Un'altra centrata affermazione di Agamben, che non ignoriamo (ne sono consapevole da decenni) e che fa parte della realtà distopica nella quale siamo immersi. Di fatto ci arrivano dei flash illuminanti e condivisibilissimi, che però sappiamo inseriti in un contesto più ampio e articolato che sto scoprendo ora. Per questo continuiamo la nostra esplorazione, per vedere fino a che punto sia percorribile il contesto e valide le conclusioni da trarne, cui alla fine bisogna pur arrivare:
"I greci conoscevano perfettamente ciò che fingiamo di ignorare, ovvero che è possibile manipolare e controllare una società non solo attraverso il linguaggio, ma soprattutto attraverso la musica. Così come, per un soldato, il colpo di tromba o il battito di tamburo è efficace quanto l'ordine di un superiore (o anche più di esso), altrettanto in ogni campo e prima di ogni discorso, i sentimenti e gli stati d'animo che precedono l'azione e il pensiero sono musicalmente determinati e orientati. In questo senso, lo stato della musica (comprendendo in questo termine l'intera sfera che definiamo inesattamente "arte") definisce la condizione politica di una data società meglio e prima di qualsiasi altro indice; e se vogliamo veramente modificare le regole della city, prima di tutto è necessario riformare questa musica. La cattiva musica che oggi pervade le nostre città in ogni momento e in ogni luogo è inseparabile dalla cattiva politica che le governa." (Giorgio Agamben. Che cos'è la filosofia?, P 102.)
E guardate cosa ho trovato - l'ho inserito di seguito - per cercar di capire il concetto qui accennato di city secondo Agamben, uno dei pensatori più o meno "illuminati" che, per essere in grado di decifrare la realtà attraverso il filo conduttore dei suoi elementi più complessi le cui spinte vengono da lontano, in qualche modo possono avere influenza sulle configurazioni che essa assume... se non mettere in campo possibili correttivi di direzioni ritenute rischiose quando non addirittura disumanizzanti. Richiamo in particolare l'attenzione di Paolo Pasqualucci e Fabrizio Giudici e di chiunque voglia trarne indicazioni significative.
La città e la metropoli
Permettetemi di cominciare con qualche ovvia considerazione sul termine “metropoli”. Esso significa in greco “città-madre” e si riferisce al rapporto fra la polis e le sue colonie. I cittadini di una polis che partivano per fondare una colonia erano, come si diceva, in apoikia – letteralmente in “allontanamento dalla casa”- rispetto alla città, che, nella sua relazione alla colonia, veniva allora chiamata metropolis, città-madre. Questo significato del termine è rimasto fino ai nostri giorni per esprimere il rapporto fra il territorio della patria, definito appunto metropolitano, e quello delle colonie.
Il termine metropoli implica quindi la massima dis-locazione territoriale e, in ogni caso, un’essenziale disomogeneità spaziale e politica, qual è appunto quella che definisce il rapporto città-colonie. Ciò fa nascere ben più di un dubbio sull’idea corrente di metropoli come tessuto urbano continuo e relativamente omogeneo. L’isonomia [uguaglianza di fronte alla legge. Nella filosofia epicurea, stato di equilibrio dell'universo in cui tutti gli elementi si rapportano gli uni agli altri secondo una legge di corrispondenza universale. -ndr] spaziale e politica che definisce la polis è, almeno in via di principio, estranea all’idea di metropoli.
In questa comunicazione mi servirò, pertanto, del termine “metropoli” per designare qualcosa di sostanzialmente eterogeneo rispetto a ciò che siamo abituati a chiamare e chiamiamo città. Vi propongo, cioè, di riservare il termine metropoli al nuovo tessuto urbano che si viene formando parallelamente ai processi di trasformazione che Michel Foucault ha definito come passaggio dal potere territoriale dell’Ancien régime al biopotere moderno, che è, nella sua essenza, un potere governamentale.
Ciò significa che, per capire che cos’è una metropoli, è necessario comprendere il processo che, a partire dal sec. XVIII, porta progressivamente il potere ad assumere la forma di un governo degli uomini e delle cose, o, se volete, di una “economia” (quando il termine “economia” fa la sua apparizione nelle teorie politiche dell’illuminismo, esso significa essenzialmente “governo”. L’esordio dell’articolo di Rousseau del 1755 sull’Economia politica nell’Enciclopedie è perfettamente chiaro in proposito: “Prego i miei lettori “ egli scrive “di distinguere con cura l’economia pubblica che è qui in questione e che io chiamo governo, dall’autorità suprema, che chiamo sovranità”). Una prima definizione che vi propongo è che la metropoli è il dispositivo, o l’insieme dei dispositivi, che si impone sulla città quando il potere assume la forma di un governo degli uomini. La città cessa allora di essere, com’era nel sistema feudale e ancora nell’Ancien régime, un’eccezione rispetto ai grandi poteri territoriali, eccezione il cui paradigma era la “città franca”, e diventa il luogo per eccellenza della nuova figura economico-governamentale del potere.
Non vi è quindi crescita e sviluppo dell’antico modello di città, ma una sorta di rottura storica e epistemologica che coincide con l’instaurarsi di un nuovo paradigma, i cui caratteri si tratta di analizzare. Una prima costatazione è che si assiste qui innanzitutto al progressivo tramonto del modello della polis incentrato essenzialmente sulla dimensione pubblica e politica. Benché la città abbia cercato di difendere come ha potuto la sua originaria natura di organismo politico (e questa resistenza ha prodotto ancora in tempi relativamente recenti episodi di straordinaria intensità politica), è certo però che, nella nuova spazializzazione metropolitana, è all’opera una tendenza de-politicizzante, il cui esito estremo è la creazione di una zona di assoluta indifferenza fra privato e pubblico. Questa neutralizzazione dello spazio urbano è oggi un fatto a tal punto acquisito, che non ci si meraviglia che le piazze e le strade delle città siano trasformate dalle videocamere in interni di un’immensa prigione.
In Sorvegliare e punire, Michel Foucault ha provato a definire il nuovo ordine disciplinare del potere attraverso la convergenza di di due paradigmi, che fin allora erano rimasti distinti: la lebbra e la peste. Vorrei servirmi di questo schema foucaldiano per precisare la mia descrizione dello spazio urbano della modernità.
Il paradigma della lebbra è quello dell’esclusione: si tratta di mettere i lebbrosi fuori della città, di creare una netta divisione fra il fuori e il dentro. L’ideale è qui quello della comunità pura, che costituisce il modello di quello che Foucault chiama il Grand Enfermement. La peste dà luogo a un paradigma completamente diverso. Poiché lo scoppio dell’epidemia rende impossibile escludere gli appestati, si tratterà allora di dividere, sorvegliare e controllare in ogni quartiere ogni strada, in ogni strada ogni casa, e in ogni casa ogni famiglia, i cui membri sono preventivamente registrati. Ogni strada è posta sotto l’autorità di un sindaco, che ne ha la sorveglianza. Nel giorno stabilito, ogni famiglia deve chiudersi nella sua casa, con proibizione di uscirne sotto pena della vita. Circolano soltanto i soldati, i medici e i becchini, a cui è affidato il compito di una sorveglianza e di una registrazione permanente. All’interno della città, le zone sono distinte e articolate secondo l’intensità dell’epidemia, le disinfezioni e le quarantene. Mentre il lebbroso è preso in una pratica di esclusione e di rigetto, l’appestato è incasellato, sorvegliato, controllato e curato attraverso un sistema complesso, in cui le differenziazioni individuali sono effetto di un potere che si moltiplica, si articola e si suddivide. “La lebbra e la sua separazione; la peste e le sue ripartizioni. L’una è marchiata, l’altra, analizzata e suddivisa. Esiliare il lebbroso e arrestare la peste non comportano lo stesso sogno politico. L’uno è quello di una comunità pura, l’altro quello di una società disciplinata. Due maniere di esercitare il potere sugli uomini, di controllare i loro rapporti, di sciogliere i loro pericolosi intrecci”.
Secondo Foucault, il potere politico della modernità risulta dalla convergenza e dalla sovrapposizione di questi due paradigmi. Si tratta di trattare i lebbrosi come appestati e gli appestati come lebbrosi, di proiettare lo spazio articolato e distribuito delle discipline sullo spazio semplice dell’internamento, di individualizzare gli esclusi e di servirsi dei processi di individualizzazione per determinare le esclusioni. Il risultato è la sovrapposizione sulle opposizioni binarie secche (del tipo: inclusione/esclusione; sano/malato; normale/anormale) di una serie di ripartizioni differenziali, di strategie e di dispositivi volte a soggettivare, a individualizzare e controllare i soggetti.
Se applichiamo questo duplice paradigma allo spazio urbano, abbiamo un primo schema per la comprensione del nuovo spazio metropolitano dell’occidente. Si tratta di uno schema complesso, al cui interno i dispositivi semplici di esclusione e divisione (del tipo “lebbra”) convivono con un’articolazione complessa degli spazi e dei loro abitanti (del tipo “peste”), al fine di produrre un governo globale degli uomini e delle cose. L’esperimento forse più esemplare ed estremo di un tale governo globale dello spazio urbano è avvenuto a Genova nel luglio 2001 in occasione del G8. Un’ ordinanza prefettizia distingue nella città zone differenziati: 1) zone rosse di massima sorveglianza, dove, con qualche limitata eccezione, vige il divieto di accesso e di sosta veicolare e i cittadini residenti sono registrati; 2) zone gialle, nella quale sono vietate le pubbliche manifestazioni, il volantinaggio, il transito e la sosta in prossimità di certi luoghi ed edifici.
Con una successiva ordinanza, vengono classificati in blocchi distinti (rosa, giallo, blu e nero) secondo la presunta pericolosità i manifestanti. Dispositivi tradizionali di esclusione, come i cancelli , i muri e i marchi colorati (il giallo è il marchio degli appestati, oltre che quello degli ebrei) si trasformano in dispositivi più complessi, volti a controllare i flussi e ad articolare e distinguere gli individui.
L’esempio di Genova durante il G8 è, naturalmente, eccezionale; ma l’esperienza insegna che è a partire dalla situazione eccezionale che si sperimentano e mettono in opera i dispostivi di governo che diventeranno normali. Alessandro Petti, in un libro recente ( Arcipelaghi e enclave ) ha mostrato che esperimenti di controllo globale dello spazio, basati sulla frammentazione, sul controllo dei flussi e sulla creazione di spazi di eccezione, si verificano non solo nelle città e nei villaggi in Israele e nei territori occupati, ma anche nei nuovi progetti di urbanistica di lusso off-shore, come The world o The Palm Island a Dubai, i cui architetti speriamo che un giorno saranno sottoposti a processo come i medici di Auschwitz.
La metropoli è, dunque lo spazio che risulta da questa serie complessa di dispositivi di controllo e di governo. Ma ogni dispositivo implica necessariamente un processo di soggettivazione, e ogni processo di soggettivazione implica una possibile resistenza, un possibile corpo a corpo col dispositivo in cui l’individuo è stato catturato o si è lasciato catturare. Per questo, se si vuole comprendere una metropoli, accanto all’analisi dei dispostivi di controllo, di distribuzione e di governo degli spazi, è necessario conoscere e indagare i processi di soggettivazione che questi dispositivi necessariamente producono. È perché una tale conoscenza manca o è insufficiente, che i conflitti metropolitani appaiono oggi così enigmatici. Poiché la possibilità e l’esito di tali conflitti dipenderà, in ultima analisi, dalla capacità di intervenire sui processi di soggettivazione non meno che sui dispostivi, per portare alla luce quell’Ingovernabile che è l’inizio e, insieme, il punto di fuga di ogni politica.
Novembre 2007 - Fonte
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