venerdì 24 settembre 2021

Partecipazione pia, consapevole e attiva ad un Messale sempre in vigore. Al Prof. Grillo, una risposta di Guido Ferro Canale

Sono lieta di pubblicare questo intervento ricco e documentato del prof. Guido Ferro Canale, che aggiunge nuova legna al fuoco dell'acceso dibattito innescato dall'entrata in vigore della TC. Oltre che per nutrire la nostra riflessione potrà servire anche a bilanciare interpretazioni scorrette del documento, frammentarie critiche a Grillo e interrogativi su cosa significhi l'unicità della lex orandi, così sbandierata proprio dal fatidico 16 luglio. Qui un precedente particolarmente significativo, anch'esso per il taglio canonistico oltre che giuridico-filosofico, dello stesso autore: “Traditionis custodes”: Note a una prima lettura. Può essere interessante rispolverare un'altra critica ad Andrea Grillo, considerato la mente dietro al Motu Proprio, di P. Kwasniewski [qui]. Sull'actuosa participatio, qui una mia vecchia riflessione. Qui l'indice degli articoli pubblicati sulla TC.

Partecipazione pia, consapevole e attiva ad un Messale sempre in vigore.
Al Prof. Grillo, una risposta dovuta da tempo

Preambolo
Io nutro un particolare debito di riconoscenza nei confronti del Chiar.mo Prof. Andrea Grillo: sono stato spinto a scrivere il mio primo saggio proprio da un suo intervento su “Il Letimbro”, mensile della Diocesi di Savona-Noli, all'indomani del “Summorum Pontificum”, dove in buona sostanza sosteneva che il vecchio rito, oltre ad essere stato certissimamente abrogato, era “povero” di tutte le novità volute dalla “Sacrosanctum Concilium” e da lui enumerate in bell'ordine. Se egli non avesse attirato la mia attenzione sull'articolato normativo, forse non avrei saputo articolare la tesi che continuo a sostenere fin da allora, cioè che le direttive specifiche di quella Costituzione vanno viste come applicazioni del principio generale di crescita organica sancito all'art. 23... e che la non abrogazione del Messale del 1962 si spiega proprio con la scelta di compiere una riforma di gran lunga più profonda.

Il lettore vede da sé quanto il m.p. “Traditionis custodes” abbia fatto tornare di attualità questo mio debito: essendo stato uno dei principali critici del “Summorum Pontificum” negli ultimi quattordici anni, il Prof. Grillo è necessariamente un interprete molto ascoltato della nuova legge, che a detta di molti (anche sua e mia) sembra scritta proprio sulla traccia dei suoi argomenti. Spero, quindi, di poter contraccambiare il favore che, inavvertitamente, egli mi ha fatto a suo tempo e altresì di evitargli la grave responsabilità di indurre altri in errore su questioni di tanta importanza. Perché, mi spiace doverlo dire, il suo commento al “Traditionis custodes” è sostanzialmente errato sia in termini giuridici, sia rispetto al dato liturgico di cui vorrebbe parlare.

1. Quel che non è abrogato rimane in vigore
Quanto al primo punto, forse mette conto precisare che la formazione iniziale del Prof. Grillo è stata giuridica, presso la mia stessa Alma Mater oltretutto (come del resto abbiamo frequentato lo stesso Liceo), ma ignoro se abbia sostenuto o meno l'esame di diritto canonico, magari con lo stesso Prof. Gomez de Ayala con cui io, temporibus illis ormai, ho inaugurato il mio libretto. Di sicuro gli è rimasto un metodo di lavoro assai apprezzabile, il confronto sinottico tra testi normativi, ma purtroppo non la padronanza dei princìpi generali accolti dal CIC sulla successione di leggi nel tempo, su cui il citato docente non mancava di insistere. Egli, infatti, si esprime come se tutto ciò che del “Summorum Pontificum” non è stato espressamente ripreso in “Traditionis custodes” fosse senz'altro abrogato, dimenticando che il nuovo m.p. limita l'effetto abrogativo ai soli casi di incompatibilità tra vecchia e nuova disciplina... incompatibilità che, in diritto canonico, non si presume, tanto che nei casi dubbi le nuove leggi vanno ricondotte alle antiche (non il contrario) e conciliate con esse in via interpretativa. È quanto ho cercato di fare nel mio commento, che non a caso, pertanto, approda a soluzioni assai diverse dalle sue.
Va anche detto, però, che il Prof. Grillo sembra convinto che TC art. 1, decretando che i libri liturgici riformati “sono l’unica espressione della lex orandi del Rito Romano”, abbia automaticamente abrogati i precedenti, quindi anche la normativa del SP che ne consentiva l'uso. Temo che il termine lex lo abbia tratto in inganno: si può discutere su cosa sia la “lex orandi del Rito Romano” - secondo me in SP andava intesa come la sua unità sostanziale, passibile di una varietà di espressioni – ma di sicuro non ha nulla a che fare con la vigenza giuridica. Infatti, una legge liturgica abrogata non si può più usare e, soprattutto, il suo eventuale utilizzo non è più Liturgia, non attua più il Primo Comandamento offrendo a Dio il culto pubblico, cioè reso in nome della Chiesa tutta. Invece, TC non solo consente che le celebrazioni secondo l'antico Messale – in tesi, abrogato – proseguano, ma prescrivendo “che il sacerdote incaricato abbia a cuore non solo la dignitosa celebrazione della liturgia” in questione, riconosce che quella è e rimane Liturgia.

2. Lex credendi è tutto e solo il Dogma Cattolico
Se in questo caso, come detto, lex orandi non ha un significato giuridico – che del resto non è certo il più comune, pur nella grande varietà di usi dell'espressione – avrà forse una valenza teologica. E tanto sembra intendere, in effetti, il Prof. Grillo allorché definisce “teoria azzardata e contraddittoria” quella sottesa a SP, cioè “l’idea che la stessa 'lex credendi' potesse esprimersi in due 'forme rituali parallele'”.
Definizione a dir poco singolare. Fin dal suo esordio in S. Prospero d'Aquitania, anche se non forse nella ripresa un po' retorica da parte di dom Guéranger contro il Vescovo di Orléans, lex credendi ha un significato preciso e univoco: il dogma, ciò che va creduto per fede. Questo è il senso in cui compare nel Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1124: “La fede della Chiesa precede la fede del credente, che è invitato ad aderirvi. Quando la Chiesa celebra i sacramenti, confessa la fede ricevuta dagli Apostoli. Da qui l'antico adagio: « Lex orandi, lex credendi » (oppure: « Legem credendi lex statuat supplicandi », secondo Prospero di Aquitania [secolo quinto]). La legge della preghiera è la legge della fede, la Chiesa crede come prega. La liturgia è un elemento costitutivo della santa e vivente Tradizione.”. Tuttavia, il medesimo testo rigetta l'uniformità liturgica, cfr. spec. il n. 1201: “È tale l'insondabile ricchezza del mistero di Cristo che nessuna tradizione liturgica può esaurirne l'espressione. La storia dello sbocciare e dello svilupparsi di questi riti testimonia una stupefacente complementarità. Quando le Chiese hanno vissuto queste tradizioni liturgiche in comunione tra loro nella fede e nei sacramenti della fede, si sono reciprocamente arricchite crescendo nella fedeltà alla Tradizione e alla missione comune a tutta la Chiesa.”. Dunque, è perfettamente normale e per così dire fisiologico che la stessa lex credendi dia luogo a una pluralità di forme rituali: lo ha fatto fin dagli albori della storia ecclesiastica documentata. E se fino ad un recente passato ciascuno di questi riti aveva un ambito di applicazione ben delimitato nello spazio, oggi i fenomeni migratori hanno reso consueta anche la loro coesistenza concreta in una stessa città, o perfino in una stessa chiesa: è il caso dell'Abbazia di S. Stefano, a Genova, che ospita sia il rito greco-cattolico ucraino sia il rito romano, oltretutto in entrambe le forme.
Dove sta, per il Prof. Grillo, il problema in tutto questo?
Egli ha sostenuto a più riprese che il Messale del 1962 esprime una teologia superata; sembra anche convinto che “il Concilio” l'abbia voluta superare; si può dunque capire perché adesso scriva che “SP aveva reso marginale ed accessorio il Concilio Vaticano II, TC lo ristabilisce con evidenza nella sua irreversibilità”, anzi, forse perfino la sua idea che sia “vigente e lecita [sic] solo la forma del NO, come ragione e tradizione comandano”. Si tratta però di tesi problematiche per più di un motivo. In primo luogo, ogni rito esprime una propria teologia, che lo distingue da tutti gli altri e fa parte integrante della sua unicità; ma una teologia non è un dogma. Le differenze dogmatiche rompono la comunione, quelle teologiche, nella prospettiva di CCC 1201, sono una ricchezza.
Peraltro, non si può insistere contemporaneamente sulla continuità, sicché quello riformato sarebbe sempre il rito romano, l'erede della sua tradizione etc., e su una pretesa differenza radicale, “per la contradizion che nol consente”.
Non da ultimo, una contrapposizione simile è pane quotidiano di chi rifiuta la comunione con la S. Sede, proprio perché getta dubbi sul rito nuovo, non sull'antico. Nella vita della Chiesa, è sempre la novità a doversi giustificare, mai l'antichità.
E in effetti, in definitiva sembra che il problema si riduca alla giustificazione addotta per la riforma liturgica, sua raison d'être e causa finale: la partecipazione attiva dei fedeli, che sarebbe carente nei riti anteriori.
Siffatta preoccupazione non viene esternata solo o tanto dal Prof. Grillo, ma principalmente dal Papa nella Lettera ai Vescovi. Tuttavia, c'è una differenza importante: di fatto TC continua a permettere la celebrazione dei riti anteriori (tutti) a tempo indeterminato, oltretutto in termini alquanto più ampi rispetto all'indulto del 1984/88, anzi dall'art. 3 si desume che l'unica pregiudiziale è la verifica di adesione al Concilio e ai relativi corollari. Come dire che il Santo Padre, che disponeva di informazioni fornitegli dai Vescovi di tutto il mondo, deve aver ritenuto che il deficit di partecipazione attiva non fosse poi così grave: la sola misura che appare destinata a porvi rimedio è la prescrizione delle letture in volgare, finora facoltative a norma di SP 6.
Personalmente, sono dell'avviso che, almeno nella grande maggioranza delle celebrazioni italiane che sono le uniche di cui abbia esperienza, la actuosa participatio sia addirittura superiore rispetto alla norma statistica del Novus Ordo. Sia perché quest'ultimo è funestato dalla piaga degli abusi, che la S. Sede denunzia ormai da mezzo secolo ma sembra impotente a far cessare; sia perché – sembrerebbe averlo compreso lo stesso Prof. Grillo – la prassi celebrativa Novus si è troppo spesso appiattita sul solo linguaggio verbale, obliterando un po' troppo quegli altri registri espressivi che si trovano invece esaltati nel Vetus. Ed è diversa, non da ultimo, anche la condizione personale dei fedeli: dopotutto una minoranza motivata, ceteris paribus, sarà sempre più consapevole di ciò che fa e del perché.
Su un punto del genere, però, non mi permetto di restare sul generico: il discorso, dopotutto, non va condotto né in astratto né tantomeno per preconcetti, bensì rispetto alle prassi concrete.

3. “Partecipazione”, questa sconosciuta
Non so se il Prof. Grillo abbia mai assistito in vita sua ad una celebrazione autorizzata dal “Summorum Pontificum”, ma mi permetto di dubitarne molto, dato che in tanti anni non lo si è mai visto neppure a quella della sua stessa città... e credo perfino che sia nella stessa parrocchia. Temo, perciò, che sia assai mal informato su queste realtà, fors'anche tuttora influenzato dalle consuete reminiscenze di vecchiette che recitano il Rosario durante la Messa e simili. Ora, si può discutere su quale fosse la prassi liturgica all'inizio degli anni Sessanta. Di sicuro, un Concilio ha ritenuto che fosse insoddisfacente, al punto da render necessario un lavoro di riforma del rito. Egli ha quindi ragione, sul piano formale, quando dice che il Vetus Ordo è “quella forma del rito romano che il Concilio Vaticano II ha deliberato di riformare”. Ma la Messa che concretamente è tornata, soprattutto in virtù del “Summorum Pontificum”, non è quella che forse egli pensa.
In primo luogo, nel 99,9% dei casi la Messa è dialogata, ossia i fedeli recitano ad alta voce tutte le risposte. O le cantano, se del caso; magari con qualche incertezza, ma quelle ci sono sempre. Quindi non si può certo dire che assistano “come spettatori estranei e muti”, secondo l'espressione di Pio XI ripresa dall'art. 48 della “Sacrosanctum Concilium”.
Inoltre, siccome si tende a semplificare parlando di “partecipazione attiva” tout court, gioverà forse ricordare che il medesimo articolo raccomanda una partecipazione pia, conscia et actuosa
Pia, perché si tratta anzitutto di un moto interiore che, mediante i riti e le preghiere, porta ad offrire sé stessi insieme con la Vittima divina, secondo l'insegnamento dell'Enciclica “Mediator Dei”, qui ripreso con studiate coincidenze testuali.
Conscia in un senso più profondo della comprensione intellettuale – sono perfettamente d'accordo con il Prof. Grillo sull'insufficienza di quest'ultima, pur necessaria – perché implica il coinvolgimento personale e diretto nell'azione sacra, composta di segni sensibili ed efficaci della Grazia divina.
Actuosa, che non va banalizzato nel “fare qualcosa” sebbene all'occorrenza lo includa: l'art. 30 della Costituzione conciliare ci dice che, oltre a tutte le attività esteriori, per favorirla conta “anche” il rispetto del sacro silenzio. E quell'“anche”, in latino, è un quoque: non un'eccezione o una concessione, bensì qualcosa che, da solo, pesa quanto tutto il resto messo insieme.
Actuosa, non da ultimo, in un senso molto profondo: la actio principale è una sola, l'offerta del Sacrificio (art. 47); tutto il resto si struttura in funzione di essa (art. 48) e in vista di un coinvolgimento maggiore, anzi massimo, in quello che resta però, per definizione, un atto di Dio. Se il Prof. Grillo andrà mai ad una di queste celebrazioni che gli sono così indigeste – e capisco che l'idea non gli garbi affatto, ci mancherebbe – vedrà fedeli che stanno in ginocchio a lungo, non per un qualche tipo di formalismo, ma per spirito di adorazione.
Li vedrà (Covid permettendo) ricevere la S. Comunione in ginocchio e in bocca non per un qualche tipo di nostalgia, ma per rispetto verso l'integrità dell'augustissimo Sacramento, come una professione di fede nella Presenza Reale... e anche perché la Comunione sulla mano si risolve in un comunicarsi da sé, mentre tutti i segni sacramentali si caratterizzano per un'alterità soggettiva tra chi dà e chi riceve, in quanto debbo anzitutto esprimere la Verità essenziale che nessuno si salva da solo.
Li vedrà vivere le singole cerimonie della Messa, non semplicemente conoscerle a livello intellettuale; ma se vorrà approfondire anche quest'aspetto, resterà sorpreso dal numero di persone che troverà munite di Messalini, che si sono preparate in anticipo a seguire la Messa del giorno leggendone sia i testi sia il commento liturgico e ascetico.
Può, in coscienza, dire lo stesso della prassi celebrativa ordinaria? Temo di no. E non mi fa piacere dirlo, perché parliamo del bene delle anime.
Infine, se vogliamo ancora discutere delle forme rituali, mi sembra che oggi la Messa più vicina alle intenzioni espresse dal Vaticano II sia proprio la Messa del 1962.
Chiarisco subito un punto importante: che la riforma liturgica si sia discostata di molto dal testo della “Sacrosanctum Concilium” è evidente; ma quest'ultima è un atto normativo, non già magisteriale (in termini di dottrina riprende semplicemente la “Mediator Dei”: per questo è detta constitutio senz'altri aggettivi, perché il vocabolo indica appunto le leggi scritte). Ora, siccome il Papa ha esattamente gli stessi poteri di un Concilio, può abrogare qualunque norma da esso dettata e, a fortiori, approvare una riforma liturgica diversa da quella ivi prefigurata. Solo un conciliarista potrebbe dubitare della “validità” o della “legittimità” della normativa risultante; e nessuno di quelli che oggi si chiamano “tradizionalisti” lo è.
Ciò non toglie, comunque, che neppure il Papa possa cambiare il passato. Il Codice di Diritto Canonico, al can. 928, prescrive che la celebrazione eucaristica avvenga in lingua latina aut in un'altra, e il carattere esclusivo della disgiunzione abroga le norme conciliari che prefiguravano una normale coesistenza di latino e volgare nello svolgimento della Messa (cfr. spec. SC 54). però questo non fa dire, “ora per allora”, al Concilio cose diverse da quelle effettivamente dette.
E allora:
  • secondo SC 36, proprio l'indole didattica e pastorale della Liturgia (il titolo in cui si inserisce) richiede che l'uso della lingua latina sia conservato nei riti latini;
  • il sacro silenzio, secondo SC 30, deve disporre di un tempo congruo alla sua importanza;
  • al canto gregoriano va riservato il posto principale (SC 115);
  • nell'omelia, obbligatoria, “vengano presentati i misteri della fede e le norme della vita cristiana, attingendoli dal testo sacro” (SC 52);
  • qui e solo qui si può esser certi “che i fedeli sappiano recitare e cantare insieme, anche in lingua latina, le parti dell'ordinario della messa che spettano ad essi” (SC 54);
  • la partecipazione a tutta la Messa (SC 56) è assicurata: nessuno scappa dopo la S. Comunione. E potrei continuare, ma credo di aver reso l'idea.
Naturalmente, mi si potrà opporre che tutte queste cose sono possibili anche nella Messa di Paolo VI. Verissimo; però sono anche particolarmente rare, specialmente tutte insieme. In ogni caso il mio scopo non è discutere quanto la prassi celebrativa del nuovo Messale sia fedele al Concilio – le indicazioni della S. Sede bastano ad attestare che c'è molto su cui intervenire – ma solo che non ha senso affermare che la libera coesistenza delle due forme rituali comporti di per sé una “marginalizzazione” del Concilio.
Invero, la prospettiva su cui hanno lavorato i Padri conciliari era quella di un mantenimento dell'Ordo Missae di allora, che è appunto quello del 1962, con semplificazioni e adattamenti in punti specifici. La S. Sede ha invece ritenuto di promulgare un Novus Ordo Missae (nome ufficiale, ricordiamocelo). Scelta legittima, come ho detto; ma non c'è da stupirsi se il risultato è assai più lontano dalle indicazioni conciliari di quanto non sia l'Ordo precedente.
Ne consegue, all'evidenza, che l'uso del Messale del 1962 contraddice semmai il Concilio “evento”, la rivoluzione intraecclesiale; ma non certo i documenti né l'effettiva volontà dell'assemblea di Vescovi, cum Petro et sub Petro, denominata “Concilio Ecumenico Vaticano II”. Chi va in cerca di un Vaticano II “altro”, fuori del perimetro delineato dai documenti e dagli atti, cerca o – peggio – contrabbanda un Concilio che non ha consistenza di Concilio, non ha autorità nella Chiesa e, per lo più, nei contenuti corrisponde come minimo a dottrine condannate.
Non vi è dubbio che la preponderanza di voci simili, dagli anni Sessanta in poi, abbia spinto molti a rigettare il Concilio tout court. Mons. Léfebvre e i suoi seguaci si contraddistinguono tuttora per questa posizione, anche se in termini un po' meno radicali dei sedevacantisti. Ma i fedeli che si rivolgono ai loro parroci o Vescovi, per lo più, lo fanno proprio per non gettarsi fra le braccia di soggetti di cui non condividono la posizione. Presentare il m.p. “Traditionis custodes” come un addebito generale, indiscriminato e senza appello significa forzare il dato letterale della nuova normativa, ma soprattutto indurre anime che spesso hanno già incontrato difficoltà di vario genere nella loro vita spirituale a sentirsi respinte dalla Chiesa che amano e in cui desiderano rimanere sia con il corpo sia con il cuore. Se fossi il Prof. Grillo, non vorrei una responsabilità del genere sulla coscienza.
Genova, 24 luglio 2021
Guido Ferro Canale

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