la suspensio a divinis ipso iure, cioè per il solo fatto di aver perpetrato la violazione (c. 2370). Si trattava di una pena meno grave della scomunica e tuttavia grave. Esistevano nove tipi di “sospensioni”. Quella “a divinis” vietava al sacerdote: “ogni atto della potestà d’ordine, ricevuta che l’avesse [la potestà] dalla sacra ordinazione o per privilegio” (c. 2279, § 2.2). Dopo consacrazioni di vescovi senza mandato avvenute nel 1951 nella Cina comunista, sotto il controllo del Partito, con Decreto del S. Uffizio del 9 agosto di quell’anno la sospensione a divinis fu sostituita dalla pena della excommunicatio latae sententiae, riservata alla Santa Sede quanto alla sua remissione. Ciò significa che solo il Papa può revocarla (“rimetterla”). Anche qui la pena (la “censura”) si applica automaticamente al verificarsi del fatto stesso, che porta in sé la sua sanzione. Senza bisogno di istruire un processo, l’autorità competente si limita a dichiararla, con efficacia ex tunc, ossia dal momento del verificarsi della violazione. (Se si istruisce un processo, l’eventuale scomunica si denomina: excommunicatio ferendae sententiae).
L’attuale Codice di diritto canonico, del 1983, ha accolto la normativa introdotta nel 1951. Al c. 1382 esso prevede pertanto la scomunica latae sententiae per i colpevoli (consacrante e consacrato). Sono però applicabili le circostanze attenuanti ed esimenti elencate ai cc. 1323 e 1324. Tra di esse si annovera anche l’esistenza e persino la semplice convinzione (ancorché errata) dell’esistenza dello stato di necessità. Il Legislatore stabilisce che, per ciò che riguarda lo stato di necessità, quando la violazione della norma è avvenuta con un’azione intrinsecamente cattiva o dannosa per le anime, si ha una circostanza solo attenuante, sufficiente però ad escludere l’applicazione della scomunica, che deve esser sostituita da un’altra pena o da una penitenza. Se la violazione, invece, è avvenuta con un atto né intrinsecamente cattivo né dannoso per le anime (e una consacrazione senza mandato ma fatta senza animus scismaticus non è certamente cosa cattiva o dannosa per le anime), allora l’imputabilità addirittura non sussiste e non si può irrogare né pena né altra forma di sanzione. Se però il soggetto, per errore colpevole (per errorem, ex sua tamen culpa) ha ritenuto di essere costretto ad agire in stato di necessità, senza che la sua azione costituisse qualcosa di malvagio in sé o di dannoso per la salute delle anime, allora ha diritto alle sole attenuanti. Ma anche in questo caso, se merita la scomunica, quest’ultima non può esser dichiarata: deve esser sostituita da un’altra pena o penitenza. Va poi ricordato che quando l’errore di valutazione di cui sopra ha luogo senza colpa da parte del soggetto agente, allora, invece dell’attenuante, il medesimo ha diritto all’esimente, non è cioè “passibile di alcuna pena”[7].
1.2 I fatti provano che non c’è mai stata volontà di scisma. A norma di legge, la disobbedienza del cosiddetto “vescovo ribelle” non avrebbe dovuto esser punita con la scomunica. Per questo mons. Lefebvre e la Fraternità, forti della loro buona fede e della convinzione che lo stato di necessità esistesse oggettivamente, hanno sempre sostenuto che la scomunica doveva considerarsi invalida e lo scisma inesistente. Ma lo scisma non c’è mai stato non solo a causa dell’invalidità della scomunica ma anche perché né mons. Lefebvre né i quattro vescovi da lui consacrati hanno mai avuto né dimostrato di avere alcuna volontà scismatica. Tant’è vero che mons. Lefebvre (e ciò prova a mio avviso la sua buona fede) non ha conferito a questi ultimi il potere di giurisdizione, che implica una base territoriale, organizzata in vere e proprie diocesi.
Perché mons. Lefebvre voleva consacrare dei vescovi? Sin dal 1983, a 78 anni, egli si era dovuto porre il problema di avere dei successori che garantissero alla “Fraternità Sacerdotale” la sua impostazione, volta specificamente alla formazione di sacerdoti secondo il Seminario “tridentino” e alla conservazione della Messa VO. Ma il Papa avrebbe concesso l’autorizzazione, il “mandato”? Se avesse dovuto procedere senza di esso, disse pubblicamente mons. Lefebvre nel 1986, egli sarebbe stato comunque ben attento a non provocare alcuno scisma. I vescovi da lui eventualmente consacrati, precisò, “sarebbero stati miei ausiliari, senza alcuna giurisdizione e solamente per cresimare fedeli, ordinare sacerdoti…sarebbero stati al servizio della Fraternità, che viene dalla Chiesa, che è stata approvata dalla Chiesa. Non se ne parla di fare una “Chiesa parallela”, nel modo più assoluto. Lo scopo è semplicemente quello di continuare la Fraternità…La Fraternità è opera di Dio, voluta da Dio”.
Alle tradizionali ordinazioni sacerdotali del 29 giugno di ogni anno a Écône, sede del seminario originario della Fraternità, nel 1987 egli annunciò che avrebbe consacrato dei vescovi. Cominciarono allora trattative complesse e difficili con Roma, non prive di colpi di scena, che si trascinarono per un anno, condotte per ragione d’ufficio dall’allora cardinale Ratzinger. La trattativa ad un certo punto si arenò: dopo lungo battagliare, Roma concedeva sì un vescovo “tradizionalista”, ma non era soddisfatta della rosa di candidati inviata da mons. Lefebvre e non si decideva ad accettare una data, tra quelle proposte dall’anziano presule, che aveva ormai 83 anni e cominciava a sentire il peso della lunga battaglia per salvare la “Tradizione della Chiesa” dalla scomparsa nei gorghi delle “riforme” scaturite dal Vaticano II. Sarebbe morto il 25 marzo 1991, meno di tre anni dopo queste agitate vicende. Così, alla fine, nonostante le ripetute esortazioni ad aspettare ancora e gli ammonimenti provenienti da Roma, egli ruppe gli indugi e procedette alla consacrazione di ben quattro vescovi, con la presenza dell’anziano vescovo brasiliano mons. de Castro Mayer, compagno di tante battaglie, venuto a testimoniare il suo appoggio morale.
La vera volontà scismatica risulta, in genere, da espresse dichiarazioni di coloro che si separano (come nel caso di Lutero o di Enrico VIII re d’Inghilterra, che dissero apertamente di non riconoscere più l’autorità del Papa come capo della Chiesa universale, considerandolo nell’ipotesi più benigna un semplice “vescovo di Roma”) e comunque da un comportamento che mostra la creazione effettiva di una nuova chiesa, una “chiesa parallela”, come si suol dire. Un’organizzazione ecclesiasistica nuova, autocefala, che non riconosce l’autorità del Papa ed anzi le è ostile. Così hanno fatto Lutero e tutti i Protestanti, e prima di loro i cristiani di rito greco denominati “ortodossi”, dal momento che la cosiddetta “Chiesa ortodossa” o “greca”, piaccia o meno, è in realtà oggettivamente una setta scismatica. Viene chiamata “chiesa” solo in omaggio a un uso antico.
Al contrario, la Fraternità ha sempre riconosciuto e riconosce l’autorità del Papa e dei vescovi. Durante la celebrazione della S. Messa prega sempre per il Papa regnante e per l’Ordinario locale. Non si è mai organizzata in parrocchie e diocesi, parallele a quelle ufficiali della Santa Chiesa, ma solo in “distretti”, che sono delle realtà geografiche e non amministrative, dato che combaciano con le nazioni o addirittura con i continenti (distretto di Francia, d’Italia, d’Asia etc.). Costituiscono spazi nell’ambito dei quali i vescovi esercitano una “giurisdizione supplita” su base personale e non territoriale, cioè il solo potere d’ordine (impartire ed amministrare i Sacramenti), potere che si applica a seconda delle necessità prodotte dalle circostanze, rappresentate dalle richieste concrete delle anime, in modo simile a quanto fanno i vescovi in terra di missione. E difatti il cardinale Castrillón Hoyos, sempre nella citata intervista a 30giorni, poté affermare che la Fraternità è una “associazione non riconosciuta i cui vescovi si dichiarano ausiliari”. Si intende, “non riconosciuta” a causa della scomunica gravante sui vescovi, al tempo non ancora rimessa, che impediva l’inquadramento della Fraternità nelle nuove figure previste dal CIC del 1983 per le congregazioni di vita in comune senza voti, quale era (ed è) la Fraternità. Il “non riconosciuta” non va, tuttavia, inteso come se si riferisse a un ente esistente solo di fatto perché non regolarmente eretto: la Fraternità era stata costituita in modo perfettamente regolare dall’Ordinario locale, mons. François Charrière, “vescovo di Losanna, Ginevra e Friburgo”, secondo tutti i crismi del diritto canonico, il 1° novembre 1970. Né nel senso che la scomunica avesse colpito la Fraternità in quanto tale, collettivamente, come persona giuridica e in tutti i suoi membri, come alcuni sembrano credere ancor oggi. Le sospensioni a divinis e le scomuniche colpiscono soltanto le persone singole. Non si applicano agli enti collettivi. Questo è sempre stato un principio fondamentale del diritto penale della Chiesa, puntualmente recepito sia nel Codice del 1917 che in quello del 1983 e ribadito da Benedetto XVI (vedi infra).
Ausiliari, dunque, i vescovi della Fraternità. Non avendo diocesi alcuna, non esercitando pertanto il potere di giurisdizione, non governando insomma un’organizzazione parallela a quella della Chiesa ufficiale, essi esercitano il potere d’ordine nella forma della “giurisdizione supplita” di cui sopra, vale a dire applicandolo unicamente secondo il caso concreto che via via si presenti, ad personam, per il bene delle anime. Giusta appare, pertanto, l’osservazione del cardinale Castrillón Hoyos, secondo la quale abbiamo qui una “separazione” ma non uno scisma in senso proprio. Del resto, se non c’è vero e autentico scisma, come fa ad esserci autentica separazione dalla comunione con la Chiesa? Esisteva una separazione di fatto, provocata dalla scomunica subíta dai vescovi della Fraternità, che impediva l’inquadramento della stessa nelle nuove figure del Codice di diritto canonico. Ma a questa separazione di fatto non corrispondeva una separazione reale, sostanziale, dal momento che la cosiddetta, scismatica “nuova chiesa lefebvriana” non è mai esistita, né nei fatti né nelle intenzioni.
2. I vescovi e i sacerdoti della Fraternità sono tutti validamente ordinati, anche se “illegittimamente” ossia in violazione di una norma di carattere disciplinare, che non coinvolge in alcun modo i fedeli.
L’altro punto importante da ribadire concerne la validità delle consacrazioni dei vescovi e delle ordinazioni sacerdotali della Fraternità, cosa che comporta la validità dei Sacramenti da loro amministrati, nonostante l’illiceità delle consacrazioni e ordinazioni. A prima vista, sembrerebbe di trovarsi di fronte ad una contraddizione insanabile: se le ordinazioni sono state “illecite” come possono esser nello stesso tempo “valide”? Ed esser “validi” i Sacramenti amministrati dai “lefebvriani”?
In realtà non v’è alcuna contraddizione. Possiamo spiegare la cosa nel modo che segue. La legittimità riguarda una qualità esterna dell’atto, quando è prevista dalla legge: l’esser cioè stato autorizzato o meno da un’autorità competente, di grado superiore (qui, il Papa) al soggetto che pone in essere l’atto stesso (qui, il vescovo consacrante). La validità è invece la qualità interna dell’atto, vale a dire, l’esser stato posto in essere da un soggetto competente (qui, il vescovo) rispettando le forme e procedure, stabilite dal diritto, indispensabili per la sua stessa esistenza di atto. Una consacrazione legittima perché debitamente autorizzata dal Papa, può risultare invalida se fatta senza rispettare gli indispensabili requisiti di materia e forma. Si comprende, quindi, come una consacrazione episcopale attuata senza l’autorizzazione del Papa risulti “illegittima” sul piano disciplinare, di per sé estraneo all’atto della consacrazione, e di contro perfettamente “valida” in quanto tale, se posta in essere secondo i requisiti prescritti.
Pertanto, nel caso della Fraternità san Pio X ci troviamo di fronte a consacrazioni episcopali perfettamente valide nonostante siano avvenute illegittimamente a causa del divieto pontificio di effettuarle, manifestato all’epoca dall’autorità competente. Lo stesso deve dirsi per le ordinazioni sacerdotali effettuate da mons. Lefebvre, a cominciare da quelle del 1975, immediatamente successive all’ingiunzione di chiudere il Seminario di Écône, e dai quattro vescovi “ausiliari” da lui ordinati. “Illegittime” le prime perché effettuate da un vescovo diffidato dal farle in mancanza del permesso dell’Ordinario locale (le cosiddette lettere dimissoriali) che non l’avrebbe ovviamente concesso, essendo stata appena soppressa la Fraternità stessa, e tuttavia perfettamente valide. Mons. Lefebvre si rifiutò coraggiosamente di chiudere il Seminario e smobilitare la Fraternità illegittimamente soppressa dall’Ordinario locale nel 1975. Illegittimamente, perché l’Ordinario territorialmente competente, mons. Pierre Mamie, non aveva di per sé il potere (che appartiene esclusivamente al Papa) di sopprimere una congregazione di vita in comune senza voti, quale era la Fraternità. Occorreva un’espressa e documentata autorizzazione pontificia ad hoc (detta in forma specifica) che non è mai stata prodotta. Qui il carattere illegittimo del provvedimento, motivato tra l’altro con l’avversione di mons. Lefebvre alle “riforme” del Vaticano II, cosa che riguardava comunque la sua persona e non l’istituzione da lui creata, è tale da renderlo invalido in modo insanabile ovvero nullo in radice e a tutti gli effetti. Mons. Lefebvre si appellò immediatamente al Tribunale della Segnatura Apostolica contro l’iniqua misura ma il suo ricorso non fu accettato con la motivazione che la procedura era stata approvata dal Papa “in forma specifica”, cosa che la rendeva inattaccabile. Ma di questa famosa “approvazione in forma specifica” non è mai stata fornita la prova, come richiesto dal diritto.
All’atto pratico, cosa implica l’illegittimità tuttora attribuita alle consacrazioni e alle ordinazioni effettuatesi nella Fraternità? Che il soggetto ecclesiale che ha posto in essere l’atto e quello che ne ha beneficiato (il sacerdote ordinato) sono passibili di una sanzione (di tipo disciplinare, come le penitenze) da parte dell’autorità legittima, avendo quest’ultima a suo tempo proibito di compiere l’atto stesso, attuatosi perciò senza il suo consenso. Si tratta quindi di un risvolto meramente disciplinare tra i vescovi ed i sacerdoti della Fraternità da un lato e la Prima Sedes dall’altro; una questione interna alla Gerarchia ecclesiastica, che non riguarda per niente i fedeli, dal momento che non incide affatto né sulla validità di quelle ordinazioni né sulla validità degli atti successivamente posti in essere da quelle persone ordinate, nell’esercizio legittimo dei poteri (non di giurisdizione) derivanti dall’ordinazione stessa (celebrare la S. Messa, battezzare, cresimare, confessare etc.).
Se poi si riconosce l’esistenza obiettiva dello stato di necessità, sempre invocata da mons. Lefebvre e dai suoi successori, allora quelle ordinazioni non sono nemmeno punibili, dal momento che lo stato di necessità, come si è visto, fa venir meno l’imputabilità. Cadrebbe, quindi, la nota dell’illegittimità ancora attribuita alle ordinazioni stesse. A riconoscere pienamente lo stato di necessità invocato a suo tempo da mons. Lefebvre, la Santa Sede, a quanto sembra, non è tuttavia ancora preparata.
3. Le dichiarazioni del 2009 di Benedetto XVI confermano l’inesistenza di uno scisma
Anche dopo la remissione della scomunica ai quattro vescovi della Fraternità (oggi ridotti a tre) ad opera di Benedetto XVI, si continua tuttavia a dire che la suddetta sarebbe comunque rimasta in qualche modo “scismatica”, e quindi “fuori della Chiesa”, sinché non venga inquadrata nel nuovo Codice di diritto canonico. Ma valga il vero: Benedetto XVI, nella Lettera Apostolica del 10 marzo 2009 ai vescovi, nella quale illustrava i motivi della remissione della scomunica, mai aveva parlato dell’esistenza di un effettivo scisma[9]. Il Papa non diceva che “i ministri della Fraternità” erano esclusi dalla comunione con la Chiesa. Diceva una cosa del tutto diversa: semplicemente, che il loro stato canonico ancora non c’era. E sappiamo perché: perché non si era trovato l’accordo sulle questioni dottrinali, preliminare al loro inquadramento in una società di vita apostolica, discendente diretta delle congregazioni di vita in comune senza voti.
Ma ciò non significava che essi fossero esclusi dalla comunione con la Chiesa: significava, invece, che essi erano da ritenere “non in piena comunione” con la Chiesa (cardinale Castrillón Hoyos) e comunque in nessun caso da ritenersi un’altra chiesa, una setta, una “comunità ecclesiale” del tutto separata. L’atto scismatico delle consacrazioni episcopali di Écône del giugno 1998 (giusta la definizione che ne diede Giovanni Paolo II), restò un atto solo potenzialmente scismatico, dal momento che non diede vita ad alcun vero scisma. Mons. Lefebvre tenne fede a quanto aveva detto, paventando consacrazioni senza mandato, col non conferire alcun potere di giurisdizione ai consacrati, concepiti come vescovi “ausiliari”. E la Fraternità è stata sempre fedele all’impostazione del fondatore, essendosi data un’organizzazione e avendo tenuto un atteggiamento verso le autorità romane, che mostravano e mostrano chiaramente l’assenza dell’animus dello scismatico.
In ogni caso, dopo la remissione delle scomuniche, non si può continuare a dire che i “lefebvriani” siano in qualche modo ancora degli “scismatici” perché non hanno ancora un inquadramento nel diritto canonico attuale.
Infatti, se le Consacrazioni del 1988 erano un “atto scismatico” punito con la scomunica latae sententiae, la revoca della scomunica, cancellando la punizione, rappresentata dall’esclusione dalla Chiesa militante, non ha fatto venir meno l’esclusione stessa, onde i “lefebvriani” perdonati devono considerarsi riammessi ipso facto nella Chiesa? E se sono stati riammessi nella Chiesa, come fanno essi a trovarsi ancora fuori di essa, come è proprio degli scismatici? Lo scismatico, infatti, è colui che si è separato, si è “scisso” dalla comunità e quindi ne sta fuori. Oppure è stato “scisso” dall’autorità. La scomunica, possiamo equipararla ad una sanzione che si attua nella forma di un decreto con il quale l’autorità legittima caccia un credente, sacerdote o laico, dalla comunità costituita dalla Chiesa. Una volta revocato questo decreto dall’autorità che l’ha promulgato, la vittima del provvedimento è riammessa per ciò stesso nella comunità. Non si capisce come la si possa considerare ancora fuori. Il 21 gennaio 2009, il Decreto di remissione della “censura di scomunica”, dichiarava “privo di effetti giuridici il Decreto a quel tempo emanato”, cioè la scomunica del 1° luglio 1988[10]. E lo “star fuori della Chiesa” non era forse l’effetto giuridico specifico di quel Decreto?
Che “l’atto scismatico” delle Consacrazioni del 1988 non abbia mai dato luogo ad un vero scisma, lo fa nettamente capire, come si è detto, anche la ricordata Lettera Apostolica del 10 marzo 2009. Dopo aver rammentato che i vescovi della Fraternità “sono ordinati validamente ma illegittimamente”, sono cioè vescovi a tutti gli effetti nonostante l’illegittimità (sul piano disciplinare) della loro ordinazione, Benedetto XVI aggiunse: “la scomunica colpisce persone, non istituzioni. Un’Ordinazione episcopale senza il mandato pontificio significa il pericolo di uno scisma, perché mette in questione l’unità del collegio episcopale con il Papa. Perciò la Chiesa deve reagire con la punizione più dura, la scomunica, al fine di richiamare le persone punite in questo modo al pentimento e al ritorno all’unità”[11]. Si noti che il Papa parlava di “pericolo di uno scisma” per le Consacrazioni del 1988, non di uno scisma effettivamente consumato. Il Papa non accusava mons. Lefebvre di aver dato vita ad uno scisma bensì di aver compiuto un atto (di disubbidienza) che avrebbe potuto farlo nascere. Lo scisma “dei lefebvriani” restava quindi del tutto potenziale. Nei fatti non era mai avvenuto, come aveva fatto notare il cardinale Castrillón Hoyos.
Il solo pericolo era tuttavia sufficiente, secondo il Papa, per dichiarare la scomunica latae sententiae, prevista dalla legge. Scomunica che non colpiva certamente “le istituzioni”, e quindi la Fraternità in quanto tale, ma unicamente le persone. Ma perché la remissione? Perché, continuava la Lettera Apostolica, con la remissione si invitavano “ancora una volta” i quattro vescovi della Fraternità al ritorno. E su che base? “Questo gesto era possibile dopo che gli interessati avevano espresso il loro riconoscimento in linea di principio del Papa e della sua potestà di Pastore, anche se con delle riserve in materia di obbedienza alla sua autorità dottrinale e a quella del Concilio”[12].
I quattro vescovi, com’è noto, avevano collegialmente rinnovato al Papa la loro fedeltà alla Cattedra di Pietro. Ma questa professione di fedeltà conteneva forse delle “riserve” per quanto riguardava “l’autorità dottrinale” del Papa? Sembrerebbe di sì, da come si esprime qui Benedetto XVI. Non risulta, però, che mons. Lefebvre o i vescovi “ausiliari” da lui consacrati abbiano mai fatto in linea di principio delle “riserve” sull’autorità dottrinale del Papa in quanto tale. Ritengo che qui Benedetto XVI volesse riferirsi a riserve dei quattro vescovi nei confronti dell’accettazione del Concilio, nel senso che l’autorità dottrinale del Papa non poteva esser tale da imporre l’obbedienza a un Concilio solo pastorale quale il Vaticano II, come se si trattasse di un Concilio dogmatico. La manifestazione di queste “riserve” non ha impedito a Benedetto XVI di accettare la loro rinnovata manifestazione di fedeltà: ciò dimostra che le “riserve” dovevano concernere solo l’obbedienza al Concilio (e in più dimostra, a mio avviso, che nemmeno il Papa riteneva dogmatico il Vaticano II, altrimenti non avrebbe lasciato passare le “riserve” menzionate).
Ma restava il problema dell’inquadramento della Fraternità nelle nuove figure create dal Codice del 1983. E qui si passava dall’ambito disciplinare della scomunica a quello dottrinale, precisò il Pontefice. “Il fatto che la Fraternità S. Pio X non possieda una posizione canonica nella Chiesa, non si basa in fin dei conti su ragioni disciplinari ma dottrinali. Finché la Fraternità non ha una posizione canonica nella Chiesa, anche i suoi ministri non esercitano ministeri legittimi nella Chiesa”[13].
Cosa dunque comporta il mancato risolvimento delle questioni dottrinali, forse l’esclusione dei vescovi della Fraternità dalla Chiesa, il loro trovarsi ancora in una situazione di cosiddetto “scisma”? Si noti che il Papa si preoccupava di precisare che la scomunica colpisce le persone non le istituzioni. La scomunica dichiarata a suo tempo non ha pertanto “scomunicato” tutti gli altri appartenenti alla Fraternità, e ancor meno (ovviamente) coloro che ne frequentano le funzioni ed attività religiose, ma unicamente i cinque ecclesiastici contro i quali era stata dichiarata. Quale, allora, la situazione di questi ultimi? Questa: che il loro ministero si svolge nella Chiesa ma in modo illegittimo. Illegittimo anche se sempre valido. Non illegittimo perché i ministri della Fraternità si trovino fuori della Chiesa, cosa impossibile dopo la remissione delle scomuniche. (E, a ben vedere, impossibile anche prima, visto che la scomunica non si sarebbe dovuta dichiarare, a causa dello stato di necessità in cui aveva agito e ritenuto di agire mons. Lefebvre).
Dunque “illegittimo” perché, a causa delle questioni dottrinali pendenti, tali ministri non sono stati ancora inquadrati canonicamente ovvero secondo le norme del Codice del 1983. Ne consegue che “i ministri della Fraternità” si troverebbero fuori del Codice del 1983, non della Chiesa. Fuori del Codice del 1983 e ancora dentro quello del 1917, vigente al tempo della fondazione della Fraternità. Anzi, per esser più precisi, fuori della parte III del Libro II, dedicato al “Popolo di Dio”, del Codice del 1983; parte III la cui titolazione recita: “Gli Istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica”. Infatti, il Codice del 1917 è stato abrogato dal vigente al c. 6 § 1, 1°. Tuttavia, vale sempre il c. 102 § 1 del Codice del 1917, secondo il quale la “persona giuridica”(persona moralis) regolarmente istituita “per sua natura è perpetua”. Vale perché espressamente mantenuto dal Codice del 1983, al c. 120 § 1: “La persona giuridica per sua natura è perpetua; si estingue tuttavia se viene legittimamente soppressa dalla competente autorità o se ha cessato di agire per lo spazio di cent’anni”. Poiché la soppressione della Fraternità nel 1975 è stata del tutto illegittima e la Fraternità non ha mai cessato di esistere ed operare in conformità ai propri statuti, essa deve considerarsi tuttora regolarmente istituita secondo il Codice del 1917 e quindi dotata “in perpetuo” di quella “personalità morale “ o “giuridica” che è riconosciuta “in perpetuo” anche dal nuovo Codice di diritto canonico. Ciò le consente non solo una vita autonoma a fianco delle nuove figure create dal Codice vigente ma anche di esistere in conformità a tale codice.
“Illegittima” questa vita (dal punto di vista disciplinare) ma perfettamente valida quanto agli atti dei suoi ministri. “Illegittima”, è ovvio, per chi ritiene legittima la soppressione illegale di Écône, l’abuso di potere perpetrato dall’Ordinario del tempo.
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1. Per il riconoscimento argentino, vedi l’ampia documentazione pubblicata in: Chiesa e postconcilio.blog, in data 15 aprile 2015 [qui].
2. Intervista al cardinale apparsa sul n. 9/2005 della rivista 30giorni.3. Intervista a Canale 5, trasmessa domenica 13 novembre 2005, alle 9 del mattino.
4. Dichiarazione riportata da: D.I.C.I., 11.1.2014, p. 2 di 6. È l’Agenzia ufficiale della FSSPX.
5. Vedi: Una Voce – Korrespondenz 18/2, marzo-aprile 1988. È interamente riportato in italiano da ‘sì sì no no’ dell’agosto 1988 (XIV) 14, pp. 4-6, unitamente alla definizione dello “stato di necessità” di un altro eminente canonista tedesco, il prof. Georg May.
6. Questa “tesina” non è mai stata pubblicata e il P. Murray un anno dopo ne fece una ritrattazione parziale. Ne apparve un riassunto abbastanza chiaro, con larga citazione di passi, nella rivista americana The Latin Mass, numero di autunno del 1995.
7. Sugli aspetti teologici e canonistici delle Consacrazioni effettuate da mons. Marcel Lefebvre nel 1988, vedi i due dettagliati studi a suo tempo apparsi in ‘sì sì no no’, dal n. 1 al n. 9 dell’anno 1999 (XXV). Il periodico è reperibile in rete.
8. B. Tissier de Mallerais, Marcel Lefebvre. Une vie, Clovis, Paris, 2002, p. 573. I particolari della vicenda delle consacrazioni del 1988 si trovano nel cap. XIX dell’opera: pp. 557-595.
9. D.I.C.I., 11 gennaio 2014, p. 2/6.
10. Congregazione per i vescovi. Decreto di Remissione della scomunica latae sententiae ai vescovi della FSSPX, del 21 gennaio 2009 – www.vatican.va/roman-curia etc. [Documentazione anche qui]
11. S. S. Benedetto XVI, Ad Episcopos Ecclesiae Catholicae, AAS 2009 (CI) 4, pp. 270-276; p. 272.13. Op. cit., ivi.
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