venerdì 24 marzo 2023

Paolo Pasqualucci. Evoluzione senza selezione naturale? Qualche riflessione sulla crisi dell’evoluzionismo.

Pubblico un magistrale lavoro di Paolo Pasqualucci dedicato alla crisi dell'evoluzionismo, vista attraverso la recensione all'opera di un importante citologo portoghese ed esposta in modo semplice e chiaro che rende accessibile a persone di media cultura come noi un argomento così specialistico. L'importanza della tesi del professore portoghese sta nel fatto che,  se si elimina il caso dall'evoluzione e lo si sostituisce col concetto dell'ordine, il neodarwinismo crolla. Il concetto dell'ordine conduce inesorabilmente ad una Mente ordinatrice, il caso non ha nulla a che fare, non si può ammettere. E ciò, a prescindere dalle convinzioni personali (evoluzioniste) del professore in questione. Chi fosse interessato, può scaricare qui la copia in pdf.

Evoluzione senza selezione naturale?
Qualche riflessione sulla crisi dell’evoluzionismo.
di Paolo Pasqualucci*

Nota previa

L’evoluzionismo, nella sua ultima incarnazione – il c.d. neodarwinismo, su base genetica – tiene sempre ufficialmente banco nell’Accademia. Ma non mancano le contestazioni ad alcuni suoi fondamentali dogmi anche se il conformismo dominante impedisce una autentica revisione della teoria. Il presente scritto cerca di impostare un discorso critico dal punto di vista dell’uomo di media cultura, illustrando una teoria considerata eretica dal momento che essa nega validità al concetto di “selezione naturale”. Pur dichiarandosi convinto evoluzionista, il prof. Antonio Lima-de-Faria, illustre citologo portoghese, sostiene infatti che il concetto dell’ordine deve prendere il posto di quello della selezione naturale, se si vuole intendere correttamente il fenomeno dell’evoluzione. Il ricorso al concetto dell’ordine, modo di essere della natura che si attua secondo immutabili leggi fisico-matematiche, non può che aprire interessanti prospettive, anche di tipo filosofico. Infatti, come si può avere un ordine nella natura senza una mente ordinatrice, capace cioè di agire secondo il nesso causa finale-causa efficiente? Può un ordine scaturire dall’ordine, dal suo interno, e mantenersi, senza l’azione di una causalità efficiente e di un disegno razionale, insomma senza l’azione di quella Causa Prima assolutamente trascendente che chiamiamo Dio?
Il discorso sull’evoluzionismo va riaperto. E proprio in base a quell’esigenza di verità che dovrebbe sempre essere a fondamento della scienza. Nonostante sia stato scritto sedici anni fa, oso sperare che questo mio articolo possa dimostrarsi utile alla ripresa di un sempre più necessario discorso critico. Pur senza condividere l’impostazione materialistica ed evoluzionistica dell’illustre citologo portoghese, si deve mettere nel dovuto rilievo, a mio avviso, l’importanza della sua critica al principio della “selezione naturale”, del quale mostra non solo i limiti ma anche la sostanziale incapacità a spiegare il fenomeno dell’evoluzione.
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* Il presente articolo è apparso sulla ‘Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto’, serie V, anno LXXXIV, n. 4, ottobre/dicembre 2007, pp. 501-546. Ringrazio la Direzione della Rivista per aver consentito la presente ristampa in rete.

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Sommario : 1. Introduzione: dal caso all’ordine. 1.1 La morfologia razionale contro il neodarwinismo. 1.2 Le intuizioni di D’Arcy Thompson. 1.3 Al posto del caso, l’ordine. 1.4 Implicazioni del principio dell’ordine. 2. Le principali tesi del prof. Lima-de-Faria. 2.1 Il concetto di “selezione naturale” deve esser espunto dalla scienza. 2.2 L’evoluzione non è un processo unicamente biologico. 2.3 L’evoluzione è auto-evoluzione di “forma” e “funzione”. 2.4 Tutti i fenomeni sono omologhi. 2.5 “Forma” e “funzione” non sono state create da geni e cromosomi. 2.6 L’elemento principale dell’evoluzione è la costanza non la variabilità. 2.7 Non si crea mai nulla di nuovo, l’ordine viene dall’ordine. 3. Autoevoluzionismo contrapposto frontalmente a neodarwinismo. 4. Qualche osservazione finale, ragionevolmente critica. 4.1 Sull’indimostrabilità dell’evoluzione. 4.2 Può esistere un ordine senza uno scopo? 4.3 Milioni di anni o pochi giorni? 4.4 L’improbabile origine biologica dell’etica.

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1. Introduzione: dal caso all’ordine

Nel dibattito scientifico all’interno del campo evoluzionista, hanno acquistato sicuro rilievo le tesi di chi ritiene ormai inattuale il concetto stesso di “selezione naturale”, e ipotizza l’esistenza di una evoluzione senza selezione. È questo il caso del prof. Antonio Lima-de-Faria, illustre citologo portoghese.(1)
Evoluzionista radicale, egli interpreta tutta la realtà nella stessa ottica rigorosamente materialista degli evoluzionisti attuali, i neodarwiniani, eredi, da questo punto di vista, del più vieto meccanicismo positivista. “L’etica ha una base fisico-chimica [non esita a scrivere] allo stesso modo di ogni altro fenomeno biologico” (LF, p. 367). Tuttavia, pur non ricorrendo affatto all’ipotesi del “disegno intelligente”, che implica l’idea di un Dio creatore, egli nello stesso tempo impugna praticamente tutti i dogmi dell’evoluzionismo neodarwiniano. Ed è proprio questo, dal mio punto di vista, il motivo di particolare interesse della sua concezione, che rappresenta un tentativo radicale di svincolare l’evoluzionismo dal neodarwinismo, sempre più in crisi. La sua critica del neodarwinismo è capillare e radicale. Il suo concetto informatore è il seguente : non esiste una Selezione Naturale che operi sulla spinta del caso e della necessità. Il caso in natura non esiste. Esiste invece l’ordine, che proviene sempre dall’ordine. Tutto in natura è ordine, l’evoluzione risulta da una combinazione intrinsecamente ordinata di “forma” e “funzione”, dalla loro “autoevoluzione”.
Questo punto mi sembra molto importante. Il darwinismo, nelle sue varie forme, ci ha abituato a concepire la natura in termini di cieco caso e cieca necessità : in termini sostanzialmente irrazionali e contraddittori. Infatti, non si comprende come l’ordine che pur esiste nella natura, e che i darwinisti non negano di certo, possa essere scaturito dal caso. Il buon senso e la recta ratio ritengono che dal caos primigenio, se dominato dal caso, possa esser scaturito ed essersi perpetuato soltanto il caos, poiché ciò che chiamiamo il caso è impossibilitato a dar vita come tale ad un ordine checchesia. Il regno del caso è quello dell’imponderabile ed accidentale, del tutto indeterminabile. Di esso, come ben disse Aristotele, non si dà scienza.(2) Da questo punto di vista, il libro del prof. Lima-de-Faria rimette le cose a posto. Esso dimostra con numerosi e convincenti esempi come l’ordine regni sovrano nella natura, in modo tale da escludere l’intervento del caso. Assai meno convincente mi sembra invece il suo ragionamento quando egli esclude implicitamene l’esistenza di un Creatore di questo meraviglioso ordine, allorché nega che nella natura ci sia uno scopo checchesia (LF, 331) e quando, perseguendo sino alle estreme conseguenze la sua impostazione evoluzionistica, vuole ricomprendere anche l’uomo, l’uomo nella sua globalità non la sola sua parte animale, nell’ordine universale delle leggi fisico-chimiche, come se tra l’uomo e l’animale o l’insetto non ci fosse differenza alcuna. Di questo aspetto mi occuperò nella parte finale del presente lavoro, preceduta da un inquadramento storico dell’opera del prof. Lima-de-Faria e dalla successiva, sintetica esposizione delle sue tesi fondamentali.

1.1 La morfologia razionale contro il neodarwinismo 
La posizione ed il significato dell’opera del prof. Lima-de-Faria sono ben delineati dal prof. Carrà nell’Introduzione. Essa si riallaccia alla scuola di pensiero nota come morfologia razionale. “Sin dalla sua nascita la teoria dell’evoluzione ha generato uno scontro fra la scuola di pensiero allora dominante, chiamata morfologia razionale, che cercava nelle leggi fisiche la spiegazione della tendenza della natura a generare alcune particolari strutture, e quella che individua nella selezione una adeguata spiegazione della loro esistenza. Con il passare del tempo la seconda ha prevalso sulla prima”.(3)
La scuola che ha prevalso, e che tuttora prevale, con gran fracasso mediatico, è quella dell’evoluzionismo di tipo darwiniano, nota oggi come neodarwinismo o nuova sintesi, che ha cercato di adattare la teoria dell’evoluzione elaborata da Darwin alle successive scoperte della scienza, che sembrano contraddire nettamente quella teoria su diversi punti fondamentali. Come si è giunti alla “nuova sintesi”?
Il “monaco moravo” Gregor Mendel, padre della biologia moderna, concluse le sue esperienze nel 1865, sei anni dopo la prima edizione di The Origin of Species. Egli passò inosservato, per esser poi riscoperto all’inizio del XX secolo. Mendel dimostrò sperimentalmente che “i caratteri (p.e. fiori rossi o bianchi) si incontrano negli incroci ma rimangono distinti, così che riemergono puri nella discendenza degli ibridi [...] Egli calcolò anche che la frequenza dei caratteri rimane costante nelle generazioni successive, cioè che la struttura morfologica delle popolazioni è una invariante, salvo per alcuni possibili fattori di disturbo [...] Questa conclusione rese poco appetibile il pensiero di Mendel negli anni in cui si affermava la Teoria dell’Evoluzione, il cui postulato fondamentale era che la composizione genetica delle popolazioni fosse variante generazione dopo generazione, e addirittura che l’accumulo di quella variazione nei tempi lunghi fosse all’origine delle specie, fosse l’Evoluzione stessa. L’affermazione del Mendelismo corrispose, al principio del Novecento, all’eclissi dell’Evoluzionismo, finché nel periodo tra le due guerre non si giunse ad una composizione tra le due teorie, che si convenne di chiamare la “Nuova Sintesi” (o Teoria Sintetica) dal titolo di un libro di Julian Huxley [...] Darwin era convinto che l’eredità risultasse dal mescolamento di liquidi seminali; ma il mescolamento, gli era stato obiettato, ha l’effetto di dissolvere le variazioni. L’eredità mendeliana è un riassorbimento di essenze che si associano ma non si mescolano, così che un carattere variato ha sempre la possibilità di riemergere. L’idea del mescolamento non era una visione peregrina in Darwin : era un necessario corollario della sua convinzione che l’ambiente agisse direttamente sui fluidi germinali, quando essi si preparavano nel corpo per riversarsi nel seme al momento dell’orgasmo. Le essenze di Mendel non si prestavano a queste influenze e a questi trasferimenti. Esse erano statiche, permanenti e astratte dall’ambiente. In certi circoli furono considerate reazionarie e persino clericali, nate com’erano nell’orto di un prete [...] L’Evoluzionismo si risollevò aggrappandosi al Mendelismo, ma di Darwin non c’era rimasto più nulla, salvo la Selezione Naturale, che l’ultimo Darwin aveva alquanto ridimensionato, e che la genetica ebbe sempre in minor conto. L’accomodamento fu piuttosto equivoco perché le variazioni di Mendel avevano poco a che fare con le variazioni richieste dalla Teoria dell’Evoluzione. In realtà, per Mendel, i caratteri si riassortivano ma non cambiavano, né di tipo né di frequenza [...] Le variazioni di cui si interessano gli evoluzionisti moderni derivano da un processo cieco, la “mutazione”, che Darwin e Mendel ignoravano. L’accumulo di mutazioni diverse è ciò che, secondo la Teoria Sintetica, produce la differenza tra le specie. Naturalmente ciò richiede tempi lunghi e l’opera della Selezione Naturale, che scelga tra le mutazioni le rarissime vantaggiose, le più vitali”.(4)
Ma le mutazioni avvengono improvvisamente e sono in genere nocive o neutre, dal punto di vista dell’evoluzione. Quelle favorevoli all’evoluzione devono esser in pratica inesistenti, se è vero che di esse non si offre mai alcun esempio concreto. Nemmeno il neodarwiniano Oxford Dictionary of Biology riesce a mostrarcene uno : “La maggioranza delle mutazioni sono dannose [sindrome di Down, emofilia, cancro etc] ma una percentuale (proportion) molto piccola [ma quali sono?] può incrementare la condizione dell’organismo, espandendosi nella popolazione per generazioni successive grazie alla selezione naturale. Le mutazioni sono pertanto essenziali all’evoluzione, essendo la sorgente ultima delle variazioni genetiche”.(5)
L’esperienza ha poi accertato, che, in armonia con i mendeliani princìpi dell’ereditarietà, “i caratteri “acquisiti” (o acquired variations) nella lotta con l’ambiente non si trasmettono ereditariamente. Il patrimonio ereditario dell’individuo non è determinato dall’ambiente ma esclusivamente dai cromosomi.(6)   Queste scoperte hanno praticamente tolto ogni consistenza al principio fondamentale del darwinismo, secondo il quale esiste un’evoluzione lentissima, continua ed implacabile, prodotta dalla pressione dell’ambiente, che avrebbe conservato solo le variations utili alla sopravvivenza delle specie, rendendole ereditarie. Le specie sembrano invece esser comparse all’improvviso (nel Cambriano, più di 500 milioni di anni fa) mentre non risultano con certezza da nessuna parte né i famosi “antenati comuni” né le famose “forme intermedie”, note anche come missing links, tra una specie ed un’altra, frutto logicamente necessario del concetto di un’evoluzione costante e lentissima, coinvolgente tutte le specie e ritenuta addirittura capace di produrre nuove specie.(7) Contro l’evoluzione gioca notoriamente anche l’esistenza dei cosiddetti “fossili viventi”, quali ad es. il pesce tropicale celacanto, l’opossum, il mollusco Lingula, sostanzialmente identici ai loro fossili, che si datano a centinaia di milioni di anni fa.(8)  Ciò che darwinisti e neodarwinisti hanno presentato e presentano come “forma intermedia”, per esempio, tra il dinosauro e l’uccello o la scimmia e l’uomo, risulta sempre da interpretazioni alquanto soggettive di incerti reperti fossili o di esistenti strutture anatomiche di determinati organi – l’ala, il braccio, la pinna, la branchia etc - incapaci come tali di dimostrare scientificamente alcunché, in relazione alla supposta evoluzione da una specie ad un’altra. I darwinisti non sono affatto riusciti a dimostrare che certi rudimenti di organi che sembrano presenti in certe specie, siano veramente tali, costituiscano cioè effettivi residui di organi funzionanti in una specie anteriore, ipotizzata come antenata.(9)
Per trarsi d’impaccio, i neodarwinisti da un lato hanno elaborato, con S.J. Gould, la complessa teoria degli “equilibri puntiformi”, che cerca di spiegare perché l’evoluzione, contrariamente al suo assunto base, avverrebbe, come si è ricordato, per salti improvvisi.(10)  Dall’altro, hanno voluto vedere nel gene il centro dell’evoluzione stessa, giungendo ad affermare un vero e proprio determinismo genetico. Nel DNA ci sarebbe già tutto e tutto si spiegherebbe deterministicamente (anche la cultura) secondo un’evoluzione prestabilita nei nostri cromosomi, sempre ad opera della pressione casuale dell’ambiente. Si tratta di una visione panevoluzionista, che si esprime nella forma di un “riduzionismo radicale”, in particolare nelle opere dello zoologo Richard Dawkins, celebre autore di bestsellers scientifici e non. Secondo Dawkins, “le forze evolutive agiscono unicamente sul gene mentre la sua espressione fisica, il fenotipo, si limita a veicolarlo” (LF, xix-xx). Il prof. Dawkins sostiene che la selezione naturale, operando attraverso i geni, mantiene una sorta di “manipolante controllo remoto” sul nostro organismo(11)  Certamente, “non si può negare che questo scenario abbia la capacità di coordinare i singoli fatti biologici in un insieme coerente, apparentemente tetragono alle più valide obiezioni. E ciò anche se sfuggono le ragioni in virtù delle quali dal materiale inorganico si siano formate delle cellule che a loro volta si sono unite o coordinate in strutture dotate di un livello sempre più elevato di organizzazione”.(12)
Ma l’enorme complessità della natura, svelata con impressionante dovizia proprio dalla scienza moderna, non permette di accontentarsi di uno scenario fondato sul semplice caso, all’opera ininterrottamente mediante la “pressione” della supposta selezione naturale.
“L’automatismo dei processi evolutivi esclude [secondo i neodarwinisti] la presenza di un progresso che tenda ad un fine ultimo della creazione che si identifichi ad esempio con l’uomo e con le creature che lo circondano. A questa osservazione si può obiettare che, senza appellarsi alle “cause finali” della teleologia, la differenziazione e l’aumento di complessità che si riscontra nella articolata gerarchia di strutture che presentano gli organismi viventi richiede una giustificazione che vada al di là della semplice casualità”.(13)  È proprio questa l’impostazione della morfologia razionale (razionale, perché non fatta derivare dal caso ma dalle leggi fisico-chimiche). Essa si basa sul fatto che “l’osservazione delle forme naturali rivela la presenza di alcune tipologie particolari, comuni ad oggetti inanimati e ad organismi viventi, la cui formazione non può essere del tutto giustificata attraverso un meccanismo selettivo [cioè ad opera del caso]” (Carrà, LF, xxi).

1.2 Le intuizioni di D’Arcy Thompson
Una prima, approfondita e geniale analisi sistematica di questo razionale disporsi della forma nella natura fu fatta dallo zoologo scozzese D’Arcy Thompson nel suo famoso libro del 1917, intitolato Growth and Form, riedito dalla Cambridge University Press nel 1952.(14)
“L’influenza di quest’opera, precisa il prof. Carrà, sul panorama culturale scientifico si è affermata lentamente e solo oggi viene adeguatamente riconosciuta. Il punto di partenza della sua indagine nasce dal presupposto che per interpretare i fenomeni naturali si debba applicare il rasoio di Ockham, facendo giustizia delle ipotesi non necessarie. E poiché è possibile constatare, o dimostrare, che molte forme naturali incluse quelle biologiche, sono compatibili con le leggi della chimica fisica non dovrebbe essere necessario ricorrere a meccanismi alternativi [come quelli rappresentati dalla pressione di una selezione che opera a caso]. D’Arcy Thompson era del tutto consapevole che tale impostazione lo avrebbe collocato ai limiti dell’eresia poiché si opponeva esplicitamente a quel dogma selettivo che veniva considerato dal convenzionale darwinismo come la risposta universale a tutti i problemi della biologia. Attualmente egli dovrebbe combattere contro la più agguerrita forma moderna dell’idea darwiniana, alimentata dalla genetica e dalla biologia molecolare” (Carrà, FA, xxi).
Che D’Arcy Thompson fosse considerato un “eretico” dal darwin-pensiero dominante, lo si deduce anche dal fatto che il suo capolavoro sia stato riedito dalla Cambridge University Press in forma notevolmente ridotta. In sostanza, sembra essersi trattato di una sorta di censura da parte del curatore, giustificata con l’argomento che le parti soppresse (centinaia di pagine, costituite da interi, corposi capitoli) potevano considerarsi ormai superate. Il fatto è che l’impostazione di D’Arcy Thompson, volta “a spiegare in termini fisici e matematici la crescita e la forma biologiche”, era considerata con ostilità. “Sono idee [quelle dello zoologo scozzese] che nel 1917 erano eretiche, e si deve ammettere che, per ragioni in parte diverse, ancora oggi [1961] lo sono [...] Egli non nega la selezione naturale, ma suggerisce che essa operi soltanto a eliminare le forme non adatte, e non che essa sia la spinta di progresso dell’evoluzione. Egli ritiene che soprattutto sia ingiustificata e irragionevole l’idea che ogni struttura sia un adattamento ereditario, sorto attraverso la selezione : in molti casi egli preferisce considerare la struttura come originata da dirette forze fisiche: molecolari, nelle strutture molto piccole, e meccaniche nelle più grandi (e quindi originata da “adattamenti diretti”). L’eredità e l’azione dei geni sul processo di sviluppo sono completamente assenti dal libro, eccettuati pochi occasionali accenni che, a quanto sembra, vogliono dire che esse non entrano nel suo schema di cose”. (15)
Non si può immaginare, nei fatti, una prospettiva più antidarwiniana di quella dello scienziato scozzese. E difatti il curatore della sua opera si preoccupava di cercare di dimostrare come e qualmente “le eterodossie di D’Arcy Thompson possano venire facilmente ricondotte all’ortodossia”, in una paginetta che mi sembra abbastanza oscura, già per il fatto di presupporre e applicare il concetto di “selezione favorevole”, il cui significato scientifico, da ipotetico che era, sembra sia diventato del tutto nullo dopo la scoperta dell’esistenza delle mutazioni, nessuna delle quali, come si è ricordato, sembra essersi mai rivelata favorevole alla asserita evoluzione delle specie.

1.3 Al posto del caso, l’ordine
Ma in realtà l’opera di D’Arcy Thompson, qualsiasi cosa ne pensassero i neodarwinisti, “ha aperto un programma di ricerche che ha acquistato un respiro sempre più ampio coinvolgendo matematici, fisici, chimici e biologi, inteso ad approfondire la natura di quei processi di auto organizzazione che riflettono la capacità dei sistemi termodinamici aperti ad evolversi spontaneamente [senza bisogno di supporre una “pressione selettiva”], in determinate condizioni, verso stati con un più elevato grado di organizzazione” (Carrà, FA, xxi). I modelli matematici elaborati nel corso di queste complesse ricerche sono giunti a descrivere “processi nei quali emerge un ordine spaziale” (ivi, xxii). Questo, come ho già detto, è un punto decisivo : il riapparire del concetto di ordine, in sostituzione di quello del caso, dogma del darwinismo. Lo sviluppo stesso della scienza impone, dunque, di tornare al principio secondo il quale la natura opera secondo un ordine e nient’affatto casualmente.
Ma l’esser costretti dall’evidenza ad adottare il principio dell’esistenza di un “ordine spaziale” per spiegare “l’auto organizzazione” della natura, implica un’altra seria conseguenza per la teoria della selezione naturale : il venir meno della supposta, illimitata libertà di creazione di forme di vita da parte di un’evoluzione affidata al principio del caso. Il caso, infatti, non può esser costretto entro un numero finito di forme, che si attuino in natura secondo precise leggi fisico-chimiche. Non può, altrimenti cesserebbe per l’appunto di essere il caso e diventerebbe ordine. Questo aspetto essenziale è illustrato con chiarezza dal prof. Carrà.
“È allora legittimo chiedersi se i risultati ottenuti da tali indagini [dalle ricerche più recenti in tema di morfologia razionale] possano avere una ricaduta sulla teoria dell’evoluzione poiché sembrano indicare che la gamma delle variazioni a disposizione della selezione naturale non è infinita, poiché i processi morfologici favoriscono lo sviluppo di particolari e ben definite forme” (ivi, xxii). Ciò significa che le supposte “illimitate possibilità” di evoluzione della natura si ridurrebbero in realtà al “prevalere di alcuni comportamenti privilegiati”. Ciò induce, allora, a ritenere che “i genomi non si limitino a riflettere le pressioni dell’ambiente ma possano anche generare mutamenti e strutture [produrli indipendentemente dalla supposta pressione selettiva]” (ivi).
Di fronte alla divaricazione tra morfologia razionale e teoria delle selezione naturale, sono all’opera oggi (ci ricorda infine il prof. Carrà) varie ipotesi di ricerca volte o a sottomettere l’una all’altra o a trovare un punto d’incontro, un coordinamento tra le due (ivi, xxii-xxiii). Quest’ultima sembra essere quella oggi prevalente nel dibattito scientifico. Tuttavia, essa non coincide con il punto di vista del prof. Lima-de-Faria, il quale, “scienziato di riconosciuta fama e convinto evoluzionista, ci offre con questo volume un contributo personale alla teoria dell’evoluzione, nel quale, attraverso una analisi puntigliosa e dettagliata di diversi fatti mette in profonda discussione il ruolo della selezione naturale. La sua drastica posizione, che rifiuta ogni compromesso dialettico fra strutturalismo e selezione, ritenendola del tutto inutile, lo colloca però in una posizione isolata nell’attuale panorama scientifico. Pertanto non c’è alcun dubbio che quest’opera sia destinata a suscitare discussioni.
Tuttavia, proprio per il suo contributo anticonformista essa merita un’attenzione libera da atteggiamenti pregiudiziali, intesa ad evidenziare quegli spunti che possono contribuire al dibattito menzionato” (ivi, xxiii).

1.4 Implicazioni del principio dell’ordine
Ma la riscoperta o, se si vuole, la riappropriazione da parte della scienza moderna del principio dell’ordine razionale nella natura, mi chiedo, non potrebbe avere conseguenze dirompenti nei confronti delle teorie evoluzionistiche in quanto tali, anche di quelle che respingono l’irrazionale concezione della cieca selezione naturale come agente fondamentale dell’evoluzione stessa? Se infatti si ammette che l’evoluzione dipende unicamente da leggi naturali immutabili, che si ripetono nella combinazione fisico-chimica di “forma” e “funzione”, le conseguenze quali possono essere? Due solamente, a mio avviso, e tra esse contrapposte : o si postula una autoevoluzione della vita, in tutte le sue componenti, secondo le leggi razionali che ordinano intrinsecamente la materia oppure, poiché l’idea di un ordine che si costituisca da se stesso senza un disegno e un fine appare inaccettabile, si postula l’esistenza di un Creatore, che ha pensato ed attuato l’ordine delle leggi che governano la materia. La prima via è quella imboccata dal prof. Lima-de-Faria. Ma, da un punto di vista filosofico, essa ripresenta, a mio avviso, le tradizionali aporie di una concezione materialistico-immanentistica della realtà, che pretenda di spiegare tutto, anche la società e la morale, in termini di autoevoluzione fine a se stessa della materia. In tal modo, ci si manterrebbe sempre (mi sembra) in una prospettiva panevoluzionista, anche se diversa da quella dei neodarwinisti, perché libera dall’ipoteca rappresentata dal principio della selezione naturale.
Ma a proposito dell’evoluzionismo, va ricordato che la teoria della selezione naturale è solo uno dei punti rivelatisi deboli nel suo confronto con l’esperienza. Il concetto di una selezione naturale riguarda la causa dell’evoluzione, concepita paradossalmente in modo acausale ossia fondata sull’azione del caso. Ma per ciò che riguarda la struttura, le interiori connessioni del processo evolutivo il quale, non dimentichiamolo, vuole addirittura rappresentare l’origine delle specie, dall’ameba all’uomo, che cosa c’è di veramente dimostrato? Come si è ricordato, gli “antenati comuni” e gli “anelli intermedi”, per quanto si affannino e strepitino i neodarwiniani, restano del tutto aleatori. Restano delle ipotesi, delle ombre che non riescono a darsi un corpo. E del resto, se l’evoluzione è avvenuta per salti, come possono esserci stati gli uni e gli altri? Le specie mostrano un’origine improvvisa, ed una spiccata tendenza, ripetutamente dimostrata sperimentalmente, non ad evolvere ma a mantenersi, salvo poi estinguersi. In siffatto quadro, la cosiddetta selezione naturale viene ad occupare una posizione del tutto secondaria, di agente che eliminerebbe l’anormalità e la deviazione per mantenere la specie nel tipo, nella norma e quindi in un ordine prestabilito, intrinseco alla specie stessa.(16)  Tutto ciò, mi chiedo, non gioca piuttosto a favore dell’ipotesi creazionista, del “disegno intelligente” di Chi ha voluto creare un ordine stabile? Come si concilia, infatti, l’idea stessa di evoluzione con la comprovata tendenza delle specie a mantenersi stabili?
Quanto poi al venire in essere dell’evoluzione dal caso, quanto al problema della sua origine acausale, quest’ultima risulta notoriamente di difficile concezione dal punto di vista della corretta applicazione del calcolo delle probabilità.(17)

2. Le principali tesi del prof. Lima-de-Faria

Tutto ciò visto, cercherò ora di illustrare sinteticamente le tesi principali dell’autore. Come le introduce l’autore stesso? Nella Prefazione all’edizione italiana scrive di non voler presentare “una nuova teoria evolutiva, al modo di altri lavori sull’argomento”, anche perché “al momento, formulare una teoria dell’evoluzione risulta impossibile”. Infatti, da un lato, “pochi fenomeni in biologia sono così ben stabiliti come il processo dell’evoluzione”, grazie all’impressionante raccolta di dati ad opera di varie discipline. Si ritiene pertanto dimostrata “l’affiliazione filogenetica fra gli organismi e la sua evidente relazione con un crescente grado di complessità” (LF, xxxiii-xxxiv). Tuttavia, e ciò non manca di stupire il profano, “questo risultato è ben lontano dal chiarirci il meccanismo responsabile dell’evoluzione. Nonostante i dati recentemente raccolti a livello molecolare e atomico su molti processi cellulari, ignoriamo ancora quale meccanismo specifico abbia diretto la trasformazione biologica. Si spiega così perché, in realtà, non si è mai avuta una teoria dell’evoluzione. La teoria (come per es. in fisica o in chimica) implica predizioni esatte, ma al riguardo del processo evolutivo non vi è alcun modo di realizzarne. Nessuno scienziato è capace di prevedere, o almeno indovinare, quale specie seguirà a quella umana, oppure cosa emergerà da un’aquila o da un giglio” (ivi, xxxiv).
Quale, allora, il contributo del prof. Lima-de-Faria? “In questo libro si è tentato di raccogliere l’informazione che radica l’evoluzione biologica a quelle, previe, delle particelle elementari, degli elementi chimici e materiali. Punto centrale è che l’evoluzione biologica non va considerata indipendente, quasi fosse un fenomeno sorto de novo dal nulla, ma bensì il prodotto di tre evoluzioni precedenti, svoltesi ai livelli elementari dell’organizzazione della materia. Tutto tende a far ritenere che l’evoluzione della vita sia emersa come conseguenza obbligata della costruzione originaria della materia. Di conseguenza la misura della sua organizzazione come anche i suoi schemi di variazione devono essere stati disposti dalle interazioni fra le particelle che hanno diretto le configurazioni atomiche negli elementi chimici, nei cristalli e nelle macromolecole. In realtà è evidente che cellula ed organismo seguono unicamente le leggi imposte dalla loro ascendenza atomica, anche se al presente ce ne sfugge l’esatta formulazione” (ivi; corsivi miei).
Come si comprende, quindi, che l’evoluzione della vita non dipende dal caso ossia dalla Selezione Naturale? Dimostrando che tale evoluzione è una “conseguenza obbligata della costituzione originaria della materia”, anche se “l’esatta formulazione” delle leggi di questa “ascendenza atomica” non è ancora possibile (ivi). Si resta perciò, annoto, ancora nel campo delle ipotesi anche se suffragate da una messe imponente di dati. Sulla base di una sua precedente ricerca del 1995, l’autore è pertanto in grado di affermare che “la maggior parte delle strutture e delle funzioni biologiche sono risultate obbedienti a una periodicità, vale a dire che compaiono secondo determinati intervalli durante la loro storia evolutiva. Inoltre esse emergono : 1) all’improvviso, 2) in modo non necessariamente correlato all’ambiente e 3) indipendentemente dal grado di complessità dell’organismo in cui si manifestano. Questa osservazione l’ho verificata negli schemi simmetrici dei fiori di molte piante che a intervalli regolari riappaiono entro famiglie geneticamente estranee, ma anche in funzioni animali, come la capacità di volare. Il volo emerse fra gli insetti, i pterosauri, gli uccelli, certi pesci e i pipistrelli. Quello che è significativo, però, è che la medesima funzione ricomparve ogni volta senza che vi fosse una diretta relazione ancestrale col gruppo animale che l’aveva esibita anteriormente; i pterosauri non erano imparentati direttamente con gli insetti, gli uccelli non sono derivati dai pterosauri ed i pipistrelli non hanno alcuna relazione diretta con le precedenti specie volanti. Anche altre funzioni e strutture esibiscono periodicità” (ivi).
Come si può spiegare la “ricorrenza improvvisa” della medesima “funzione”? Dire che è dovuta al caso sarebbe come dir nulla, tanto più che la “ricorrenza” del fenomeno è “periodica” e quindi sembra mostrare la presenza di un ordine all’opera. La “ricorrenza” può essere spiegata “in termini di riarrangiamenti molecolari di cui si sa che ebbero luogo all’interno delle sequenze del DNA dei geni, e che condussero al riapparire di proteine che erano state assenti per milioni di anni”(ivi, xxxv). Ma questa “periodicità”, che riguarda “i cambiamenti molecolari a livello genico” in che rapporto sta “con la periodicità da lungo tempo ben nota degli elementi chimici”? In altre parole : “attraverso quali meccanismi fisici gli atomi continuarono a imprimere alle strutture viventi le stesse soluzioni di base che avevano imposto ai livelli organizzativi antecedenti? Fra queste vi sono la ripetizione, nelle piante e negli animali, delle medesime simmetrie trovate nei cristalli, e il riapparire in tali organismi d’un tipo di periodicità uguale a quello degli elementi chimici”(ivi). Lo scopo della ricerca del prof. Lima-de-Faria è pertanto proprio quello di dare un contributo a siffatta, fondamentale questione, e pertanto “di indicare un’intera area di ricerca che si estende di fronte a noi”(ivi). Vengo quindi alle principali tesi del libro.

2.1. Il concetto di selezione naturale deve esser espunto dalla scienza.
Si tratta di una tesi concettualmente preliminare e per così dire metodologica, tuttavia essenziale alla costruzione dell’autore. Essa risulta dalla critica del neodarwinismo da lui sviluppata nell’Introduzione e nei primi due capitoli dell’opera (LF, xxxviii-xliii, pp. 3-21). La critica è puntuale e capillare. L’autore così riassume “la posizione attuale della teoria sintetica” : 1. Il gene è considerato l’esclusivo agente di evoluzione e differenziazione. L’intero sviluppo embrionale e l’intera evoluzione biologica sono basati esclusivamente sui geni; 2. Il gene è onnipotente, l’origine organica della vita interessa unicamente nei limiti in cui chiarifica l’origine del gene; 3. Si ritiene che gli eventi casuali ed i processi meccanici dirigano l’assortimento e l’associazione dei geni; 4. Si ritiene che la selezione agisca sui geni attraverso il fenotipo dell’organismo [= le caratteristiche percepibili dell’organismo – ODB] e scartando i gameti cui siano capitate le combinazioni “geniche” sbagliate; 5. Ci si concentra solo sugli eventi che accadono a livello delle popolazioni e sullo studio delle sequenze del DNA come livello evolutivo terminale; 6. La casualità viene evocata ogni volta che un fenomeno non è stato chiarito in termini molecolari; 7. L’ordine è un concetto totalmente estraneo a questo approccio. Si suppone che tutte le forme e tutte le funzioni risultino dalla casualità dell’azione del gene e della selezione.; 8. L’origine della forma (per es. delle simmetrie) e quella della funzione non sono considerate rilevanti; 9. L’ambiente esterno viene trattato alla stregua di un’astrazione, non come un’entità fisico-chimica composta degli stessi elementi di cui sono costituiti gli organismi coi quali interagisce; 10. Per ogni nuovo fenomeno manchevole di spiegazione si crea un nuovo tipo di selezione (LF, 17-18).
Quest’ultimo rilievo mi sembra particolarmente grave, dal punto di vista filosofico. Ai dogmi e punti di vista dei neodarwinisti, l’autore oppone “alcune delle scoperte fondamentali della citogenetica molecolare e della biologia molecolare”, che ne dimostrano l’inattendibilità. 1. I geni non cambiano permanentemente come si credeva prima, ma molti si sono conservati essenzialmente identici, dai batteri agli umani. Tra i molti esempi vi sono i geni dell’RNA ribosomiale 28S e 18S [i ribosomi sono corpuscoli di forma sferica che si trovano all’interno di ogni cellula, ove sintetizzano proteine – ODB]; 2. I virus e molti organuli cellulari si sono formati seguendo soltanto le regole dell’autoassemblaggio. La loro costruzione è un processo strettamente chimico [che non dipende perciò dalla cosiddetta “pressione selettiva”]; 3. Il fatto che l’evoluzione appaia “canalizzata” [e quindi ordinata] già in uno stadio molto precoce “nel ciclo proto-cellulare di interdipendenza proteina-DNA-RNA – proteina, proteina-RNA-DNA-RNA-proteina”; 4. L’esistenza scientificamente comprovata delle “mutazioni neutrali”, prive cioè di effetto diretto sull’evoluzione, che possono trasmettersi ereditariamente; 5. La sostanziale costanza lungo l’evoluzione dei tassi di sostituzione degli amminoacidi nelle proteine ; 6. La disparità fra l’evoluzione genetica e quella degli organismi. Per es. gli umani e gli scimpanzé sono identici al 99% nei loro geni, ma appartengono a famiglie differenti [la supposta evoluzione – interpreto – dell’organismo umano da quello della scimmia sarebbe perciò avvenuta indipendentemente dalla rispettiva “evoluzione genetica”]; 7. La dimostrazione sperimentale del fatto che sono stati processi non casuali a guidare l’organizzazione molecolare all’origine della vita : gli amminoacidi sono autosequenzianti [processo che non dipende dalla pressione selettiva e quindi non è casuale]; 8. Il fatto che l’accresciuta conoscenza dei processi fisici e chimici permette ormai di comprendere molti fenomeni che prima erano scarsamente determinati (LF, 19).
Di comprenderli, si capisce, in modo che contrasta quasi sempre con il punto di vista dei neodarwinisti. L’autore richiama poi il celebre giudizio negativo di Popper sul neodarwinismo. Esso non è scienza perché “non è verificabile”. Inoltre : “non ha capacità predittive, contiene argomentazioni ricursive, non fornisce spiegazioni specifiche ai fenomeni fondamentali dell’evoluzione”.(18)  Tra le altre critiche al neodarwinismo condivise dall’autore, mi sembra di particolare interesse quella secondo la quale “il concetto neodarwiniano di variazione casuale implica la falsa opinione che sia possibile tutto ciò che è concepibile”. Tale falsa opinione è correlata all’assunto, ugualmente insostenibile, secondo il quale “il numero delle variazioni sulle quali agisce la selezione è infinito” (ivi). Simili convinzioni, secondo il Nostro, si basano “sull’ignoranza dell’origine della forma e della funzione biologica, quasi fossero nate dal nulla con l’apparire del gene. Se infatti nell’evoluzione tutto fosse possibile, e se le variazioni fossero infinite, l’evoluzione biologica non sarebbe mai occorsa nella sua attuale forma ordinata” (ivi).

2.2 L’evoluzione non è un processo unicamente biologico
La critica specifica al neodarwinismo si trova nella prima parte dell’opera, il cui titolo recita : Non conosciamo il meccanismo dell’evoluzione. Il resto della prima parte (cap. 3, pp. 23-47) spiega il principio dell’autoevoluzione (unica via, come si è visto, per giungere, secondo l’autore, a comprendere il meccanismo dell’evoluzione) in un capitolo che si intitola appunto La base dell’autoevoluzionismo.
Da che cosa è essa costituita? Innanzitutto, dal fatto che l’evoluzione “non può essere considerata unicamente un processo biologico”. Bisogna tener conto anche dello “sviluppo nel tempo dei minerali” e “considerare anche la gravità come uno degli agenti responsabili del costrutto biologico” (LF, 23). Non esiste un inizio della vita che separi l’organico dall’inorganico : “le analisi molecolari conducono all’ineludibile conclusione che la vita non ha inizio, ma è un processo inerente alla struttura stessa dell’universo” (ivi, 24).
L’impostazione anticreazionista del prof. Lima-de-Faria non potrebbe essere più chiara. Ma questo “processo” (ab aeterno) che è la vita, come va colto? Innanzitutto nelle “tre evoluzioni che hanno preceduto e canalizzato l’evoluzione biologica”. Si è scoperto, infatti, che “le particelle elementari, gli elementi chimici e i minerali hanno di fatto avuto un’evoluzione autonoma : vi furono quindi tre evoluzioni separate prima che emergesse quella biologica” (ivi). L’evoluzione deve perciò considerarsi anteriore alla vita, intesa anche nelle sue forme più elementari; essa inizia quando nasce l’universo, con le particelle elementari. Ne consegue che “l’evoluzione biologica risulta vincolata da questi tre livelli antecedenti. La trama dalla quale l’evoluzione biologica non poteva né può allontanarsi è stata tessuta dalle leggi e dalle regole seguite dalle evoluzioni che le sono a monte” (ivi).

2.3 L’evoluzione è autoevoluzione di forma e funzione
Ma perché l’evoluzione, concepita in questo modo (chiaramente rivoluzionario rispetto all’impostazione dominante), deve considerarsi più propriamente autoevoluzione? L’autore, pur scusandosene con i lettori, considera inevitabile servirsi di questo neologismo “per indicare il fenomeno di trasformazione inerente alla costruzione della materia e dell’energia” (ivi, 25).
Questa definizione sembra in verità mantenersi sulle generali. Essa contiene comunque il concetto che le “forme” e le “funzioni” del vivente sono “tutte derivate dalle iniziali proprietà della materia e dell’energia” (ivi, 26). Ciò implica l’isomorfismo, cioè “il mantenimento e la preservazione delle forme di base”, e l’isofunzionalismo, ossia “il mantenimento e la preservazione delle funzioni di base”, ampiamente presenti in natura. Entrambi non giocano un ruolo statico poiché “permettono a nuove combinazioni di imporsi su quelle iniziali” (ivi), senza uscire evidentemente dagli schemi di base. “Nelle piante la foglia contiene la forma e la funzione di base che le permettono di trasformarsi pressoché in ciascuno degli organi vegetali [...] Per di più l’evoluzione delle angiosperme negli ultimi 100 milioni di anni è risultata in un numero esiguo di piani organizzativi del fiore, nonché nell’uso di simmetrie semplici già presenti tra i minerali ed i quasi-cristalli. Anche riguardo ai piani organizzativi di molti invertebrati è possibile dimostrare che derivano da un’unica forma di base [...] Da una semplice curva si possono derivare i quattro principali gruppi tassonomici delle conchiglie dei molluschi”(iv, 27-28). Anche nei vertebrati, “la sequenza strutturale degli scheletri, dai pesci (che furono fra i primi vertebrati) fino agli umani, è stata assemblata [...] in un modo che mette in evidenza trattarsi unicamente di varianti di una rigida forma-base, alla quale non potevano derogare” (ivi, 28). La “forma-base” evolve dunque di per sé, permettendo varie combinazioni ma non deroghe. Per restare agli esempi : le conchiglie dei molluschi sono quattro variazioni di un’unica forma base, sempre presente : la curva. E ciò avviene non grazie al caso o per l’intervento di un Creatore ma in seguito al costruirsi della materia e dell’energia secondo le leggi che ne governano il reciproco rapporto. Autoevoluzione, appunto.

2.4 Tutti i fenomeni sono omologhi.
Il concetto dell’autoevoluzione comporta una nuova definizione del concetto di omologia. Di sicuro, nuova rispetto a quello in auge presso i neodarwinisti. “In natura non esistono né il caso né analogie, ma tutti i processi rappresentano omologie ove è solo il grado dell’omologia a variare. In altre parole, ogni piano organizzativo ed ogni funzione biologica ha i propri precursori nel mondo minerale, chimico e delle sub-particelle. Tutti i piani organizzativi e tutte le funzioni di base hanno una componente minerale che era già evidente prima che il gene e il cromosoma fossero incorporati nel processo generale dell’evoluzione” (ivi, 29, corsivi miei).
Non esistono dunque fenomeni che possano dirsi semplicemente analoghi ad altri, attribuibili al semplice caso e quindi meramente accidentali. Il concetto di analogia viene bandito. “ Secondo il modo di vedere generalmente accettato, la mano di un umano e quella di uno scimpanzé sono da considerarsi omologhe, in quanto si può asserire facilmente che appartengono allo stesso componente scheletrico. Invece l’ala di un uccello e l’ala di una farfalla sono considerate analoghe perché l’insetto non possiede uno scheletro interno e come tale, si suppone, l’organo deve avere un’origine diversa. Sulla base dello stesso modo di pensare, la simmetria radiale d’una stella marina e quella di un minerale sono ritenute puramente accidentali nella loro somiglianza, giacché il minerale non ha geni : non può dunque esservi alcun tipo di relazione” (ivi, 30-31). Secondo questo modo di concepire l’omologia, tipico dei darwinisti, essa è “il risultato dell’origine da un comune antenato”, è una “similarità che si ritiene basata sulla comune origine” (ivi, 31) e “i minerali sono ovviamente esclusi da ogni omologia od analogia con piante ed animali, né sarà concepibile omologia alcuna fra piante ed animali”. I minerali non hanno geni e si credeva che i geni delle piante fossero del tutto diversi da quelli animali (ivi, 31-32). “I piani organizzativi delle agate, degli steli delle piante, delle conchiglie marine e delle corna dei cervi non possono essere collegati a una struttura embriologica o a una linea di sviluppo comune. Per tale ragione l’idea di una qualsiasi omologia è stata rigettata, mentre in alcuni casi le similarità non vengono neppure classificate come analogie dal momento che si trattava di phyla o regni completamente distinti” (ivi, 32). Invece è oggi possibile, continua il Nostro, investigare il grado esatto di omologia “da quando si è compreso che tali strutture e processi embriologici dipendono innanzitutto da fenomeni puramente fisico-chimici e minerali [...] I processi fisico-chimici conferiscono unità a strutture apparentemente prive di relazione” (ivi, 36-37).

Ciò risulta dagli esempi, corredati da belle foto e bei disegni, di isomorfismo ed isofunzionalismo offerti dall’autore. L’introduzione del microscopio elettronico a scansione “ha rivelato che molte cellule hanno un aspetto ovoidale o sferico. Ora, proprio questa forma d’una cellula batterica o d’una pianta, o di un vertebrato, si trova già nel minerale di fiscerite. Se ne deduce che la forma globulare esisteva già, e che dei semplici atomi erano riusciti a produrla prima che il gene facesse la sua comparsa nei batteri e negli altri organismi viventi” (ivi, 37) E che dire della somiglianza tra gli insetti e le foglie? “Il piano organizzativo della foglia esiste già nelle piante, le quali condividono con gli insetti antenati comuni; ma il piano organizzativo della foglia non è originario del mondo vegetale, c’è già nei minerali, come il bismuto puro [che infatti, visto in fotografia, sembra uguale ad una foglia di edera velenosa, stampata al suo fianco, a p. 33]” (ivi). Anche qui “il piano organizzativo era già disponibile a livello atomico prima che il gene venisse alla luce” (ivi). Le “strutture corniformi” che compaiono dapprima nelle piante e poi negli animali, si ritrovano anch’esse tra i minerali. “Gli ammassi curvilinei dei cristalli di clorite consistono di segmenti che esibiscono variazioni specifiche nella misura e nel profilo della curvatura. Queste variazioni sono indistinguibili da quelle che appaiono nelle segmentazioni delle corna di capra” (ivi). Ma l’esempio che mi sembra più straordinario è quello relativo alle “strutture di sostegno”. Vale a dire : “I bastoncelli dello scheletro dell’ala di una cavalletta o le nervature d’una foglia [opportunamente ingranditi] possono difficilmente venire distinti dalle fratture che compaiono sul suolo arido [nell’esempio fotografico, dalle fratture nel fango formatesi con la bassa marea a Mont Saint Michel, in Francia – p. 34]”. Chi avrebbe detto che le somiglianze di questi reticoli non sono affatto casuali? “Il fenomeno basilare che decide il piano organizzativo della ramificazione è già presente nei minerali e nei cristalli” (ivi). Infine, le lunghe zanne del mammut non sembrano riconducibili ad alcuna struttura precedente ed invece “sono quasi identiche nella forma e nella curvatura alle protrusioni del frutto di Martynia lutea e ai profili esibiti dall’argento puro”. E ciò dimostra, secondo l’autore, che “l’elegante forma curvilinea” non ha bisogno di originarsi dai geni animali, “quando si riscontra già con regolarità in una pianta e a livello atomico”, ossia nelle forme curvilinee assunte normalmente dall’argento puro (ivi). L’oro puro allo stato vergine assume invece la forma di una foglia di felce, riscontrabile anche nell’antenna dell’insetto Samia californica e in parte nello scheletro di un rettile arcaico (ivi, 119).
Tutte queste affascinanti ed impressionanti somiglianze e concordanze, che derivano da interazioni per noi arcane, stupiscono la mente del profano. A chi è credente, non fanno sentire l’impronta divina nel Creato, a causa dell’armonia, della proporzione, della simmetria rivelate da tutte queste molteplici forme, appartenenti a realtà fisiche così lontane tra loro? L’opera ne riporta molte altre. Isoformismo : la forza di gravità “determina la polarità delle piante, la quale a sua volta determina la polarità degli organi e dell’ embrione”; il campo magnetico terrestre influenza il disporsi delle particelle, i batteri, gli insetti, gli uccelli; la forma dei minerali evolve secondo determinate regole; i cristalli possiedono “proprietà che di solito sono attribuite agli organismi” : virus e molecole cellulari assumono forme cristalline, i più importanti organelli cellulari (ribosomi, cromosomi, etc) esistono sotto forma di cristallo; i grandi tipi dei modelli vegetali sono già presenti nei minerali (rame puro-forma d’alga, scarica elettrica-sezione di radice etc); ugualmente lo sono i grandi tipi delle forme animali (magnetite/kerosene-circonvoluzioni del cervello umano, solfuro di zinco-suture craniche, cristalli d’acqua-penne di uccello etc). Isofunzionalismo : gli schemi della segmentazione dell’uovo si trovano nelle bolle di sapone; il processo fondamentale della segmentazione somatica è già presente nei minerali; gli scheletri vegetali ed animali, come la circolazione linfatica e sanguigna, hanno un’ascendenza minerale etc.
Tutto ciò è descritto ed analizzato minutamente nella seconda parte dell’opera (LF, 51-204), il cui ultimo capitolo, di capitale importanza per le tesi dell’autore, è dedicato alla “evoluzione delle simmetrie” per dimostrare che “la maggior parte delle simmetrie osservabili negli organismi viventi sono già presenti nei minerali e nei quasi-cristalli” e “che il gene non crea le simmetrie, sceglie soltanto tra di esse” (LF, 183-204).(19)

2.5 Forma e funzione non sono state create da geni e cromosomi.
Sorgendo “da stampi fisico-chimici e minerali di livelli evolutivi precedenti [esse] non possono dunque esser state create dai geni o cromosomi”. Questi ultimi “le influenzarono in modo ben stabilito, come dimostrano gli esperimenti sull’ereditarietà” (ivi, 38). Ma deve esser chiaro che “il gene e il cromosoma non creano nulla”. Il loro intervento è importante ma solo “a livello secondario, laddove si decide quale variante morfofunzionale verrà fissata [...] La maggioranza dei geni produce proteine che si intercalano nella struttura atomica di un dato tessuto od organo, e in tal modo determinano un’alternativa particolare obbligando la struttura ad assumere una delle forme precedentemente disponibili. Il gene rende inoltre possibile la ripetizione della stessa alternativa a ogni nuova generazione ” (ivi, 38-39). Un esempio in questo senso è offerto dalla conchiglia dei molluschi. Essa “è costruita con molecole di carbonato di calcio entro cui si interpone una maglia di proteine simil-cheratiniche. Gli atomi di carbonato di calcio [e non i geni] sono i responsabili della forma-base della conchiglia, mentre la proteina [prodotta dal gene] specifica soltanto se la conchiglia consisterà in una spirale lunga o corta, in una sfera grande o piccola” (ivi, 39).
Questa dunque, secondo l’autore, la funzione del gene (indagata per esteso nel cap. 9 dell’opera, pp. 103-139), limitata alla produzione di proteine che si intercalano nella struttura atomica di un dato tessuto od organo.

2.6 L’elemento principale dell’evoluzione è la costanza, non la variabilità.
Da tutto ciò consegue che la costanza dei fenomeni non può esser relegata nell’ereditarietà (come vorrebbe il neodarwinismo) mentre “la variabilità, caratterizzata da casualità e multidirezionalità” sarebbe “l’elemento principale dell’evoluzione” (ivi, 40). Invece, “quel che veramente risulta fondamentale nell’evoluzione è proprio il processo opposto a ciò che per tanto tempo è stato considerato di primaria importanza: fondamentale è cioè la struttura basilare che mantiene la costanza, giacché è questa a possedere le chiavi d’accesso ai tipi di variazioni che possono avvenire. Se l’evoluzione fosse stata basata sulla variabilità indiscriminata non avrebbe mai avuto corso. Laddove i cambiamenti non fossero stati rigidamente controllati da una trama specifica, l’esito sarebbe stato la disintegrazione totale al sopraggiungere d’ogni nuova modificazione : nemmeno una traccia di organizzazione sarebbe potuta sopravvivere ad un processo tanto caotico. Ecco perché l’evoluzione può esser compresa solo se innanzitutto si analizzano le origini di quelle rigide trame che ne hanno generato la costanza” (ivi, 40-41).

2.7 Non si crea mai nulla di nuovo, l’ordine viene dall’ordine.
Questa stabilità dipende dal fatto che “le forme alla base delle combinazioni risultanti poi in strutture apparentemente complesse”, sono in realtà “poche e semplici”. Per fare un esempio, “il numero dei tipi di cellule presenti negli organi umani è soltanto di 250 circa e ciascuno di questi tipi di cellule deriva da quattro tessuti di base : epiteliale, connettivo, muscolare e nervoso” (ivi, 41). Del resto “l’ordine prevaleva già nella formazione della protocellula”(ivi, 213). Ciò lo si deduce dalla scoperta che, come si è detto, “gli amminoacidi sono autosequenzianti, scoperta questa di importanza cruciale per la creazione di reazioni non casuali e indicativa del fatto che l’evoluzione è autolimitante [e quindi non può dipendere dal caso] ” (ivi).

3. Autoevoluzionismo contrapposto frontalmente a neodarwinismo

Che nessuna forma e nessuna funzione sia stata “prodotta de novo”, ciò costituisce un postulato addirittura elementare dell’autoevoluzionismo (LF, 182). Ciò che sembra a noi un essere nuovo è in realtà il prodotto di una “combinazione”. Il meccanismo della combinazione “opera ad ogni livello : le particelle elementari si combinano per dare nuove particelle, e queste a loro volta si combinano per produrre atomi; ma anche gli atomi si combinano in molecole, e queste si combinano nei minerali [...] Le recenti scoperte molecolari sul gene dimostrano che persino i geni e le proteine si sono evoluti per combinazione “(ivi). La combinazione costituisce l’autoassemblaggio, il quale, secondo l’autore, è il vero modo di procedere dell’evoluzione. Ad esso egli dedica, pertanto, la terza parte dell’opera (LF, 207-234), inoltrandosi poi a considerare analiticamente il rapporto tra evoluzione ed ambiente, per purificarlo dalle deleterie elucubrazioni dei neodarwiniani (parte quarta e quinta, 237-310). L’influenza dell’ambiente sull’evoluzione si deve naturalmente ammettere ma ridimensionata (vedi in particolare il cap. 22, dedicato al tipo di influenza che l’ambiente e lo sviluppo esercitano sui geni : LF, 301-310). Dati i limiti del presente lavoro, non posso seguire lo sviluppo del pensiero dell’autore su questi temi, non meno dei precedenti ricchi di spunti interessanti anche per il profano. Così come non posso soffermarmi sul concetto della forma, che gioca un ruolo essenziale nella visione dell’autore. La forma, infatti, come realtà fisica compiuta e definita, connessa ad una specifica funzione della materia, non implica quella causa formale oggetto della riflessione di Aristotele, in Phys., 194 b, secondo la quale l’idea della statua è il modello, la forma grazie alla quale viene organizzata la materia della statua stessa dall’artefice? E quindi : può concepirsi una forma ordinata dell’esistente che non esprima un’idea presente nella mente di un Artefice?
Assai ricca di interesse è anche la sesta parte dell’opera, nella quale l’autore spiega, sempre mediante l’autoevoluzionismo, “i fatti enigmatici” dell’evoluzione, a cominciare dal principio dell’adattamento, (LF, 313-349). In questa parte vi è un capitolo, il 26°, dedicato alla “sociobiologia”, tanto cara ai neodarwiniani, reinterpretata alla luce dell’autoevoluzionismo (ivi, 343-349). In questo capitolo si trovano i già ricordati riferimenti ai “fondamenti fisico-chimici dell’etica”. L’argomento è però solamente abbozzato perché la “sociobiologia” è ancora un’area di ricerca “dominata dall’ignoranza intorno alla maggior parte dei fenomeni implicati” (ivi, 343).
L’opera si conclude con una settima parte (ivi, 353-393), che ribadisce in puntuale sintesi i princìpi dell’autoevoluzionismo (in numero di cinquantasei, nel cap. 28), riassumendo poi metodicamente nell’ultimo capitolo (il 29°, 369-393) tutti i “postulati centrali” che oppongono irrimediabilmente l’autoevoluzionismo al neodarwinismo. Essi sono ben settantacinque e vengono rappresentati su tre colonne, secondo questo schema, da sinistra a destra per chi legge : Darwinismo e neodarwinismo, Autoevoluzionismo, Brevi spiegazioni del postulato [dell’ Autoevoluzionismo]. Così leggiamo, per esempio, a p. 371, al sesto postulato : “6. La mutazione è casuale [Darwinismo etc]. 6. La mutazione è diretta [Autoevoluz.]. 6. Ogni mutazione è diretta dai vincoli molecolari degli acidi nucleici e delle proteine. Studi recenti sull’evoluzione del DNA dimostrano il carattere canalizzato della mutazione [E questa è la breve spiegazione]”.

4. Qualche osservazione finale, ragionevolmente critica

Fermo restando quello che mi sembra il gran merito degli argomenti del prof. Lima-de-Faria su di un piano più generale, vorrei dire filosofico; il merito, cioè, di aver reintrodotto, sulla base di inoppugnabili fondamenti scientifici, il discorso sul principio dell’ordine come principio che governa armoniosamente tutta la natura; se mi è consentito, vorrei concludere con alcune osservazioni, fatte senza pretesa di completezza. Sul darwinismo in generale mi ha sempre convinto il severo giudizio di Karl Popper, che ne nega il carattere scientifico. L’evoluzionismo può apparire fascinoso e persino geniale, ma resta una costellazione di ipotesi, praticamente impossibili da verificare. Ciò premesso, vengo alle mie osservazioni.

4.1 Sull’indimostrabilità dell’evoluzione.
Si afferma che l’evoluzione esiste come fatto, scientificamente dimostrato, salvo poi ammettere che il meccanismo di questo fatto noi ancora lo ignoriamo. La scienza avrebbe sufficientemente dimostrato il fatto, senza tuttavia conoscerne ancora il meccanismo. A me sembra che un simile modo di giustificare l’evoluzione sia contraddittorio. Come può un fatto, del quale non si conosce ancora il meccanismo, considerarsi scientificamente accertato? Secondo il modo di procedere della recta ratio, non bisognerebbe invertire l’ordine concettuale appena richiamato e quindi stabilire l’esistenza del fatto dell’evoluzione solo dopo aver dimostrato il funzionamento del suo meccanismo? Finché non si è certi di questa dimostrazione, il suddetto fatto non dovrebbe esser retrocesso a semplice ipotesi ancora da verificare?
Ma è possibile dimostrare il meccanismo dell’evoluzione? La dimostrazione dell’evoluzione riguarda il passato e il futuro. Per il passato, essa dovrebbe essere in grado di affermare con certezza che i tempi geologici si sono effettivamente succeduti gli uni agli altri lungo i milioni di anni ipotizzati, che la datazione dei reperti fossili è del tutto sicura, che l’anatomia comparata offre la prova inconfutabile dell’evoluzione da una specie ad un’altra. Checché ne dicano i sostenitori dell’evoluzione, su tutto ciò si è rimasti agli indizi e alle ipotesi, alle teorie. Per il futuro, essa dovrebbe confermare il passato, esser cioè in grado di predire l’evoluzione delle specie, almeno nelle sue caratteristiche fondamentali. Se l’evoluzione esiste e scaturisce dall’interno della realtà, della vita, senza rimandare a un “disegno intelligente” e quindi ad una Causa Prima che la trascenda, la quale potrebbe aver posto dei limiti all’evoluzione stessa, allora l’evoluzione deve continuare, restare indefinitamente aperta, per così dire. E lo scienziato è costretto, per intima coerenza con i suoi presupposti concettuali, a porsi il problema della “specie che seguirà a quella umana” oppure di come evolveranno “l’aquila o il giglio” (LF, xxiv, cit. supra, al § 2).
Simili interrogativi riempiono di stupore l’uomo comune. Dobbiamo forse aspettarci che la specie umana trapassi in qualcosa di nuovo o che da animali e piante spunti Dio solo sa che cosa? L’uomo non è dunque il termine finale del processo evolutivo? E lo stupore diventa smarrimento allorché capiamo che tutta la mirabile conoscenza dispiegata nel mostrare l’ordine all’opera nella natura dovrebbe in realtà servire, alla fine, per ricostruire in laboratorio quel meccanismo dell’evoluzione che non si riesce altrimenti ad acchiappare. Le ultime due proposizioni dei princìpi dell’autoevoluzionismo, esposti nel cap. 28 dell’opera del prof. Lima-de-Faria, recitano infatti : “ (55) L’evoluzione futura non può fare a meno di obbedire all’autoevoluzione che l’ha prodotta fino ad ora. Perciò, quando addiverremo a una conoscenza sufficiente sulla costruzione subatomica, atomica, molecolare, minerale e cellulare, la predizione diverrà possibile nel campo dell’evoluzione proprio come in ogni altro ramo della scienza”; “(56) L’autoevoluzionismo spiana la strada alla sperimentazione che permetterà di ricreare l’evoluzione in laboratorio e di predirne il corso. Una volta raggiunto tale stadio potrà essere formulata una teoria dell’evoluzione dotata di leggi proprie, espresse con equazioni matematiche” (LF, 368).
Mi sbaglio, o siamo all’ennesima riedizione dell’homunculus faustiano? Siamo, comunque, sempre nel dominio della hybris tipica del pensiero moderno e contemporaneo, il quale, avendo rinnegato l’esistenza e l’opera di Dio creatore, crede di poter addirittura “ricreare l’evoluzione in laboratorio e di predirne il corso”. Come a dire : di esser capace di ricreare la natura mettendosi al posto di Dio e di “predirne il corso”. Onnipotenza ed onniscienza dell’uomo, dunque, postosi al centro dell’universo al posto di Dio e nello stesso tempo convinto di discendere dagli animali e dalle piante e di essere uguale agli animali! Ma come si può pensare di poter fare “predizioni” sul futuro dell’evoluzione quando manca ancora la dimostrazione che essa sia esistita per il passato? Che la dimostrazione manchi risulta, come si è detto, proprio dal fatto che il “meccanismo” dell’evoluzione è ancora sconosciuto. La ricerca sperimentale in laboratorio dovrebbe fornirla, questa conoscenza; tuttavia sul presupposto (fallace) che già esista ciò la cui esistenza non è stata ancora dimostrata, ossia il fatto dell’evoluzione.

4.2 Può esistere un ordine senza uno scopo?
Il concetto di autoevoluzione sembra costruito su quello di un ordine obiettivo che tuttavia appare del tutto chiuso in se stesso. Ciò risulta, tra le altre cose, dalla negazione dell’esistenza di uno scopo nella natura. La ripulsa dell’idea di un fine nella natura, da parte del prof. Lima-de-Faria, è funzionale alla polemica contro il neodarwinismo, dal momento che quest’ultimo, pur negando l’esistenza di una qualsiasi finalità nella natura, vuole spiegare ogni forma esistente in base all’utilità, al “vantaggio” che essa presenterebbe per la sopravvivenza del più adatto e quindi in base all’idea dello scopo, quello perseguito dalla Selezione Naturale nell’interesse delle specie. Contro il finalismo attribuito alla selezione naturale (che, pur essendo cieca e sorda, verrebbe così dotata di una capacità di scegliere tra l’utile ed il meno utile, come se pensasse), il nostro autore oppone il fatto che le varietà delle forme (per es. le 18000 varietà esistenti di orchidee) non dipendono da una supposta finalità selettiva ma dalle leggi fisico-chimiche che operano nella materia (LF, 330 e cap. 9); le stesse leggi, a causa delle quali i cristalli che costituiscono i fiocchi di neve, pur apparendo “in migliaia di diverse combinazioni dendritiche”, sono sempre rigorosamente esagonali (ivi, 96).
Tuttavia, dopo aver messo in rilievo l’incongruenza del finalismo dei neodarwiniani, il Nostro afferma che “nulla ha uno scopo in natura. Esiste certamente un’interazione fra le autoevoluzioni dell’ambiente e quelle dell’organismo, e ciò fornisce risultati antitetici. In certe circostanze porta al contrasto; in altre alla coordinazione. È quest’ultima a dare la falsa impressione di uno scopo, ove non si consideri il contrasto. Il filosofo francese Voltaire (1764) aveva già a suo tempo una risposta ironica per tale attitudine medievale : “Dio ci ha dato il naso per sorreggere gli occhiali” (LF, 331).
Dunque, ritenere che la natura sia costituita per un fine, non è altro che espressione di una mentalità “medievale”, cioè cristiana, per definizione (si sa) retrograda ed oscurantista. Secondo il Nostro, già Voltaire avrebbe liquidato questa assurda pretesa, con la fine ironia che lo distingueva. Ma, a prescindere dalla legittimità o meno del richiamo a Voltaire, il problema del finalismo a mio avviso resta, soprattutto per chi è convinto che nella natura ci sia un ordine che tutto pervade.(20)  Può, infatti, esistere un ordine che non sia il risultato di una ordinatio ad finem? Secondo il senso comune e la metafisica classica non può. L’ordine, è sempre ordine per un fine, in relazione ad uno scopo. Un ordine che non sia costituito per un fine, non è più un ordine. Il concetto di ordinatio ad finem riguarda come tale l’azione consapevole più che l’idea dell’ordine in sé e per sé. E tuttavia vi rientra perfettamente poiché l’ordine risulta proprio dalle azioni ordinate (nel nostro caso, quelle della materia nella natura) che fanno vedere la regolarità e la simmetria tipiche di una realtà nella quale trovino applicazione rigorosa determinate leggi.
Si potrebbe ribattere che le azioni delle particelle, degli atomi, della materia, delle piante e degli animali non possono ricondursi ad una coscienza che le ispiri e le guidi. E senza coscienza dell’agire, come può aver luogo quell’azione che consideriamo razionale, proprio perché diretta ad un fine? Ma quelle azioni sono sì prive di coscienza e tuttavia, proprio perché appaiono regolarmente ordinate, esse rivelano l’esistenza di un fine, che è evidentemente posto e mantenuto da un agente che si trova al di fuori e che altri non può essere che la Divinità. Non per nulla, l’agire costante per un fine anche da parte di enti privi del ben dell’intelletto, quali i “corpora naturalia”, costituiva per S. Tommaso d’Aquino proprio una delle prove razionali (la quinta) dell’esistenza di Dio.
“Vediamo infatti che tutti quegli enti che mancano della conoscenza, vale a dire gli enti naturali (corpora naturalia), agiscono per un fine (operantur propter finem). E ciò appare proprio dal fatto che sempre o nella gran maggioranza dei casi (frequentius) agiscono proprio nel modo adatto a conseguire ciò che per loro è l’ottimo. Dal che si deduce che giungono al fine non per caso ma ex intentione. Ma gli enti privi di conoscenza non tendono al fine se non sono guidati (directa) da chi è fornito di conoscenza ed intelligenza, così come la freccia è indirizzata da un arciere. Ragion per cui, deve esistere una qualche intelligenza, dalla quale tutti gli enti della natura vengono ordinati ad un fine (a quo omnes res naturales ordinantur ad finem). E quest’intelligenza la chiamiamo Dio”.(21)
Ragionamento esemplare, direi, nella sua linearità, talmente chiaro da non aver bisogno di commenti. Ma si potrebbe obiettare, a questo punto : qual è questo fine? Se l’esistenza dell’ordine ci fa intendere l’esistenza del fine, non ci chiarisce ancora quale esso sia. Il fine, poiché risulta da un’azione cosciente da parte di chi ha stabilito l’ordine va colto, allora, secondo l’intenzione dell’autore di quest’ordine, l’intenzione dell’arciere che scaglia la freccia, per restare nell’immagine di S. Tommaso. Cosa possiamo capire, di quest’intenzione? Che essa era buona, a giudicare dall’armonia, dall’ordine, dalla bellezza che si vedono nella natura, che appare l’opera di una divinità benefica che ha evidentemente voluto rispecchiare se stessa nella maestà di tutto il creato, dall’immenso cielo stellato al più piccolo protozoo. Come ci rivela la Bibbia, Dio ha voluto creare il mondo per Se stesso, per la Sua bontà e la sua gloria e quindi nel modo bello e armonioso che la scienza oggi ci mostra sin nei minimi particolari, sin nelle più intime fibre della materia. “Universa propter semetipsum operatus est Dominus”.(22)  Inoltre, possiamo capire che Dio ha voluto creare il mondo stabilendo una gerarchia negli esseri, a capo della quale è l’uomo, visto che solo l’uomo gode dell’anima, del pensiero e di una volontà razionale, capace di dominare gli istinti, sia pure a fatica.
Tralascio qui di proposito ciò che la Chiesa insegna sul peccato originale e sulle sue conseguenze per ciò che riguarda il rapporto tra la ragione e gli istinti, che ne risulta sempre squilibrato e bisognoso dell’aiuto della Grazia per orientarsi al bene. Lo tralascio, perché qui ciò che mi preme è semplicemente rammentare come l’uomo appaia comunque fornito per natura di determinate capacità, di pensare e di parlare, di agire razionalmente, che lo pongono in una posizione del tutto particolare ed unica, di evidente superiorità, nell’ambito dell’ordine rappresentato dalla natura. E poiché in questa posizione l’uomo non si è posto da solo, con le sue sole forze, è legittimo ritenere che ciò abbia costituito uno degli scopi per i quali l’ordine stesso è stato voluto e posto in essere dal Creatore.
Ma non è finita. Se l’idea dell’esistenza dell’ordine, ampiamente suffragata dall’esperienza, implica intrinsecamente quella del fine, quest’ultima, a sua volta, comporta quella della causa, termine e concetto che non mi sembra ricorrano di frequente nell’opera del prof. Lima-de-Faria. Il fine è infatti causa di ciò di cui è il fine, causa finale.(23)  Ma la causa finale, non implica a sua volta quella efficiente, dal momento che il fine compare all’esterno grazie all’azione volta a conseguirlo, risultando da un proponimento che si traduce in pratica mediante la volontà?(24) E la connessione causa efficiente-causa finale rinvia a sua volta, sul piano logico, all’idea di una Causa Prima, cioè all’idea di Dio creatore, che è indispensabile per conferire alla causalità universale un significato compiuto, conforme a ragione.
Da tutto ciò bisogna concludere che l’ordine della natura, dal prof. Lima-de-Faria così ben mostrato e dimostrato, non può prescindere dall’idea del fine, che ne garantisce la razionalità collegandolo al principio di causalità. Rifiutando quell’idea, l’ordine verrebbe ad esser giustificato nuovamente dal caso. Tertium non datur. E l’idea del fine ci costringe a reintrodurre il principio di causalità, in tutta la sua pienezza. In conclusione : se si rifiuta l’idea del fine, l’ordine appare privo di fondamento e si dovrebbe riammettere che esso si fonda sul caso, il che sarebbe assurdo. Se la si accetta, come è giusto e logico, grazie al ristabilirsi del principio di causalità, da essa implicato, si deve ritornare ad ammettere l’idea di Dio come causa ultima (in realtà prima) dell’ordine stesso. Ma di ciò la scienza contemporanea, ostinatamente fedele ai suoi presupposti materialistici anche contro quello che le sue stesse scoperte fanno vedere, non vuole sentir parlare; contro ogni logica, non vuole ammettere che l’opera presuppone l’Artefice.(25)

4.3 Milioni di anni o pochi giorni?
Se gli evoluzionisti non sono riusciti a fornirci la prova dell’esistenza dell’”antenato comune” o degli “anelli intermedi”, un elemento fondamentale per la loro teoria sembra per lo meno esser stato assodato : l’enorme durata del processo di formazione della terra, nei suoi vari strati geologici e nelle forme di vita (dai cinque ai sei miliardi di anni, dicono), da inquadrarsi nella non meno enorme distanza che ci separa dall’inizio dell’universo, dal cosiddetto Big Bang, che si ipotizza aver avuto luogo circa quindici miliardi di anni fa. La mostruosa durata del processo di formazione della creazione, sino all’uomo, è stata sempre ritenuta il fatto insormontabilmente avverso al racconto biblico della Creazione, tale quindi da contrapporre senza speranza fede e scienza. 
Tuttavia, la contrapposizione non sarebbe in realtà insuperabile come sembra. Per qual motivo? Perché nel 1909, regnante S. Pio X, la Commissio de re Biblica, istituita da Leone XIII il 30 ottobre 1902, rispondendo a svariati quesiti sul carattere storico dei primi capitoli della Genesi, affermava, al n. 8, esser lecito agli esegeti “libere disceptare” se la voce ebraica Yôm, impiegata nel primo capitolo della Genesi per descrivere i “sei giorni” della Creazione, dovesse intendersi “in senso proprio, come giorno solare (pro die naturali) o in senso improprio, come periodo indeterminato di tempo (pro quodam temporis spatio)” (DS, Ench. Symb., 3519). Il termine ebraico infatti possiede entrambi i significati.(26)
Nel concedere agli esegeti la possibilità di intendere il biblico Yôm come indicazione di un’era o aetas, S. Pio X non contraddiceva per nulla l’insegnamento del Magistero precedente. Che la Creazione fosse durata sei giorni, lo si è sempre creduto spontaneamente, intendendo il testo sacro nel modo più semplice e immediato, sul correttissimo presupposto che l’Onnipotenza divina, non soffrendo limiti di sorta, se lo avesse voluto, avrebbe potuto creare il mondo e l’uomo anche in una sola piccolissima, istantanea unità di tempo. Ma i “sei giorni” non hanno mai costituito dogma di fede. Il dogma riguarda la fede ed i costumi, cioè le verità di fede in senso stretto e la morale, non verità di tipo scienifico. Nel nostro caso, il dogma riguarda la fede perché è quello dell’inerranza dei Testi Sacri, che non possono contenere errori di nessun tipo, dal momento che sono stati ispirati dallo Spirito Santo e quindi hanno Dio come autore. Ma allora, si chiederà qualcuno, perché la Scrittura ci lascia nel dubbio circa l’effettiva durata della Creazione, se di pochi giorni o di periodi indeterminatamente lunghi? Possiamo, al proposito, fare solo delle ipotesi. Una può essere la seguente : Dio ha voluto darci un testo conciso, che riassumesse brevemente quello che Egli aveva fatto, senza dilungarsi troppo nei particolari, senza svelarci in alcun modo il “meccanismo” della Creazione, affinché la nostra mente non credesse stoltamente di poter penetrare un giorno i segreti divini, perdendovisi. Il nostro Dio, che è l’unico e vero Dio, Uno e Trino, è un Deus absconditus, che parla anche per enigmi (per es. in alcuni passi dei libri dei Profeti) o in senso figurato, lasciandoci inoltre liberi di scegliere tra due interpretazioni possibili nel caso di certi argomenti secondari (secondari, poiché non riguardano una conoscenza o un comportamento indispensabili alla salvezza della nostra anima, pur concernendo profondi misteri divini, quali l’evento della Creazione del mondo dal nulla).
Nessun attentato, perciò, al dogma dell’inerranza dei Sacri Testi da parte del cattolico che volesse intendere i sei giorni della Bibbia come altrettanti periodi di tempo, aetates, ere, non dissimili da quelle che si qualificano oggi come “tempi geologici”. Si può anzi affermare che il parere sopracitato della Commissione Biblica autorizzasse di fatto gli studiosi cattolici a tener conto degli argomenti della scienza sul problema della durata della creazione del mondo e dell’uomo.
Tutto a posto, allora? Non sono infatti mancati e non mancano tentativi da parte di studiosi cattolici di far rientrare i sei giorni biblici nello schema dei tempi geologici ipotizzati dalla scienza moderna. Grazie alla possibilità di un’interpretazione più elastica, si potrebbe infine realizzare il tanto auspicato accordo tra scienza e fede?
In realtà, le cose non sono affatto così semplici. La Bibbia parla di creazioni successive tra loro indipendenti, non di un’evoluzione interna al vivente. Bisognerebbe riuscire a conciliare il creazionismo della Bibbia con l’evoluzionismo professato dalla scienza contemporanea, che sembra esprimere una visione sostanzialmente panteistica della realtà, senza peraltro rinunciare al tradizionale meccanicismo di origine positivista. Impresa piuttosto ardua, come ognuno può vedere.
Ma d’altro canto, siamo assolutamente sicuri delle periodizzazioni e datazioni che la scienza ci prospetta? Il dubbio è lecito. Ritorniamo al testo del prof. Lima-de-Faria. Nel cap. 21 egli spiega “le trasformazioni acqua-aria”. Circa quelle che riguardano anfibi, come rane e salamandre, egli scrive : “Nei primi stadi del loro sviluppo gli anfibi come le rane conducono vita acquatica, e possiedono anche le caratteristiche morfologiche e fisiologiche dei vertebrati acquatici : la forma del corpo, con la coda piatta, e branchie esterne che permettono la respirazione in acqua, ne sono gli aspetti principali. La trasformazione dell’animale adulto che vive sulla terraferma non è dovuta ad alcuna pressione selettiva, ma è indotta da una singola e semplice sostanza chimica prodotta all’interno del corpo della rana. Tale trasformazione evolutiva che viene di solito descritta come il paradigma classico della “conquista della terraferma” da parte dei vertebrati, è raggiunta grazie a una decuplicazione dei livelli dell’ormone della tiroide nel sangue del girino. La piccola molecola è responsabile di cambiamenti irreversibili che obbligano l’animale a passare da un modo acquatico di vita ad uno terrestre. La trasformazione comprende il riassorbimento della coda, il passaggio alla respirazione polmonare e altre drastiche modificazioni all’interno del corpo. Tale scoperta è stata confermata da diversi esperimenti [...] Le osservazioni e gli esperimenti su altri gruppi di anfibi rivelano che tale fenomeno è il risultato sia d’un messaggio chimico interno, sia di un segnale chimico esterno” (LF, 283). Il segnale “esterno” può venire anche dall’ambiente, nel senso che la composizione chimica dell’ambiente (acqua o aria) funziona da stimolo o segnale per determinati cambiamenti.
Il caso più interessante è quello dell’axolotl, una salamandra che vive nel continente americano. Le sue larve sono acquatiche ma quando “raggiunge lo stadio adulto, diventa terrestre : le branchie scompaiono e l’animale acquisisce i polmoni, inoltre la coda si fa cilindrica [...] Quel che è significativo dal punto di vista evoluzionistico è che la differenza fra i due stadi è così grande che le larve acquatiche e le forme terrestri furono classificate come specie diverse” (ivi, 284). Invece, non è così. Somministrando ormoni alla forma acquatica si vide che si trasformava in quella terrestre. Ed eccoci al punto : “ Dunque, animali che si pensava rappresentassero specie differenti e persino generi diversi, separati come risultato di migliaia di mutazioni casuali, all’improvviso risultarono essere lo stesso organismo. Invece di avere bisogno di milioni di anni di evoluzione, un animale dalla forma idrodinamica e dalla respirazione acquatica poteva essere trasformato, per opera di semplici segnali chimici, in un’altra creatura dotata di forma aerodinamica e respirazione polmonare. Nessun cambiamento coinvolge la costituzione genetica di base, dacché si ha a che fare qui col medesimo animale. Ciò che l’esperimento dell’ormone rivela è che trasformazioni strutturali e funzionali drastiche attribuite a modificazioni che portano all’emergere di generi distinti, possono venir prodotte senza cambiare la costituzione genetica. Invece, l’intervento di molecole regolatrici è in grado di creare in qualche giorno quello che si supponeva richiedesse tempi geologici” (ivi, corsivi miei). Invece di “tempi geologici” ossia di milioni di anni, qualche giorno. Una cosuccia da niente, questo cambiamento di prospettiva, indotto da un’esperienza scientifica più accurata. Con queste precise osservazioni, che non si limitano agli anfibi (ivi, 285-292), il prof. Lima-de-Faria fa vacillare una delle credenze fondamentali dell’evoluzionismo : quella dei molti milioni di anni che avrebbe necessariamente richiesto la “conquista della terraferma” da parte degli anfibi, sotto la spinta casuale della selezione naturale. Mi chiedo, allora : se pochi giorni possono esser bastati per la “conquista della terraferma”, non possono pochi giorni esser bastati anche per altre “evoluzioni” ipotizzate in centinaia di milioni di anni?
Allora : giorni o ere? Come dobbiamo intendere il dettato della Bibbia? La Chiesa ci consente di rivolgerci su questo punto alla scienza, ma la scienza è capace di darci una risposta definitiva? Sembra di no, se i milioni di anni possono legittimamente esser ridotti a pochi giorni.

4.4 L’improbabile origine biologica dell’etica.
Vengo ora alla mia ultima osservazione. Abbiamo visto che il prof. Lima-de-Faria interpreta materialisticamente l’origine dell’etica. L’etica non è “connessa con un’astratta selezione”, come sostengono i neodarwiniani, che la fanno (sempre materialisticamente) discendere dalla pressione dell’ambiente sui geni. Essa, invece, “ha una base fisico-chimica, proprio come ogni altro fenomeno biologico”. Ciò significa che “i motivi della lotta umana per la giustizia e la verità vanno cercati nei segnali fisici e chimici che circolano nel corpo umano”.(27)  Il comportamento dell’uomo non si distinguerebbe perciò da quello dell’animale, dal momento che dipenderebbe anch’esso, in misura determinante, da “segnali fisici e chimici” e quindi da un processo di “informazione chimica” che guida “l’autoassemblaggio”, a livello cosmico addirittura. “Le società degli animali e degli umani sono tenute insieme dalla comunicazione e dall’assemblaggio di tipo fisico e chimico”, anche se “all’interno di esse gli individui mantengono la propria autonomia e l’affermano opponendosi al gruppo, come nelle rivoluzioni, nelle migrazioni verso altri paesi, e nella formazione di comunità separate.
L’autoassemblaggio è il fenomeno che porta all’unificazione. Si estende dalle particelle elementari alle società umane. Si realizza nella costruzione di unità ben definite. L’autonomia è il fenomeno che conduce all’indipendenza. Anch’essa si estende dalle particelle elementari alle società umane. Si realizza nel mantenimento dell’individualità. Ecco perché nell’evoluzione biologica l’organismo non è mai completamente adattato né a se stesso né all’ambiente” (ivi, 314 e tutto il cap. 15, 227-234).
Determinismo solo apparente, allora, quello che traluce dal principio dell’autoevoluzione, se resta un margine all’individualità per realizzare se stessa. E tuttavia la dialettica di “autoassemblaggio” ed “autonomia” sembra a sua volta apparente, se riposa sempre, in ultima analisi, sulle leggi fisico-chimiche della materia, senza richiamarsi mai ad un elemento spirituale, ad un libero arbitrio, ad una volontà.

Ma vediamo alcuni esempi dell’azione di questa base “fisico-chimica”. Citando autori del positivismo di inizio Novecento, il Nostro concorda sul fatto che la “maggior parte dei nostri istinti” hanno un fondamento fisico-chimico. “Una donna ama e si prende cura dei suoi bambini non per il fatto che gli psicologi ritengono che si tratti di un comportamento desiderabile, ma perché è obbligata a far così una volta che certi processi fisico-chimici procedono all’interno del suo corpo. Anche la nostra lotta per la giustizia e la verità non ha un’origine diversa” (ivi, 344).
Dunque, l’istinto materno, che spinge la donna ad una cura amorosa e piena di diletto per i propri figli, in particolare quando sono piccoli, non rivelerebbe alcun nobile sentimento, né alcun motivo etico, nemmeno come causa parziale o concausa. Non rivelerebbe niente di puramente spirituale. Si tratterebbe solo di “processi fisico-chimici all’interno del corpo della madre”. E quali sarebbero? L’autore non lo dice. Gli esempi che fa subito dopo riguardano in prevalenza l’attrazione sessuale nelle specie. Vorrei sapere, a questo punto : in base a quale “processo molecolare” certe madri si sacrificano per i propri figli, sino a donare la loro vita per loro? E nel caso opposto, di madri snaturate, come si suol dire, che non si prendono affatto cura dei loro figli, cosa dobbiamo dire : che qui è all’opera un “processo fisico-chimico” di segno opposto? Che la chimica interna della madre snaturata è diversa da quella della madre che si prende cura dei propri figli? Diversa ed anzi opposta? Si vede chiaramente, a mio avviso, che il tentativo di spiegare materialisticamente il sentimento e la morale, mettendoli sullo stesso piano dell’istinto, obbliga a conclusioni perlomeno stravaganti.
Ogni istinto ha dunque “un’origine molecolare”. È un “impulso al quale l’animale non può resistere, poiché ha un’origine strettamente chimica” (ivi). L’origine molecolare dell’istinto, tale pertanto da produrre un impulso irresistibile, la scienza è stata in grado di ricostruirla per ciò che riguarda gli animali e gli insetti, in particolare in riferimento all’accoppiamento.
“Nei topi, un feromone prodotto dai maschi viene individuato dagli organi olfattivi delle femmine. Tale sostanza influenza la produzione di gonadotropina nelle femmine, e dà per risultato l’accorciamento del ciclo estrale e la sincronizzazione della copulazione con l’estro. Anche le secrezioni vaginali dei primati, fra cui le scimmie rhesus e gli umani, contengono acidi alifatici a catena corta che inducono alla copulazione”.(28)  Una simile trasmissione di “informazione chimica” si ha anche presso i cervi e tra verri e scrofe. La saliva dei maiali maschi “contiene un idrossisteroide che condiziona il comportamento sessuale della femmina, al punto che il suo solo odore è sufficiente ad influenzare il ciclo estrale” (LF, 231). Ovviamente, “la comunicazione chimica fra gli umani è stata ampiamente studiata. È stato ad es. condotto un esperimento di comparazione fra la sensibilità olfattiva degli uomini e delle donne, da cui sortì che quest’ultime sono cento volte più sensibili all’esaltolide, una sostanza simile per composizione chimica al muschio sessuale maschile. In particolare, sono ancor più sensibili ad esso durante l’ovulazione, e se la capacità olfattiva si estingue completamente nei soggetti le cui ovaie siano state asportate, si ripristina ove ricevano iniezioni dell’ormone sessuale femminile, l’estrogeno”(LF, 231). La “comunicazione chimica” viene a noi anche da altre fonti. “Il ciclo estrale delle donne è influenzato da certe sostanze chimiche prodotte dai fiori delle piante di Humulus utilizzate nella produzione della birra [...] mentre si è scoperto che la sincronia del ciclo mestruale delle ragazze che vivono in residenze studentesche dipende da fattori ambientali” (ivi, 232), che non vengono tuttavia specificati dall’autore. La fonte rappresentata dal nostro stesso corpo resta comunque prevalente. “Gli odori vaginali umani sono composti da almeno 30 sostanze chimiche derivate da tessuti e ghiandole distinti di quest’organo. I profumi hanno giuocato fin dall’antichità un ruolo importante nella comunicazione umana, e oggi più che mai le aziende cosmetiche inondano il mercato con nuove fragranze. Alcune di esse sono basate sugli estratti degli organi sessuali degli animali (come il muschio) e sui feromoni umani (come gli acidi grassi delle secrezioni vaginali conosciute col nome di copuline)” (ivi, 232-233).
L’attrazione tra i sessi deriva quindi unicamente da questi poco romantici effluvi? Passi per gli animali, ma per gli esseri umani? E, più in generale, cosa resta, in questo quadro, dei “fattori psicologici, storici e politici” che si invocano normalmente per spiegare il comportamento degli uomini in società? Questi fattori, afferma implacabile il prof. Lima-de-Faria, “possono essere a loro volta ridotti a processi fisico-chimici col progredire della nostra conoscenza”(ivi, 233). E fa quest’esempio. Le cause del differenziamento degli aggregati sociali dipendono dalla disponibilità di terra e di cibo. La loro scarsezza provoca le emigrazioni e la fondazione di nuove nazioni. Ebbene, protozoi come le amebe si comportano esattamente allo stesso modo. Se scarseggiano i batteri dei quali normalmente si nutrono, esse migrano e si autoassemblano secondo “uno schema ben definito”, con le sue specializzazioni (ivi, 233-234). Da questo punto di vista, “gli umani non sembrano lontani dai protozoi. In entrambi i casi l’approvvigionamento di cibo ha regolato la migrazione, il tipo di funzione e le caratteristiche della comunità” (ivi, 234).
Si tratta di un semplice paragone. L’autore, quasi volesse scusarsi, precisa “di non sostenere l’identità fra le società umane e quelle degli altri animali”. Egli sta solo cercando di impostare “un approccio fisico-chimico che aiuti a capire meglio la formazione e lo sviluppo della società umana” (ivi). Ma in questo “approccio”, egli propone poi una spiegazione dei fatti dello spirito, sentimentali e morali, che sembra riprodurre, riveduto e corretto alla luce dei progressi della scienza, il vecchio meccanicismo di origine positivista. Cos’è infatti l’altruismo, dal punto di vista del prof. Lima-de-Faria? Non lo si può spiegare con la selezione naturale ma solo con la componente fisico-chimica. “Il meccanismo responsabile dell’altruismo va ricercato nella costituzione fisiochimica della cellula che ha custodito e canalizzato i processi biologici all’origine della formazione della vita, e che obbliga gli organismi a comportarsi in molti casi indipendentemente da una relazione diretta con l’ambiente. L’altruismo è una lampante manifestazione di autoevoluzione” (ivi, 348). E quello che vale per “l’altruismo”, vale, come si è visto, per gli ideali “di giustizia e di verità”.
A siffatto biologismo o panbiologismo, contrappongo le seguenti considerazioni:
  1. Muovendo dall’ultimo esempio, quello sulle migrazioni dei popoli, va ricordato che, in questo fenomeno storico, le esigenze materiali non hanno occupato sempre una posizione di primo piano. Non c’era nessuna esigenza economica particolare ed immediata a spingere gli spagnoli a riversarsi nel Nuovo Mondo. Prevalevano invece lo spirito di avventura e di conquista, la volontà di dominio, atteggiamenti tipici dello spirito umano, capaci di una vita del tutto indipendente dalle sollecitazioni fisico-chimiche.
  2. Che l’attrazione sessuale naturale tra uomini e donne derivi anche da componenti fisico-chimiche non possiamo evidentemente negarlo. Ma essa esprime solo la nostra parte animale, le cui caratteristiche ci rendono appunto simili agli animali (mangiare, bere, digerire, evacuare, copulare). Nell’essere umano c’è, tuttavia, anche ciò che è proprio dell’uomo, a cominciare dal pensiero, e che si dimostra irriducibile al puro istinto e alle sue leggi fisico-chimiche. Lo si nota anche nel caso dell’attrazione sessuale. Nell’essere umano, essa non dipende solo dall’olfatto. Dipende anche dalla forma, cioè dal fatto che la donna trovi nell’uomo e questi nella donna una certa bellezza, o un certo fascino, nel quale confluiscono anche attrattive psichiche (simpatia, stile, personalità, etc). Se la persona e/o la personalità della controparte sono tali da lasciare indifferenti o disgustare, non ci sono, per così dire, effluvi che tengano. Ma questa forma o qualità che deve aggiungersi alla componente fisico-chimica perché un sesso sia ritenuto (appunto) attraente dall’altro, che cosa ha a che vedere con i “messaggi chimici”? Proprio niente, direi. Si tratta di una qualità del tutto spirituale, anche a voler intendere qui lo spirito nel senso meno elevato, come semplice sentimento del bello o del piacevole. In termini di “messaggi”, il messaggio qui inoltrato è puramente estetico e psicologico, non fisico-chimico. Per tacere poi del fatto che relazioni amorose vengono a volte iniziate, da entrambi i sessi, per pura vanità, senza nemmeno la presenza di una vera attrazione. Vanità, vanagloria, narcisismo : atteggiamenti mentali meno che mai interpretabili in termini fisico-chimici.
    Inoltre, gli esseri umani hanno per natura la capacità di resistere al desiderio. Possono dominarlo, esercitando la loro volontà, che è facoltà mentale tipica di un essere dotato di ragione. E giustamente questa è sempre stata considerata una delle caratteristiche che distinguono l’uomo dall’animale. Al contrario dell’animale, l’uomo, quando vuole, sa resistere al richiamo dell’istinto. E non solo per ciò che riguarda i desideri carnali.
    E da dove viene questa capacità dell’essere umano, sua esclusiva, di resistere alle pulsioni fisico-chimiche, che costituiscono il sostrato materiale delle passioni? Da dove, se non da una dimensione puramente spirituale - le cui leggi non sono evidentemente quelle della materia - che si articola in interiore homine in ciò che chiamiamo pensiero, ragionamento, volontà, coscienza e che riteniamo poggiare su qualcosa di più profondo ancora, che è l’anima? E che nell’essere umano ci sia questa componente spirituale del tutto autonoma ed indipendente dalla materia del suo corpo anche se ad essa ovviamente collegata, componente della quale egli è consapevole grazie a ciò che chiamiamo coscienza; ciò risulta, a mio avviso, anche da un’altra considerazione.
    L’analisi dell’informazione fisico-chimica che induce l’attrazione dei sessi al fine dell’accoppiamento, negli animali e negli uomini, ci mostra senza fallo che i messaggi vengono scambiati sempre tra individui di sesso diverso, tra maschi e femmine, mai tra individui dello stesso sesso. L’omosessualità non rientra evidentemente nel piano della natura. Del resto, se vuole mantenersi, quest’ultima deve indurre i viventi alla riproduzione del vivente (cioè di se stessa) e quindi deve indurre il maschio e la femmina a copulare al fine di riprodursi nella prole. Le supposte inclinazioni omosessuali degli omosessuali non possono pertanto derivare da un istinto conforme a natura. Deriveranno allora dalla loro mente, dalla loro volontà, che anche in questo caso testimonia la libera capacità della mente di autodeterminarsi, scegliendo qui il male invece del bene, vale a dire mostrandosi capace di scegliere ciò che è contro la natura in luogo di ciò che è secondo la natura, frustrando in tal modo il fine della natura (il riprodursi per mantenersi) che è poi il fine posto alla natura da Colui che l’ha creata (“Crescete e moltiplicatevi”, Gen., 1, 20 ss; 27-28). A tal punto il nostro libero arbitrio può dunque agire indipendentemente dalle pulsioni della materia.
  3. La scienza odierna, come nota tra i contemporanei Richard Swinburne, è del tutto incapace di spiegare il fatto rappresentato dalla nostra coscienza o consciousness o anima (soul, intesa in senso lato).(29)  Essa non può avere nessuna idea al proposito, aggiungo, perché i suoi postulati materialistici ed evoluzionistici glielo impediscono. Ma le realtà dello spirito sono appunto fatti, che esistono e permangono nonostante l’afasia della scienza a loro riguardo, il silenzio di una scienza che non sa più distinguere tra l’animale e l’uomo e che anzi ha assimilato l’uomo all’animale. La scienza non sa darci una spiegazione di ciò che è tipico dell’uomo, nemmeno dei semplici sentimenti presenti nella vita di tutti i giorni, che non si lasciano ridurre a processi molecolari.
    Pensiamo per esempio al sentimento del rimorso. Credere che siano stati dei messaggi chimici a produrlo, sarebbe del tutto assurdo. La sua causa è del tutto spirituale poiché dipende esclusivamente dal significato di ciò che abbiamo fatto : una cattiva azione, che ci pesa sulla coscienza. Ed un significato come lo riduciamo ad una causa fisico-chimica? E cattiva l’azione, perché? Perché ha violato una legge, che a sua volta è un significato, il significato di essere un principio morale (non mentire, non rubare, etc) che evidentemente dobbiamo osservare, se vogliamo essere in pace con la nostra coscienza. Il rimorso può poi incidere somaticamente, mettendo in moto un processo fisico-chimico, che può manifestarsi, per esempio, in disturbi psico-somatici, come si suol dire. Ma il rimorso come tale, in quanto sentimento interiore, chiaro e distinto, capace di influire sul nostro organismo, è qualcosa di puramente spirituale, che non può perciò venire dalla materia. E ciò tanto più mi sembra evidente quando l’atto di cui si prova rimorso, è consistito in una violazione ben riuscita del Sesto Comandamento; violazione cioè che, come atto della natura, si sia svolta in perfetta armonia con le leggi fisico-chimiche dell’attrazione dei sessi e della conseguente consumazione carnale : se tutto è andato nel migliore dei modi dal punto di vista fisico-chimico perché provare allora quello stato, spesso improvviso, di infelicità costituito dal rimorso? Evidentemente perché il rimorso concerne esclusivamente il significato di quest’atto, negativo sul piano morale; significato talmente indipendente in se stesso da ogni influenza della materia, da metterci in aperta contraddizione interiore con il sentimento di soddisfazione carnale anteriormente provato, ossia con il sostrato chimico-fisico della nostra azione.
    Al fine di correggere la loro impostazione unilaterale, con le sue pesanti ricadute in termini di relativismo etico, gli scienziati odierni, mi permetto di concludere, dovrebbero forse tornare a prendere in considerazione la filosofia, a cominciare dalla sua pristina intuizione sull’esistenza del n o u s, della mente o intelligenza in sé, intelletto irriducibile alla materia e alle sue leggi. “Tutte le cose hanno parte di ogni cosa, ma l’intelligenza [nous] è illimitata, indipendente e non è mescolata ad alcuna cosa, ma sta sola in sé [...] E dopo che l’intelligenza ebbe iniziato a muovere, da tutto ciò che era mosso si svolgeva il processo di formazione; e quanto l’intelligenza aveva mosso, tutto questo si divise [...] E l’intelligenza che sempre è, tanto più è anche ora dove sono anche tutte le altre cose, nel molto che avvolge, nelle cose formate per assimilazione e in quelle formate per separazione”.(30)
_______________________________
1. Antonio Lima-de-Faria, Evoluzione senza selezione. Autoevoluzione di Forma e Funzione, ed. ital. e traduzione a cura del Dr. Stefano Serafini, Supervisione del prof. Giuseppe Sermonti, Prefazione del prof. Sergio Carrà, Prefazione dell’autore all’edizione italiana, Nova Scripta Ed., Genova, 2003, pp. xlviii-451, con apparato bibliografico alle pp. 395-417. L’originale in inglese è del 1988. D’ora in poi citato come LF. Sul significato di quest’opera, vedi : Giuseppe Sermonti, Dimenticare Darwin. Ombre sull’evoluzione, Rusconi, Milano, 1999, pp. 94-95.
2. “Ogni scienza (epistéme) è di ciò che è sempre o per lo più, ma l’accidente (symbebekós) non appartiene né all’uno né all’altro di questi. E s’intende da sé che dell’accidente non esistono cause e princìpi quali esistono dell’essere in sé e per sé […] L’essere, poi, nell’altro senso, dico in quello di accidente, non è necessario, ma indeterminato : dell’indeterminato le cause sono disordinate e impossibili a enumerare […] Ora, il caso (tyche) è causa per accidente nelle cose che hanno uno scopo e avvengono per deliberazione. Perciò il caso e il pensiero versano allo stesso oggetto : ché la deliberazione non è senza il pensiero. Ma le cause dalle quali per caso possono le cose avvenire, sono infinite [nel senso di perennemente indeterminate-indeterminabili]. Perciò il caso è oscuro al ragionamento umano ed è causa accidentale : anzi, in assoluto, non è causa di nulla” (La Metafisica, tr. e note a cura di A. Carlini, Laterza, Bari, 1965, 11, 8, 1065 a, pp. 380-382)
3. LF, Prefazione, a cura di Sergio Carrà, pp. xix-xxiii; p. xx.
4. Giuseppe Sermonti, op. cit., pp. 41-43. L’attenuazione dell’importanza esclusiva del principio della selezione naturale risulta esplicitamente da una frase aggiunta da Darwin alla fine dell’introduzione (Historical Sketch), scritta posteriormente alla prima edizione della Origin. Dopo aver ribadito la sua fede nell’evoluzione delle specie, aggiungeva : “Furthermore, I am convinced that Natural Selection has been the main but not exclusive means of modification” ( Charles Darwin, The Origin of Species by means of Natural Selection or the Preservation of favoured Races in the Struggle for Life (1859), rist. con aggiunte dalle edizioni posteriori, con pref. di Patricia Horan, Avenel, New York, 1986, p. 69). 5. ODB, 2004, sub voce Mutation. Qui come altrove le frasi tra parentesi quadre sono mie. Nel 1982 l’immunologo prof. Alain Bussard spiegava: “Le neutralisme, proposé par Kimura [1924-1994, illustre genetista giapponese] et appuyé sur une analyse statistique rigoureuse, souligne que les mutations neutres, c’est-à-dire celles qui ne fournissent ni avantages ni désavantages sélectifs [vale a dire, rilevanti per la selezione naturale delle specie], représentent l’immense majorité des mutations, ce qui, évidemment, interdit l’interprétation sélective de l’évolution [basata cioè sulla Selezione Naturale]. De même l’immunologie moléculaire nous présente un modèle analogique, non pas de mutations neutres, mais de réassociations neutres des gènes codant pour les anticorps. Ces réassociations doivent être neutres en ce sens qu’elles aboutissent au codage d’anticorps dont l’immense majorité ne servira à rien dans la mesure ou l’antigène leur correspondant ne les rencontrera jamais” (Alain Bussard, Darwinisme et immunologie, Bulletin de la Société française de Philosophie, 77e année, n. 1, janvier-mars 1982, Armand Colin, Paris, 1983, p. 18 dell’estratto).
6. Questa verità si ritrova in tutti i manuali di biologia per le scuole medie superiori. Cfr. : Tommy Murtagh, Biology now!, Gill & MacMillan, Dublin, 2002, p. 158.
7. Darwin sosteneva che l’evoluzione delle specie, di specie in specie, prodotta secondo lui dalla selezione naturale, doveva esser stata lentissima e graduale a causa della connessione esistente tra “forme capostipiti” (parental) e “forme intermedie” che egli credeva prendessero continuamente il posto delle prime, distruggendole. Questo “processo di sterminio” si era attuato su scala planetaria, scriveva, ragion per cui il numero delle “varietà intermedie” doveva essere veramente enorme. Come mai, allora, queste forme intermedie non si trovavano? “La geologia non ci mostra di sicuro alcuna catena organica [di sviluppo] così finemente graduata. E questo fatto costituisce forse l’obiezione più evidente e più grave alla mia teoria (and this, perhaps, is the most obvious and gravest objection which can be urged against my theory)” (Origin, pp. 291-292; vedi anche p. 206 ss). Ma egli così replicava ai suoi detrattori : le forme intermedie (chiamate poi missing links) dovevano esserci; se non si trovavano, ciò doveva dipendere dalla “imperfezione dei nostri dati geologici”. Un secolo e mezzo dopo, l’obiezione “più evidente e più grave” al darwinismo resta, dato che queste famose “forme intermedie” continuano a latitare.
8. Cfr. Sermonti, op. cit., pp. 48-49; ODB, alla voce living fossils.
9. Non sono mancati anche, come è noto, clamorosi imbrogli, come nel caso del cosiddetto “uomo di Piltdown”, supposto reperto fossile presentato nel 1911 in Gran Bretagna come anello di congiunzione tra l’uomo e la scimmia, venerato per decenni come tale al British Museum e risultato poi esser costituito di un cranio umano cui era stata appiccicata ad arte la mandibola di una scimmia. (Vedi l’articolo del celebre paleontologo Stephen J. Gould, scomparso nel 2002 : The Piltdown Conspiracy, 1980, ora nell’antologia : Paul McGarr and Steven Rose (a cura di), The Richness of Life. The Essential Stephen Jay Gould, with an Introduction by Steven Rose, Jonathan Cape, London, 2006, pp. 181-204). Sul punto : Stephen J. Gould, The Episodic Nature of Evolutionary Change, estratto da uno scritto del 1980, ora in The Richness of Life, cit., pp. 261-266. Ma come si può rigettare il principio del “gradualismo” dell’evoluzione, conservando tuttavia un approccio darwiniano alla stessa (ivi, p. 263)? E conservando per di più il “gradualismo” in via subordinata, in nome di una visione “pluralista” della scienza (ivi, p. 266)?
11. Richard Dawkins, The Selfish Gene, Oxford, 1976, rist. 1999, p. 19. Le tesi del determinismo biologico hanno creato la moda di voler trovare il gene di tutto, dalla violenza al temperamento artistico all’omosessualità. Si tratta di ricerche mirabolanti quanto superficiali, la cui vacuità è stata dimostrata dagli studiosi più seri. Il “gene” dell’omosessualità, tanto per richiamare il caso forse più clamoroso, nessuno è mai riuscito in realtà a trovarlo, checché facciano credere i media. Per l’infondatezza scientifica di questa ipotesi, che pretendeva di aver individuato anche “il cervello gay”, vedi le puntuali osservazioni del dr. Gerard JM van der Aardweg, psicologo olandese, un’autorità internazionale nel campo della cura delle persone omosessuali, in Id., Selbstherapie von Homosexualität. Leitfaden für Betroffene und Berater, Hännsler, Neuhausen-Stuttgart, 1996, pp. 34-41; nonché la nota opera del neurobiologo inglese Steven Rose, avverso a Dawkins : Lifelines. Life Beyond the Gene, 1997, 2a ediz. rived., Vintage, London, 2005, pp. 288-291, con le fonti ivi citate. 12. LF, pp. xix-xx. Cito sempre dalla prefazione del prof. Carrà. Il determinismo a base genetica, negatore del libero arbitrio, professato da Dawkins e dalla sua scuola ha provocato come è noto, la decisa opposizione di Gould e della sua scuola, che ribadivano la comprovata impossibilità per i geni di subire l’azione della selezione naturale e l’impossibilità di spiegare ogni aspetto dell’evoluzione in termini di adaptation e quindi di selezione naturale (Vedi : Gould e Richard Lewontin, The Spandrels of San Marco and the Panglossian Paradigm : A Critique of the Adaptionist Programme, e Gould, More Things in Heaven and Earth, in The Richness of Life, cit., pp. 417-437 e 438-460). Di questa disputa il prof. Lima-de-Faria non tiene conto. Essa in effetti non ha impedito il prevalere del determinismo genetico, che imperversa anche sui media.
13. Carrà, in LF, xx.
14. Ivi. Cfr. : D’Arcy Wentworth Thompson, Crescita e forma, edizione ridotta a cura di John Tyler Bonner, CUP, 1961, tr. it., Boringhieri, Torino, 1969.
15. D’Arcy Thompson, op. cit., Introduzione di John Tyler Bonner, pp. vii-vx; p. viii e pp. xi-xii.
16. Cfr. Giuseppe Sermonti, op. cit., pp. 45-49. 17. “I do not think that Darwinism can explain the origin of life. I think it quite possible that life is so extremely improbable that nothing can “explain” why it originated; for statistical explanation must operate, in the last istance, with very high probabilities. But if our high probabilities are merely low probabilities which have become high because of the immensity of available time [...] then we must not forget that in this way it is possibile to “explain” almost everything”. Così Karl Popper, nel famoso testo nel quale negava al neodarwinismo il carattere di scienza (Karl Popper, Darwinism as a Metaphysical Research Programme, in Id., Unended Quest. An Intellectual Autobiography, 1974, Routledge, London and New York, 2002, pp. 194-210; p. 196). A queste e simili critiche, gli evoluzionisti restano indifferenti. Essi rispondono in genere nel seguente modo : il fatto che la vita esista, dimostra che il caso unico si è verificato, anche se “la sua probabilità a priori era quasi nulla” (Jacques Monod, Il caso e la necessità. Saggio sulla filosofia naturale della biologia contemporanea, tr. it. Anna Busi, Mondadori, Milano, 1970, pp. 117-118). Come a dire : poiché ciò di cui predichiamo l’origine casuale esiste, abbiamo ragione noi : il caso unico ha dovuto prodursi, la vita si è originata casualmente : “L’universo non stava per partorire la vita, né la biosfera l’uomo. Il nostro numero è uscito alla roulette : perché dunque non dovremmo avvertire l’eccezionalità della nostra condizione, proprio allo stesso modo di colui che ha appena vinto un miliardo?” (Monod, ivi, p. 118).
18. LF, 20. Vedi Popper, Darwinism as a Metaphysical Research Programme, cit., sp. pp. 194-201.
19: Per il prof. Lima-de-Faria, “l’universo è una gran cristalleria e le forme [che in esso appaiono] sono il risultato delle capacità organizzative di cristalli e semi-cristalli”(Sermonti, op. cit., pp. 94-95). Tra i suoi precursori, il nostro autore include anche Goethe, con la sua concezione di una forma – quella della pianta – presente in natura come un vero e proprio archetipo (LF, 47).
20. La frase di Voltaire è tratta dalla voce Fin, causes finales del suo celebre Dictionnaire philosophique, apparso nel 1764. Ma, in questo scritto, Voltaire non sembra affatto voler negare il principio del finalismo nella natura. Piuttosto, se la prende con coloro che sostenevano esser tutto già prestabilito. Il suo bersaglio è costituito dalla leibniziana armonia prestabilita, così come l’aveva capita lui, fabbricandosela come uno dei suoi zimbelli preferiti. Se è vero, afferma, che tutto è già prestabilito, poiché non vi ha effetto senza causa, allora tutto è il risultato di una causa finale : “donc il est aussi vrai de dire que les nez ont été faits pour porter des lunettes, et les doigts pour être ornés de diamants qu’il est vrai de dire que les oreilles ont été formées pour entendre les sons et les yeux pour recevoir la lumière” (Id., Dictionnaire philosophique, Garnier, Paris, 1961, ediz. a cura di Julien Benda e Raymond Naves, pp. 199-200). Si tratta di un argomento ad absurdum, al fine di screditare i settatori del determinismo.
21. Summa theol., I, q. 2, a. 3. Sul finalismo nella natura secondo S. Tommaso, in relazione ai problemi filosofici sollevati dall’evoluzionismo, vedi : P. Louis-Eugène Otis, La doctrine de l’évolution. Un exposé des faits et des hypothèses, Fides, Montréal, 1951, vol. II, pp. 51-73. La quinta prova dell’esistenza di Dio è un testo classico, sempre citato da coloro i quali, dall’esistenza dell’ordine, deducono correttamente la necessità dell’esistenza di Dio. Da ultimo, vedi : Richard Swinburne, Is There a God?, OUP, Oxford, 1996, rist. 2003, p. 55.
22. Prov., 16,4. Romano Amerio cita questo passo in relazione a Summa Theol., I, q. 19, a. 2 : “Sic igitur Deus vult se et alia : sed se ut finem, alia ad finem” (Romano Amerio, Iota Unum. Studio sulle variazioni della Chiesa cattolica nel secolo XX, Ricciardi, Milano-Napoli, 2a ediz., 1986, p. 402).
23. “Inoltre, la causa è come fine ed è questa la causa finale, come del passeggiare è la salute” (Arist., La fisica, tr. it. con introd., note ed indici a cura di Antonio Russo, Laterza, Bari, 1968, 2, 194 b, p. 36).
24. Summa theol., I-II, q. 1, a. 1 : “finis, etsi sit postremus in executione, est tamen primus in intentione agentis. Et hoc modo habet rationem causae”.
25. Essa non si rende conto che, se Dio non esistesse, essa non potrebbe nemmeno costruire le sue spiegazioni del mondo : “I do not deny that science explains, but I postulate God to explain why science explain” (Swinburne, op. cit., 68).
26. Cfr. Zorell SI, LGNT, sub voce heméra, the testimonia un uso diffuso del termine, uso definito come “ebraizzante”, anche nel senso di tempus, aetas, al plurale e al singolare, nel greco del Vecchio e del Nuovo Testamento.
27. LF, 392. In sede filosofica, il tentativo più radicale di ridurre tutto il nostro modo di essere (pensare, sentire, agire) a risultato di semplici movimenti della materia fuori e dentro di noi, è stato forse quello di Hobbes : cfr. i primi sei capitoli del Leviathan.
28. LF, 344. I feromoni sono molecole costituite da acido organico o alcohol, altamente volatili. Vengono emesse nell’ambiente dall’organismo di mammiferi ed insetti, come segnale specifico rivolto ad un altro organismo, normalmente della stessa specie, per diversi scopi : accoppiarsi di maschi e femmine, marcare oggetti o territorio, promuovere la coesione sociale (vedi ODB, sub voce e LF, 227-228).
29. Swinburne, op. cit., pp. 80-94. L’autore sembra accettare l’ipotesi evoluzionistica. Tuttavia, precisa, la scienza non è assolutamente capace di spiegare come mai, ad un certo punto, sia apparso un essere – l’uomo – dotato della capacità di pensare, della coscienza o “anima”, del libero arbitrio (ivi, p. 81). La spiegazione della realtà in termini fisico-chimici ha portato (erroneamente) la scienza “ad ignorare tutto ciò che è mentale” (ivi, p. 86). Il che ha condotto all’atteggiamento irrazionale di negare l’esistenza stessa di una sfera mentale, “just because you cannot explain how it came to be there” (ivi, 80). Il nesso del cervello con i processi mentali, “mental events” che sono causati ma a loro volta causano “brain events”, resta del tutto incomprensibile, in termini scientifici (ivi, 88 ss). Però esiste. Il fatto è, conclude l’autore, che questo nesso si può comprendere solo postulando l’idea di Dio, un Dio creatore (ivi, 90-94). La tradizionale dottrina cristiana di un Dio creatore che opera mediante le “cause seconde” ovvero “i processi naturali”, intervenendo invece direttamente nella creazione dell’anima di ciascuno, da Lui stesso collegata al corpo di ciascuno, deve esser ripresa in considerazione (ivi, 93-94). Conclusione validissima, a mio avviso, anche senza condividere il senso troppo lato nel quale l’autore, per voler seguire l’ipotesi evoluzionistica, intende l’anima, che attribuisce in qualche modo anche agli “animali superiori” (ivi). L’evoluzionismo ha riportato in auge il panpsichismo e, nelle forme più rozze, l’animismo, il culto degli animali (ad esempio nella galassia “ecologista”).
30. Anassagora, Testimonianze e frammenti, a cura di Diego Leanza, La Nuova Italia, Firenze, 1966, p. 225 e 235. S. Tommaso, che lo conosceva attraverso la Fisica di Aristotele, cita Anassagora come esempio più antico della concezione di Dio come puro spirito separato dalla materia (intellectus immixtus), motore immobile, principio del moto e di tutte le cose (cfr. Compendium Theologiae, caput 17).

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