Mi interessa particolarmente il pensiero di Agamben perché non può essere circoscritto alla sola riflessione politica, posto che le sue opere spaziano dai temi dell’estetica o della critica letteraria alla filosofia teoretica o del linguaggio. I suoi contributi recenti ci forniscono chiavi di lettura molto significative della temperie attuale, come quello ripreso di seguito. Più tardi e domani approfondiremo con altri testi sorprendenti.
Intervento al convegno degli studenti veneziani
contro il greenpass
contro il greenpass
Giorgio Agamben, 11 novembre 2021 a Ca’ Sagredo
Vorrei riprendere, per cominciare, alcuni punti che avevo provato a fissare qualche giorno fa per cercare di definire la trasformazione surrettizia, ma non per questo meno radicale, che sta avvenendo sotto i nostri occhi. Credo che dobbiamo innanzitutto renderci conto che l’ordine giuridico e politico in cui credevamo di vivere è completamente mutato. L’operatore di questa trasformazione è stato, com’è evidente, quella zona di indifferenza fra il diritto e la politica che è lo stato di emergenza.
Quasi vent’anni fa, in un libro che cercava di fornire una teoria dello stato di eccezione, avevo costatato che lo stato di eccezione stava diventando il sistema normale di governo. Come sapete, lo stato di eccezione è uno spazio di sospensione della legge, quindi uno spazio anomico, che si pretende però incluso nell’ordinamento giuridico.
Ma guardiamo meglio che cosa avviene nello stato di eccezione. Dal punto di vista tecnico, si ha una separazione della forza-di-legge dalla legge in senso formale. Lo stato di eccezione definisce, cioè, uno “stato della legge” in cui da una parte la legge teoricamente vige, ma non ha forza, non si applica, è sospesa e dall’altra provvedimenti e misure che non hanno valore di legge ne acquistano la forza. Si potrebbe dire che, al limite, la posta in gioco nello stato di eccezione è una forza-di-legge fluttuante senza la legge. Comunque si definisca questa situazione – sia che si consideri lo stato di eccezione come interno o che lo si qualifichi invece come esterno all’ordine giuridico – in ogni caso essa si traduce in una sorta di eclissi della legge, in cui, come in un’eclissi astronomica, essa permane, ma non emana più la sua luce.
La prima conseguenza è il venir meno di quel principio fondamentale che è la certezza del diritto. Se lo Stato, invece di dare disciplina normativa ad un fenomeno, interviene grazie all’emergenza, sul quel fenomeno ogni 15 giorni o ogni mese, quel fenomeno non risponde più ad un principio di legalità, poiché il principio di legalità consiste nel fatto che lo Stato dà la legge e i cittadini confidano su quella legge e sulla sua stabilità.
Questa cancellazione della certezza del diritto è il primo fatto che vorrei sottoporre alla vostra attenzione, perché esso implica una mutazione radicale non solo del nostro rapporto con l’ordine giuridico, ma nel nostro stesso modo di vivere, perché si tratta di vivere in uno stato di illegalità normalizzata.
Al paradigma della legge si sostituisce quello di clausole e formule vaghe, come “stato di necessità”, “sicurezza”, “ordine pubblico”, che essendo in sé indeterminate hanno bisogno che qualcuno intervenga a determinarle. Noi non abbiamo più a che fare con una legge o con una costituzione, ma con una forza-di-legge fluttuante che può essere assunta, come vediamo oggi, da commissioni e individui, medici o esperti del tutto estranei all’ordinamento.
Credo che ci si trovi davanti a una forma di cosiddetto stato duale – attraverso il quale Ernst Fraenkel, in un libro del 1941 che bisognerebbe rileggere, ha cercato di spiegare lo stato nazista – che è tecnicamente uno stato in cui lo stato di eccezione non è stato mai revocato. Lo stato duale è uno stato in cui allo stato normativo (Normenstaat) si affianca uno stato discrezionale (Massnahmestaat, uno stato delle misure) e il governo degli uomini e delle cose è opera della loro ambigua collaborazione. Una frase di Fraenkel è significativa in questa prospettiva: «Per la sua salvezza il capitalismo tedesco necessitava non di uno stato unitario ma di un doppio Stato, arbitrario nella dimensione politica e razionale in quella economica».
È nella discendenza di questo stato duale che si deve situare un fenomeno la cui importanza non potrebbe essere sottovalutata e che riguarda il mutamento della figura stessa dello Stato che sta avvenendo sotto i nostri occhi. Intendo riferirmi a quello che i politologi americani chiamano The administrative State, lo Stato amministrativo e che ha trovato nel libro recente di Sunstein e Vermeule la sua teorizzazione (C. Sunstein e A. Vermeule, Law and Leviathan, Redeeming the Administrative State). Si tratta di un modello di Stato in cui la governance, l’esercizio del governo, eccede la tradizionale ripartizione dei poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario) e agenzie non previste nella costituzione esercitano in nome dell’amministrazione e in modo discrezionale funzioni e poteri che spettavano ai tre soggetti costituzionalmente competenti. Si tratta di un sorta di Leviatano puramente amministrativo, che è supposto agire nell’interesse della collettività, anche trasgredendo il dettato della legge e della costituzione, allo scopo di assicurare e guidare non la libera scelta dei cittadini, ma quella che Sunstein chiama la navigabilità – cioè in realtà la governabilità – delle loro scelte. È quanto oggi sta avvenendo in maniera fin troppo evidente, quando vediamo che il potere decisionale viene esercitato da commissioni e soggetti (i medici, gli economisti e gli esperti) del tutto esterni ai poteri costituzionali.
Attraverso queste procedure fattuali la costituzione viene alterata in modo ben più sostanziale di quanto avvenga attraverso il potere di revisione previsto dai costituenti, fino a diventare, come diceva un discepolo di Marx, un Papier Stück, soltanto un pezzo di carta. Ed è certo significativo che queste trasformazioni si modellino sulla struttura duale della governance nazista e che sia forse il concetto stesso di “governo”, di una politica come “cibernetica” o arte del governo che occorra mettere in questione.
È stato detto che lo stato moderno vive di presupposti che non può garantire. È possibile che la situazione che ho cercato di descrivervi sia la forma in cui questa assenza di garanzie ha raggiunto la sua massa critica e che lo stato moderno, rinunciando com’è oggi evidente a garantire i suoi presupposti, sia giunto alla fine della sua storia ed è questa fine che stiamo forse vivendo.
Credo che ogni discussione su che cosa possiamo o dobbiamo fare debba oggi partire dalla costatazione che la civiltà in cui viviamo è ormai crollata – o, meglio, visto che si tratta di una società basata sulla finanza – ha fatto bancarotta. Che la nostra cultura fosse sulla soglia di una generale bancarotta era ormai evidente da decenni e le menti più lucide del Novecento lo avevano diagnosticato senza riserve. Non posso non ricordare con quanta forza e con quanto sgomento Pasolini e Elsa Morante, in quegli anni Sessanta che ora ci sembrano tanto migliori del presente, denunciavano l’inumanità e la barbarie che vedevano crescere intorno a loro. A noi tocca oggi l’esperienza – non certo piacevole, ma forse più vera delle precedenti – di esser non più sulla soglia, ma dentro questa bancarotta intellettuale, etica, religiosa, giuridica, politica e economica, nella forma estrema che essa è andata assumendo: lo stato di eccezione invece della legge, l’informazione invece della verità, la salute invece della salvezza e la medicina invece della religione, la tecnica invece della politica.
Che cosa fare in una simile situazione? Sul piano individuale, certo, continuare nella misura del possibile a far bene quel che si cercava di fare bene, anche se non sembra esserci più alcun motivo per farlo, anzi proprio per questo continuare. Non credo però che questo basti. Hannah Arendt, in una riflessione che non possiamo non sentire vicina, perché s’intitolava On humanity in dark times, si chiedeva «in che misura restiamo obbligati rispetto al mondo e alla sfera pubblica anche quando ne siamo stati espulsi (era quello che era accaduto agli ebrei nel suo tempo) o abbiamo dovuto ritirarci da essi (come chi aveva scelto quella che con un’espressione paradossale si chiamava nella Germania nazista “emigrazione interna”)».
Credo che sia importante oggi non dimenticare che se ci veniamo a trovare in una condizione simile è perché siamo stati costretti, e che quindi si tratta di una scelta che resta in ogni caso politica, anche se sembra collocarsi fuori dal mondo. Arendt indicava l’amicizia come il possibile fondamento per una politica in tempi oscuri. Credo che l’indicazione sia giusta, a patto di ricordare che l’amicizia – cioè il fatto di sentire una alterità nella nostra stessa esperienza di esistere – sia una sorta di minimum politico, una soglia che insieme unisce e divide l’individuo dalla comunità. Cioè a patto di ricordare che si tratta di nulla di meno che di provare a costituire ovunque una società o una comunità nella società. Cioè, di fronte alla depoliticizzazione crescente degli individui, ritrovare nell’amicizia il principio radicale di una rinnovata politicizzazione.
Mi sembra che voi studenti avete cominciato a farlo, creando la vostra associazione. Ma dovete estenderlo sempre più, perché da questo dipenderà la stessa possibilità di vivere in modo umano.
Vorrei, per concludere, rivolgermi agli studenti che sono qui presenti e che mi hanno invitato oggi a parlare. Vorrei ricordarvi qualcosa che dovrebbe essere alla base di ogni studio universitario e di cui invece nell’università non si fa parola. Prima di abitare in un paese e in uno stato, gli uomini hanno la loro dimora vitale in una lingua e credo che solo se saremo capaci di indagare e di comprendere come questa dimora vitale sia stata manipolata e trasformata potremo capire come siano potute avvenire le trasformazioni politiche e giuridiche che abbiamo davanti ai nostri occhi.
L’ipotesi che intendo suggerirvi è, cioè, che la trasformazione del rapporto con la lingua è la condizione di tutte le altre trasformazioni della società. E se non ce ne rendiamo conto è perché la lingua per definizione resta nascosta in ciò che nomina e ci dà a comprendere. Come ha detto una volta uno psicoanalista che era anche un po’ filosofo: «che si dica resta dimenticato in ciò che s’intende di ciò che si dice».
Noi siamo abituati a guardare alla modernità come a quel processo storico che comincia con la rivoluzione industriale in Inghilterra e con la rivoluzione politica in Francia, ma non ci chiediamo quale rivoluzione nel rapporto degli uomini con la lingua ha reso possibile questa che Polanyi chiamava la Grande Trasformazione.
È certamente significativo che le rivoluzioni da cui è nata la modernità siano state accompagnate se non precedute da una problematizzazione della ragione, cioè di ciò che definisce l’uomo come animale parlante. Ratio viene da reor, che significa «contare, calcolare, ma anche parlare nel senso di rationem reddere, dar conto». Il sogno della ragione, divenuta una dea, coincide con una «razionalizzazione» della lingua e dell’esperienza del linguaggio che permetta di dar conto e di governare integralmente la natura e, insieme, la vita degli esseri umani.
E che cos’è quella che oggi chiamiamo scienza, se non una pratica del linguaggio che tende a eliminare nel parlante ogni esperienza etica, poetica e filosofica della parola per trasformare la lingua in uno strumento neutrale per scambiare informazioni? Se la scienza non potrà mai rispondere al nostro bisogno di felicità, è perché essa presuppone in ultima analisi non un essere parlante, ma un corpo biologico come tale muto. E come dev’essersi trasformato il rapporto del parlante con la sua lingua, perché possa venir meno, come oggi sta avvenendo, la stessa possibilità di distinguere la verità dalla menzogna? Se oggi medici, giuristi, scienziati accettano un discorso che rinuncia a porsi domande sulla verità, ciò è forse perché – quando non sono stati pagati per farlo – nella loro lingua non potevano più pensare – cioè tenere in sospeso (pensare viene da pendere) – ma soltanto calcolare.
In quel capolavoro dell’etica del Novecento che è il libro di Hannah Arendt su Eichmann, Arendt osserva che Eichmann era un uomo perfettamente raziocinante, ma che era incapace di pensare, cioè di interrompere il flusso del discorso che dominava la sua mente e che non poteva mettere in questione, ma solo eseguire come un ordine.
Il primo compito che ci sta di fronte è allora quello di ritrovare un rapporto sorgivo e quasi dialettale, cioè poetico e pensante con la nostra lingua. Solo in questo modo potremo uscire dal vicolo cieco che l’umanità sembra aver imboccato e che la porterà verisimilmente all’estinzione – se non fisica, almeno etica e politica. Ritrovare il pensiero come un dialetto impossibile da formalizzare e da formattare. (Giorgio Agamben - Fonte)
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