Una carrellata ad ampio raggio che parte dalle sorti della Messa tradizionale dopo la Traditionis custodes ma è interessante perché analizza anche gli altri problematici cambi di paradigma nella Chiesa di oggi. Qui l'indice dei precedenti su Traditionis custodes.
«Chi salverà la Chiesa? Non pensate ai sacerdoti, non pensate ai vescovi e ai religiosi.
Sta a voi, laici. Avete menti occhi e orecchie per salvare la Chiesa.
Sta a voi ricordare ai sacerdoti di essere sacerdoti,
ai vescovi di essere vescovi e ai religiosi di essere religiosi».
Sta a voi, laici. Avete menti occhi e orecchie per salvare la Chiesa.
Sta a voi ricordare ai sacerdoti di essere sacerdoti,
ai vescovi di essere vescovi e ai religiosi di essere religiosi».
(Ven. Fulton J. Sheen)
Nisi Dominus aedificaverit domum, in vanum laboraverunt qui aedificant eam.
(Salmo 126)
Per quanto non inattesa, ha suscitato scalpore la lettera apostolica in forma di motu proprio del 16 luglio scorso con cui papa Francesco ha revocato la decisione del suo predecessore di autorizzare senza vincoli la celebrazione della messa secondo l'antico rito tridentino, in quanto «espressione straordinaria della stessa lex orandi della Chiesa cattolica di rito latino» (Summorum pontificum, art. 1, 2007). La messa in latino secondo il canone del Missale Romanum del 1962, ultima revisione di una tradizione liturgica quasi bimillenaria ufficializzata da Pio V nel 1570, torna così a essere un'eccezione subordinata all'autorizzazione del vescovo competente, e la messa postconciliare in vernacolo «l'unica espressione della lex orandi del Rito Romano» (Traditionis custodes, art. 1). Un'eccezione, puntualizza oggi Francesco, da tollerare esclusivamente a beneficio di «quanti si sono radicati nella forma celebrativa precedente e hanno bisogno di tempo per ritornare al rito romano promulgato dai santi Paolo VI e Giovanni Paolo II» (Traditionis custodes, lettera accompagnatoria ai vescovi, corsivo mio) e dunque da accompagnare verso una progressiva estinzione, non potendo peraltro i vescovi «autorizzare la costituzione di nuovi gruppi» (Trad. cust., art. 3 par. 6).
Da cattolico praticante il «rito antico» mi sento chiamato in causa da questa decisione, le cui ragioni e i cui effetti offrono uno spaccato delle fatiche della Chiesa di oggi. Nel breve commento che accompagna il motu proprio il Pontefice non avanza scrupoli dottrinali, non mette cioè in discussione l'ortodossia del rito preconciliare, ma ne denuncia «l'uso strumentale» che se ne farebbe, «sempre di più caratterizzato da un rifiuto crescente non solo della riforma liturgica, ma del Concilio Vaticano II, con l’affermazione infondata e insostenibile che abbia tradito la tradizione». Egli vede «sempre più evidente nelle parole e negli atteggiamenti di molti la stretta relazione tra la scelta delle celebrazioni secondo i libri liturgici precedenti al Concilio Vaticano II e il rifiuto della Chiesa e delle sue istituzioni». L'abrogazione delle concessioni avrebbe dunque lo scopo di «difendere l’unità del Corpo di Cristo... Questa unità [che] intendo che sia ristabilita in tutta la Chiesa di rito romano».
Pur astrattamente nobile, la motivazione appare problematica se non proprio contraddittoria. È infatti vero che alcuni gruppi dediti al tradizionalismo liturgico sono assai critici verso la Chiesa scaturita dal Vaticano II, fino a considerarla apostatica. Il fatto è che però tutti questi gruppi, essendosi resi indipendenti dalla gerarchia diocesana, non rispondono all'autorità dei vescovi e quindi non sono interessati dalla decisione del Pontefice. Al contrario, coloro che fino a un mese fa fruivano della Summorum pontificum e che oggi vedono minacciata la propria libertà liturgica avevano scelto di esprimere una sensibilità più tradizionale restando in comunione con la Chiesa, come era in effetti nelle intenzioni di Ratzinger. Ora invece è facile prevedere che il «fuoco amico» di Francesco realizzerà i timori del papa emerito e spingerà molti tradizionalisti verso i lidi scismatici, come sta avvenendo. Quanto è plausibile che un epilogo così esiziale per «l’unità del Corpo di Cristo» non sia stato previsto? E se lo è stato, qual è allora lo scopo di questo giro di vite?
Da qualunque parte si guardi la vicenda, è difficile allontanare il sospetto che si sia voluto colpire proprio il rito e non il suo «uso strumentale». Altrimenti, perché bloccarne preventivamente e indiscriminatamente la diffusione? Se fosse solo uno strumento incolpevole, perché invece non salvarlo da chi ne «abusa»? E ancora, quanto è illogica la speranza di contrastare o convertire chi cova un «rifiuto della Chiesa e delle sue istituzioni» bucandogli il pallone, oscurandone una peraltro nobilissima espressione? Si è mai curata una malattia sopprimendo i suoi sintomi?
Si resta vieppiù perplessi considerando il contesto, di una partecipazione popolare al sacrificio eucaristico che almeno nell'emisfero sviluppato si è ridotta ai minimi storici e declina ininterrottamente dai primi anni Ottanta fino all'ultimo, spettacolare tracollo del biennio «pandemico». Dopo l'incredibile sospensione dei sacramenti la frequenza nelle chiese diocesane riaperte e ospedalizzate è arrivata anche a dimezzarsi. Come si ripete da anni, l'abbandono della messa è il culmine di una più generale diserzione che si riflette anche nel crollo delle offerte, dell'otto per mille, delle ordinazioni, dei matrimoni religiosi, della partecipazione alla vita parrocchiale.
In questa crisi il fronte tradizionale sembra invece non solo resistere, ma anzi crescere in controtendenza. Il Pontefice ha purtroppo scelto di non divulgare i risultati di un'indagine conoscitiva sul fenomeno, ma da altre fonti sappiamo che ad esempio negli Stati Uniti le parrocchie tradizionali si moltiplicano mentre diminuisce il numero dei cattolici, che in Francia un quinto dei seminaristi avrebbe scelto l'indirizzo tradizionale, che nell'ultimo decennio le celebrazioni in vetus ordo nel mondo sarebbero più che raddoppiate. Nelle due cappelle in cui seguo messa in latino le presenze continuano ad aumentare da quando le frequento, anche nelle settimane di «zona rossa» e specialmente all'indomani della Traditionis custodes, tanto che nell'ultimo mese molte persone sono state costrette a seguire dall'esterno. Tutti si comunicano, l'assemblea scandisce unita i responsori e segue il canto, l'accompagnamento musicale e corale è di livello professionistico.
Mentre mi interrogo sul senso di sfrondare l'unico «asset» fiorente di un'organizzazione altrimenti in emorragia cronica di fedeli e di fede, mi viene spontaneo confrontare questa vitalità con i rari nantes in gurgite vasto che resistono distanziati e guardinghi nelle nostre parrocchiali. E in questo nuovo rinchiudersi nell'impopolarità e nel fallimento vedo l'indole tirannica oggi comune a molti poteri: di spregiare il consenso, di esprimersi solo con la costrizione e il divieto, di enfatizzare un nemico per criminalizzare tutti e di imporre a dispetto di tutto una modernità ormai a corto di seduzioni, ormai vecchia. In effetti, ciò che apparenta la Traditionis custodes ai provvedimenti più recenti del governo civile è l'assenza di un benché minimo tentativo di spiegarsi le ragioni di chi coltiva un'alternativa o un rifiuto. Non c'è nulla da capire, è il popolo che deve capire. E se non capisce, si farà a meno del popolo.
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Alle domande che Francesco non si pone provo a rispondere nei limiti della mia esperienza, sperando di dare una testimonianza almeno parziale di ciò che «ribolle» nella base. Innanzitutto sì, trovo anch'io che la liturgia secondo la lezione di sempre rappresenti in sé e non nella strumentalità eventuale del suo esercizio una critica implicita al modello spirituale e chiesastico del Vaticano II, se non altro per l'ovvio motivo che il suo superamento fu deciso proprio in quel consesso. Restando le migliori intenzioni del papa bavarese e i molti meriti pratici della liberalizzazione che porta la sua firma, molti anni prima ebbe egli stesso a riconoscere che «dietro ai modi diversi di concepire la liturgia ci sono... modi diversi di concepire la Chiesa, dunque Dio e i rapporti dell'uomo con Lui. Il discorso liturgico non è marginale: è il cuore della fede cristiana!» (Rapporto sulla Fede, 1985). Che queste diversità dovessero tornare a scontrarsi era inevitabile, forse anche salutare.
La scarsa consapevolezza di come il cambio di rito sia stato insieme effetto e causa di un cambio di paradigma è segnalata dal persistere di certi miti apologetici della riforma. Ad esempio sull'uso del latino, ritenuto d'ostacolo alla comprensione e alla partecipazione dei fedeli quando al contrario rimuove le barriere che renderebbero le medesime formule inintelligibili a ministri e fedeli di lingue diverse. Le declamazioni fisse della messa in latino sono meno di quaranta, distribuite in parti più o meno uguali tra sacerdote e assemblea. Con l'eccezione di Confiteor, Gloria e Credo, si tratta di formule brevi o brevissime facili da memorizzare nel significato e nella lettera consultando un messale con il testo a fronte, dove si possono anche seguire le parti proprie e le letture del giorno (che ormai è uso ripetere anche in lingua) nella doppia versione. Con questo bagaglio minimo si può partecipare alle messe di tutto il mondo. Oggi invece basta spostarsi a Bolzano per non capirci una virgola. È in ogni caso dubbio che per comprendere una formula liturgica sia sufficiente farsela tradurre, senza afferrarne anche il significato teologico e la funzione. La sovrapposizione con la lingua d'uso può anzi dare luogo a equivoci e «falsi amici» (come la famosa formula pro perfidis Iudaeis, poi rimossa qui). Per questi motivi e non certo per intellettualismo tutte le grandi religioni utilizzano nei loro riti una lingua antica e dedicata, scevra da incertezze [vedi: Il Latino, lingua sacra da preservare].
Paradossale è anche la critica di chi vede una sorta di separazione «classista» nella postura del sacerdote che celebra rivolto verso l'altare senza interagire frontalmente con l'assemblea, quasi a escluderla dal Mistero. Solo a un occhio offuscato dal furore ideologico può sfuggire che invece è proprio vero il contrario: nel rito di Pio V il ministro non si distingue dai fedeli dando loro le spalle, ma si rivolge alla Presenza nel tabernacolo... come i fedeli! E come i fedeli indirizza silenziosamente le sue orazioni alla divinità, del cui Sacrificio è un umile mediatore. Le implicazioni di questo equivoco sono enormi. Dopo la riforma, il punto focale della celebrazione si è spostato dall'altare al prete e la linea visiva che dagli uomini si apre a Dio si è chiusa tra gli uomini e l'uomo che parla e gesticola dall'altare, con la divinità relegata sullo sfondo. Nasceva il fenomeno delle messe belle o brutte, vivaci o dimesse, appassionanti o noiose, improntandosi ora la cerimonia alla personalità e all'estro di chi celebra, non al Celebrato. Fenomeno del tutto estraneo alla tradizione liturgica antecedente, che avendo contenuto l'azione del ministro nella prevalenza del silenzio e in un cerimoniale rigidamente scandito riusciva sempre e solennemente uguale a se stessa, con i suoi ampi spazi meditativi e la ripetizione ieratica di una gestualità senza tempo. È curioso osservare come la volontà di Paolo VI di promuovere la «partecipazione attiva dei fedeli alla messa [affinché] non assistano come estranei o muti spettatori a questo mistero di fede» (Sacrosantum Concilium) si sia tradotta all'atto pratico in una decisa espansione della leadership del pastore. Volendo trarne una suggestione politica, si riflette qui un concetto di democrazia paternalistico e tutoriale molto attuale in cui il popolo «partecipa» nella misura in cui si lascia condurre.
Il rischio più immediatamente tangibile di una liturgia eccessivamente incentrata sulla persona è la sua eccessiva personalizzazione. È significativo che nel presentare la Trad. Cust. lo stesso Francesco raccomandi ai vescovi «di vigilare perché ogni liturgia sia celebrata con decoro... senza eccentricità che degenerano facilmente in abusi», facendo emergere almeno una parte del problema. In modo più puntuale il futuro papa Benedetto XVI inquadrava la permeabilità del rito all'irrompere della contingenza (ibidem):
La liturgia non è uno show, uno spettacolo che abbisogni di registi geniali e di attori di talento. La liturgia non vive di sorprese «simpatiche», di trovate «accattivanti», ma di ripetizioni solenni. Non deve esprimere l'attualità e il suo effimero ma il mistero del Sacro. Molti hanno pensato e detto che la liturgia debba essere «fatta» da tutta la comunità, per essere davvero sua. È una visione che ha condotto a misurarne il «successo» in termini di efficacia spettacolare, di intrattenimento. In questo modo è andato però disperso il proprium liturgico che non deriva da ciò che noi facciamo, ma dal fatto che qui accade qualcosa che noi tutti insieme non possiamo proprio fare.
Ciò che i due papi omettono di commentare è il filo che collega queste derive alla rivoluzione antropocentrica introdotta dall'ultimo concilio, di avere trasferito il baricentro liturgico dall'immutabile Celeste alla volubilità dell'essere umano, delle sue inclinazioni e delle sue vicende. E che in questa centralità dell'uomo si declina e si realizza anche il nodo profondo della polemica tradizionalista, di una secolarizzazione che dai riti si trasmette alla dottrina, agli atti, al senso di dirsi e di sentirsi cattolici. Commentando l'editto bergogliano, il superiore generale della Fraternità sacerdotale San Pio X don Davide Pagliarani [qui] ha ricalcato il nesso con decisione indicando nella messa di Paolo VI
[l']espressione autentica di una Chiesa che si vuole in armonia con il mondo, che presta orecchio alle istanze del mondo; una Chiesa che, in fondo, non deve più combattere il mondo perché non ha più nulla da rimproverargli; una Chiesa che non ha più niente da insegnare perché è in ascolto delle potenze di questo mondo... una Chiesa che non ha più per missione di restaurare la regalità universale di Nostro Signore, poiché vuole portare il suo contributo all’elaborazione di un mondo migliore, più libero, più ugualitario, più eco-responsabile; e tutto questo con dei mezzi puramente umani. A questa missione umanista che gli uomini di Chiesa si sono dati deve necessariamente corrispondere una liturgia ugualmente umanista e desacralizzata.***
Occorre dire che per molti l'esigenza di interrogarsi criticamente su questo modello si è imposta solo all'avverarsi delle sue conseguenze più evidenti, cioè con gli anni dell'ultimo pontificato, sotto il cui si segno si è assistito a una tale accelerazione dell'impeto secolarizzante da rendere per la prima volta concepibile l'abbandono della «comfort zone» in cui si era nati e cresciuti. Per quanto mi riguarda, poco o per nulla hanno influito in questa crisi le deviazioni dottrinali attribuite da alcuni al papa argentino, né sono state determinanti le sue prese di posizione, almeno non in sé. Ciò che mi riusciva inquietante era l'inesorabile convergere dell'istituzione verso i messaggi «delle potenze di questo mondo» nei contenuti, nel linguaggio e specialmente nei tempi. Era la prontezza con cui la Chiesa e le chiese rilanciavano con una spruzzata di incenso le priorità di volta in volta dettate dai potentati sovranazionali della politica e dell'industria, dalla stampa a tiratura mondiale, dagli intellettuali televisivi e in breve da chiunque il mondo accreditasse in quel momento tra i «migliori».
Nel periodo (non prima, non dopo, non oggi) in cui il mondo puntava i riflettori sulle difficoltà di chi emigra, alla messa domenicale si ostendeva il legno di una zattera spiaggiata e si predicava l'accoglienza mentre dal pulpito parlavano fornai egizi, operai cingalesi e tate ucraine. Calato il sipario, venne il turno del cambiamento climatico. Come tutti i potenti, anche l'autore della Laudato si' ricevette la ragazzina svedese «che fa tremare i potenti» promossa dai potenti di Davos. Pochi mesi dopo inaugurava il Sinodo per l'Amazzonia [qui] «per una ecologia integrale» tra i cui momenti si ricorda anche la cerimonia di adorazione di una «Madre Terra» pagana. Mentre il mondo puntava il dito contro il «populismo» riscriveva la storia tedesca addebitando al popolo di «tutta la Germania» l'elezione di Hitler del '33.
Le assonanze col mondo si estendevano anche al lessico, anche alle parole d'ordine più contaminate e controverse. Nel 2014 il filosofo Edgar Morin articolava in un libro-manifesto l'auspicio di un «nuovo umanesimo» la cui formula circolava già da qualche anno nelle allocuzioni delle logge massoniche (Gran Loggia Regolare d’Italia, 2002; Grande Oriente d’Italia, 2007) e che l'anno successivo avrebbe dato il titolo al 5° Convegno Ecclesiale Nazionale di Firenze: In Gesù Cristo il nuovo umanesimo. Di un «nuovo umanesimo» hanno scritto autorevoli teologi come Galantino, Lorizio, e Forte. Lo stesso Francesco lo ha invocato lanciando il «Global Compact on Education» [qui - qui] (una specie di circolare attuativa dei principi pedagogici moriniani) e durante la cerimonia di consegna del Premio Carlo Magno conferito ai più illustri fautori dell'integrazione europea. Ma prima ancora vi aveva fatto cenno Paolo VI in chiusura dei lavori del Vaticano II, con l'ammissione che «l’umanesimo laico profano alla fine è apparso nella terribile statura ed ha, in un certo senso, sfidato il Concilio. La religione del Dio che si è fatto Uomo s’è incontrata con la religione (perché tale è) dell’uomo che si fa Dio» e l'inquietante conclusione che non vi fu scontro tra i due fronti: «poteva essere; ma non è avvenuto».
Il Papa ha ricevuto Morin in udienza privata nel 2019 e ne ha recentemente celebrato il centenario nell'ambito di una giornata speciale istituita dall'Unesco, istituzione che a sua volta canta nel coro dei «nuovi umanisti» già da almeno un decennio. La stima tra i due è reciproca. Il francese considera l'argentino «il solo ad avere una coscienza planetaria» e legge nell'ultima enciclica, già elogiata per gli stessi motivi dal Gran Maestro del GOI, il programma a sé caro di un rinnovamento sociale all'insegna della fratellanza dei popoli figli di una stessa, pachamamica «Terre-Mère». Per Morin l'essere «fratelli tutti» [vedi articoli sull'Enciclica] è anche preludio di un'unione politica planetaria per accelerare la quale, scriveva nel 2002, «ci vorrebbe un aumento improvviso e terribile dei pericoli, la venuta di una catastrofe che agisca come un elettroshock necessario alla presa di coscienza e all'assunzione delle decisioni». Il nuovo faro del Cattolicesimo romano, che all'anagrafe si chiama Edgar Nahoum, ha militato prima nel partito comunista e poi in quello socialista, si definisce un «non credente radicale» la cui sola fede è «nella fraternità e nell'amore» e considera le religioni «realtà antropologiche» utili ad esempio come «parapetto contro la corruzione di politici e amministratori» (sic), purché rinuncino a ogni pretesa veritativa.
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Senza addentrarci oltre in queste e altre coincidenze teoretiche, poco appassionanti nel merito ma istruttive nel metodo, torniamo ai più tangibili fatti dell'epidemia globale da Covid-19 e delle sue politiche di contenimento, che per molti hanno rappresentato il punto sinora apicale dell'identità Chiesa-mondo. Nella storia della cristianità le sospensioni dei servizi religiosi cum populo sono state rarissime e circoscritte. Tra tante guerre ed epidemie, l'unico precedente certo in Italia è quello della peste del 1576-77 a Milano, che in pochi mesi fece 18.000 morti in una città di 130.000 (come se oggi morissero 8,2 milioni di italiani) e durante la quale il card. Borromeo organizzava processioni e imponeva ai prelati di portare i conforti della fede nelle case dei milanesi in quarantena. Si comprende lo sgomento di chi, come il non certo tradizionalista Andrea Riccardi, ha visto riproporre le stesse misure ma in scala più severa, nazionale e internazionale, per un'epidemia i cui tassi di mortalità si approssimano allo zero per la maggior parte della popolazione.
La prontezza con cui la Chiesa ha ritirato i suoi presidi [qui] è pari a quella con cui ha fatto suo il discorso pandemico iniziato dal mondo e lo ha trasmesso alle chiese lasciando che occupasse ogni spazio, fisico e spirituale. Nei templi impregnati di cloro, con l'acqua «ad effugandam omnem potestatem inimici» sostituita dagli impiastri alcoolici del supermercato e i pasdaran dell'igiene a castigare la prossimità del prossimo, queste orecchie hanno udito dal pulpito che «oggi Elia e Gesù ci direbbero di tirare le mascherine fin sul naso». Hanno ascoltato mese dopo mese invocare ascolto al Signore per medici, paramedici, infermieri, farmacisti, ricercatori, OSS ecc. ma anche per «la scienza» e «affinché ci siano vaccini per tutti». Questi occhi hanno visto i fedeli fregarsi le mani coi disinfettanti portati da casa pochi istanti prima di prendere il Corpo di NSGC dalle mani già disinfettate del prete, nemmeno fosse la crosta di un lebbroso. Più che i corpi, il virus infettava le omelie e non mancava mai di ispirare alla fantasia del predicatore metafore, appelli e nuove categorie dottrinali. Il lockdown diventava un periodo di riflessione e purificazione (?), la pandemia un'occasione «per interrogarsi sull'essere comunità», il distanziamento una «riscoperta del prossimo». La via medicale alla secolarizzazione procedeva per facili contaminazioni: tra quarantena e quaresima, sacrifici sanitari e ascesi, isolamento e preghiera, guarigione e conversione, isolamento e carità fraterna, salute del corpo e dell'anima.
L'apice dell'apice si è raggiunto con l'arrivo dei nuovi vaccini. Sullo stesso tema la Chiesa si era invero già espressa qualche anno prima rispondendo a un'altra chiamata del mondo. Allora, era il 2017, si trattava di estendere per decreto gli obblighi di profilassi per l'infanzia sulla spinta di una presunta epidemia di morbillo, il cui vaccino polivalente è stato sviluppato utilizzando anche tessuti di feti umani abortiti volontariamente. C'era però un problema: in un parere del 2005 la Pontificia accademia per la vita aveva censurato questi prodotti raccomandando di «usare i vaccini alternativi e di invocare l’obiezione di coscienza riguardo a quelli che hanno problemi morali». Soluzione: poco più di un mese dopo l'entrata in vigore del decreto italiano la stessa Accademia pubblicò un successivo parere che ribaltava il precedente, questa volta negando «che vi sia una cooperazione moralmente rilevante tra coloro che oggi utilizzano questi vaccini e la pratica dell’aborto volontario». Alle stesse conclusioni sarebbe poi giunta anche la Congregazione per la dottrina della fede con una tempestiva Nota sulla moralità dell’uso di alcuni vaccini anti-Covid-19 del 21 dicembre 2020.
Questi viraggi dottrinali pro re nata non erano che il preludio di una poderosa discesa in campo tra le fila del mondo per abbracciarne la nuova battaglia e ricondurre i recalcitranti al suo ovile, affidando agli altari la missione improbabile di spingere una campagna farmacologica. Qui possiamo solo offrire una scarna antologia degli eventi, partendo dall'alto. Nell'ultimo messaggio di Natale il Pontefice [qui] apriva le danze celebrando accanto alla «luce del Cristo che viene al mondo» anche «diverse luci di speranza, come le scoperte dei vaccini». Due settimane dopo era già passato all'imperativo: «C'è un negazionismo suicida che io non saprei spiegare, ma oggi si deve prendere il vaccino». A Pasqua esortava i capi di Stato «nello spirito di un internazionalismo dei vaccini» e il mese dopo ribadiva il concetto in un videomessaggio indirizzato al pubblico del concerto Global Citizen (sic) VAX Live, allestito coi quattrini del gotha capitalistico planetario «per celebrare gli incontri e la libertà che il vaccino ci sta portando». Negli stessi giorni Anthony Fauci e i CEO di Pfizer e Moderna partecipavano a una conferenza sulla salute (ovviamente) globale organizzata dalla Santa Sede. In agosto lanciava un altro spot ai presuli sudamericani e al mondo: «vaccinarsi è un atto d'amore» [qui].
Il coinvolgimento delle gerarchie ecclesiastiche non è stato né casuale né spontaneo. In marzo il nuovo dicastero vaticano per il Servizio dello sviluppo umano integrale diffondeva un "Kit per rappresentanti della Chiesa" nelle cui pagine si trovano le risposte da dare ai fedeli dubbiosi, «risorse per omelie e conversazioni» e contenuti preconfezionati da diffondere sui social per trasformare ogni sacerdote in un apostolo della missione. I vescovi rispondevano con lo zelo di chi deve dare l'esempio. Quello di Pinerolo farà il testimonial in una campagna pubblicitaria della ASL per convincere gli indecisi, quello di Treviso promuove il siero nei TG, quello di Nuoro si fa i selfie con l'hashtag #iomivaccino, quelli campani promettono al presidente della loro regione «tutta la collaborazione possibile per velocizzare e rafforzare la campagna di immunizzazione attraverso la sensibilizzazione dei fedeli», quello di Macerata denuncia dal pulpito le fake news che si leggono in rete, quello di Rovigo aggiunge nuove definizioni al catechismo («chi si oppone al vaccino con motivazioni etiche e religiose, rifiuta la dottrina della Chiesa cattolica»), quello di Tempio Pausania esclude religiosi e laici non vaccinati dai servizi comunitari. In alcune diocesi le iniezioni si fanno direttamente nelle chiese consacrate, una scelta oggettivamente senza necessità e senza senso, se non appunto quello di rinsaldare il cerchio tra fiducia nel mondo e fede nell'oltremondo, di sacramentalizzare l'atto secolarizzando il tempio.
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Qui possiamo e vogliamo tralasciare i giudizi sulla direzione di questi interventi. Non ci interessa quanto siano desiderabili la riduzione del biossido di carbonio, l'internazionalismo, le vaccinazioni contro la polmonite, le mascherine chirurgiche, le migrazioni dai paesi poveri. Da abitatori del mondo, ragioniamo di queste e altre cose nel mondo. Da cristiani, cerchiamo nelle chiese l'Eterno. Non ci disturbano la militanza e l'applicazione dei messaggi eterni alla comprensione e alla correzione dei tempi, al contrario! Ci rattrista la loro assenza, il loro liquefarsi nella ripetizione dei dettati del secolo e dei pruriti dei suoi padroni. Non bisogna stupirsi se le chiese si svuotano. Perché andare a messa se gli stessi messaggi li si può leggere su un giornale a caso o ascoltare in un monologo a caso di un politico a caso? Chi cerca il mondo non sa che farsene di un'imitazione sghemba appesantita da riferimenti sacri tutt'al più retorici, ma fuori contesto. Chi invece cerca il Cielo è un po' stufo di dover setacciare una particola di eternità rovistando tra educazione civica, veline editoriali, consigli per la profilassi, ciarle filosofiche, logorrea pastorale, fantasie ermeneutiche, patetismo mediatico e contaminazioni spacciate per «dialogo».
Il punto della messa in latino è tutto qui. Non la si segue per snobismo intellettuale né per affermare un credo politico, ma anzi per scrollarsi di dosso queste e altre miserie celebrando una promessa che conduce altrove e che in quell'altrove fissa le sole coordinate sicure per vivere e interpretare i rivolgimenti del mondo. La messa in latino non è solo il simbolo di una Chiesa la cui missione non doveva esaurirsi nell'imitazione del secolo. Lo è certamente, ma solo perché offre essa stessa uno strumento perfezionato nei millenni per avverare quella concezione organizzando l'azione e il pensiero in funzione di Dio.
Se alle ragioni zoppe della censura bergogliana si aggiungono da un lato la constatazione delle derive mondane in cui si sta avviluppando il suo pontificato e dall'altro la conta delle diserzioni di popolo con cui sconta l'omaggio alle centrali del pensiero laico e laicista, si è davvero tentati di dare ragione a chi vede nel suo decreto un attacco indirizzato non tanto a uno dei modi di vivere la fede, ma proprio alla fede come esperienza anche stilisticamente altra dal mondo. Non spetta a me dire se questo risultato sia stato perseguito con intenzione o se persino covasse già nei piani di qualche architetto conciliare, come ha argomentato qualcuno. Dal mio piccolo punto di osservazione registro la sua coerenza con ogni altro fenomeno di una modernità che si fa tanto più dispotica quanto più s'ingracilisce nella vecchiaia. Più che esprimere giudizi dovremmo forse allora prendere atto del conflitto insito in ogni crisi e sforzarci di salutare, pur tra tante lacerazioni e disagi, l'opportunità di riaffermare la radice eterna dell'esperienza religiosa separandola dal suo involucro, la Presenza che le dà senso e il suo solo poter essere un aggancio che non si integra ma trascende, che offre al mondo un modello ma rifiuta il modello del mondo, che del mondo accetta la persecuzione ma non la suggestione.
«Il compito dell’era moderna è stato la realizzazione e umanizzazione di Dio», annotava lucidamente Ludwig Feuerbach nei Principi della filosofia dell'avvenire (1843). Allo sforzo antico e mortifero di fare una religione senza Dio o con un dio cosmetico, periferico, di cartone, si oppone l'affidarsi fiducioso al Suo progetto che non è degli uomini ma per gli uomini, affinché non siano prede degli idoli, imperscrutabile nei modi ma chiaro nel suo compimento glorioso. La messa di sempre è la celebrazione di questo bisogno di sempre, di questa verità di sempre.
Stefano Mantegazza - Fonte
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