lunedì 9 gennaio 2023

Benedetto XVI “Doctor Caritatis”. Profezia della Lettera ai vescovi lefebvriani

Riprendo dall'Osservatorio Card. Van Thuân, una interessante riflessione su una delle quaestiones più discusse e delicate del Pontificato di Benedetto XVI.
Benedetto XVI “Doctor Caritatis”.
Profezia della Lettera ai vescovi lefebvriani


In questi giorni molti sono i commenti emersi attorno alla figura del Santo Padre Benedetto XVI, ora asceso in anima al cospetto di Dio Onnipotente. Non sono mancati quanti già si propongono con titoli ufficiali, quali Dottore della Chiesa e simili. E allora vorrei omaggiare anche io il Santo Padre con un titolo, che sia poi occasione per una riflessione più ampia su un punto a mio avviso cruciale del Magistero benedettiano. Il tiolo è quello di Doctor Caritatis, la carità è uno dei contenuti strategici del suo insegnamento e l’attualità di tale ammaestramento sarà illustrata qui di seguito. Si tratta di uno dei tanti punti della lezione pontificia che è stato dimenticato e gli esiti si vedono già tutti nel campo civile, mentre si vedranno fra non molto in quello ecclesiale. Andiamo per gradi.
Riferirsi alla carità certo porterà molti a pensare all’indiscusso e audace capolavoro che fu la Deus Caritas Est, prima enciclica di Benedetto XVI. Personalmente preferisco un altro approccio, almeno al fine della modesta meditazione odierna.

Riprenderò il delicato testo della lettera “Ai vescovi della Chiesa Cattolica riguardo alla remissione della scomunica dei 4 vescovi consacrati dall’arcivescovo Lefebvre” (qui). Come molti ricorderanno, all’indomani della revoca della scomunica ai succitati vescovi si accese un vespaio di rara durezza nei confronti del Santo Padre. Benedetto XVI fu costretto a scrivere una apologia che, nata come rimedio alla querelle mediatica, gli permise di fare chiarimenti teologici fondamentali e utili a tutti. In fondo, una delle migliori lezioni attorno all’altra vexata quaestio: la differenza tra Concilio dei Media e Concilio dei Padri, che attraverserà le lezioni dell’ultimo periodo di Pontificato. Più ancora, la dimostrazione di come il Magistero in mentem Patrum possa finemente e risolutamente scalzare le ombre del Contro-magisterio mediatico.

Nella lettera incriminata Benedetto XVI, chiarite le questioni di cronaca, si sposta su argomenti sostanziali di pastorale, ma ancora sceglie di introdursi dando voce all’opposizione mediatica: “Era tale provvedimento necessario? Costituiva veramente una priorità? Non ci sono forse cose molto più importanti?”

La risposta sembra andare incontro alle rivendicazioni del Mondo, ma subito le rincalza, rimproverando fermamente la superficialità degli interlocutori: “Certamente ci sono delle cose più importanti e più urgenti. Penso di aver evidenziato le priorità del mio Pontificato nei discorsi da me pronunciati al suo inizio. Ciò che ho detto allora rimane in modo inalterato la mia linea direttiva”.

Qui inizia la costruzione del pensiero teologico pastorale di Benedetto XVI, la cui attualità è direttamente proporzionale alla lungimiranza strategica e al coraggio applicativo dello stesso:
“La prima priorità per il Successore di Pietro è stata fissata dal Signore nel Cenacolo in modo inequivocabile: ‘Tu … conferma i tuoi fratelli’ (Lc 22, 32). Pietro stesso ha formulato in modo nuovo questa priorità nella sua prima Lettera: ‘Siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi’ (1 Pt 3, 15). Nel nostro tempo in cui in vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimento, la priorità che sta al di sopra di tutte è di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio. Non ad un qualsiasi dio, ma a quel Dio che ha parlato sul Sinai; a quel Dio il cui volto riconosciamo nell’amore spinto sino alla fine (cfr Gv 13, 1) – in Gesù Cristo crocifisso e risorto. Il vero problema in questo nostro momento della storia è che Dio sparisce dall’orizzonte degli uomini e che con lo spegnersi della luce proveniente da Dio l’umanità viene colta dalla mancanza di orientamento, i cui effetti distruttivi ci si manifestano sempre di più”.
Il fondamento è biblico, perché nelle e dalle Scritture fiorisce l’autentica tradizione cattolica. E nella tradizione si esprime il vero magistero pontificio, che Benedetto XVI riporta al comandamento del Signore (“conferma i tuoi fratelli”) e interpreta alla luce della parenesi petrina (rendere ragione della speranza). Il tutto assume particolare significato nel contesto storico di ateismo galoppante e dilagante che viviamo. E dunque, in sintesi, compito del Papa è preoccuparsi dell’umanità disorientata, la quale va soccorsa con un richiamo alla fede. Qui per fede si intende il contenuto della Rivelazione di Cristo, il quale comprende la relazione di amore col Crocifisso Risorto ed è però un contenuto di cui bisogna rendere ragione. Ecco così individuata la suprema priorità, cioè la meta oltre la quale nulla si colloca e al servizio della quale ogni iniziativa pastorale si giustifica e si orienta: “Condurre gli uomini verso Dio, verso il Dio che parla nella Bibbia: questa è la priorità suprema e fondamentale della Chiesa e del Successore di Pietro in questo tempo”.

Polemiche che non tengono conto di tale criterio supremo sono solo chiacchiere o tradimenti della missione. Ogni progettazione pastorale invece deve discendere da questo principio sommo. E quali sono i primi valori ad emergere? Il richiamo all’unità dei credenti, con la quale poi si avvia il dinamismo ecclesiale nella sua forma tanto testimoniale quanto evangelizzatrice. L’evangelizzazione, cioè l’annuncio del Vangelo e la chiamata alla vera fede, si esprime in quello sforzo comune che richiama ogni credente a unirsi, avendo come punto di fuga di tale movimento riunitivo il Crocifisso Risorto. Di qui i tre riferimenti che fa Benedetto XVI: al dialogo interreligioso, all’ecumenismo, alla revoca della scomunica per i vescovi lefebvriani.
“Dobbiamo avere a cuore l’unità dei credenti. La loro discordia, infatti, la loro contrapposizione interna mette in dubbio la credibilità del loro parlare di Dio. Per questo lo sforzo per la comune testimonianza di fede dei cristiani – per l’ecumenismo – è incluso nella priorità suprema. A ciò si aggiunge la necessità che tutti coloro che credono in Dio cerchino insieme la pace, tentino di avvicinarsi gli uni agli altri, per andare insieme, pur nella diversità delle loro immagini di Dio, verso la fonte della Luce – è questo il dialogo interreligioso”.
Fuori di tale sforzo l’annuncio di Dio non è credibile e non raggiunge e non salva l’umanità dispersa del mondo contemporaneo. Ecco perché dialogo religioso ed ecumenismo sono irrinunciabili. Ma ecco perché è ugualmente irrinunciabile lo sforzo unitivo verso i membri della Fraternità Sacerdotale San Pio X. E tutto ciò senza minimamente transigere su quale sia la fonte della Luce cui tutti sono chiamati a rivolgersi, al di là di ogni indifferentismo o qualunquismo religioso. La verità di Dio e il dovere di portare gli uomini al vero Volto di Dio sono la ragione che muove il Papa: nel rimproverare i vescovi riottosi, nel richiamare i cristiani acattolici, nell’invitare gli ebrei e i fedeli non cristiani, nell’aprire le porte alla FSSPX. A tutti però è chiaro che il Papa accoglie e raccoglie nella luce di Cristo, senza entrare in giochi di faziosità culturali, religiose, politiche o teologiche.

Dal principio supremo oltre all’evangelizzazione scaturisce anche il dinamismo della testimonianza, come accennavo più sopra. Quanti già si muovono nel cono di Luce del Cristo non possono se non preoccuparsi di essere espressione della sua Carità: “Chi annuncia Dio come Amore “sino alla fine” deve dare la testimonianza dell’amore: dedicarsi con amore ai sofferenti, respingere l’odio e l’inimicizia – è la dimensione sociale della fede cristiana, di cui ho parlato nell’Enciclica Deus caritas est”.

Il passaggio ulteriore fatto dal Pontefice ci porta ad argomentare la tesi esposta in esergo. Dal principio della fede, della cui speranza si dà ragione ai lontani evangelizzandi, e che si testimonia nella carità, procediamo senza soluzione di continuità alle applicazioni che concretizzano tali dinamiche ideali. Espressione concreta e certa di tutto ciò è la disponibilità alla riconciliazione: “Se dunque l’impegno faticoso per la fede, per la speranza e per l’amore nel mondo costituisce in questo momento (e, in forme diverse, sempre) la vera priorità per la Chiesa, allora ne fanno parte anche le riconciliazioni piccole e medie”.

E così, con grande semplicità e robustezza si risponde alla domanda iniziale: “Era tale provvedimento necessario?” Sì, era necessario come è necessario dare applicazione concreta, coerente e completa all’imperativo di carità, espressione di quella vera fede, ragionevole, che così deve manifestarsi per ricondurre gli uomini disorientati al loro Oriente.

Nella parte finale della lettera è il Papa a porre le domande: “Che il sommesso gesto di una mano tesa abbia dato origine ad un grande chiasso, trasformandosi proprio così nel contrario di una riconciliazione, è un fatto di cui dobbiamo prendere atto. Ma ora domando: Era ed è veramente sbagliato andare anche in questo caso incontro al fratello che “ha qualche cosa contro di te” (cfr Mt 5, 23s) e cercare la riconciliazione? Non deve forse anche la società civile tentare di prevenire le radicalizzazioni e di reintegrare i loro eventuali aderenti – per quanto possibile – nelle grandi forze che plasmano la vita sociale, per evitarne la segregazione con tutte le sue conseguenze? Può essere totalmente errato l’impegnarsi per lo scioglimento di irrigidimenti e di restringimenti, così da far spazio a ciò che vi è di positivo e di ricuperabile per l’insieme?”

La fila di domande retoriche mette all’angolo tutti i disobbedienti della ‘Chiesa di Benedetto’, svelandone in pochi tratti la fragilità nel sensus fidei, nello spirito pastorale, nella visione teologica, nonché la inadeguatezza a vivere l’attuale momento storico sociale in modo fecondo e propositivo. Non ci si stupisca che abbiano fatto di tutto per portarlo all’abdicazione, Benedetto XVI non solo li ha confutati (confutatis maledictis) ma ne ha svelato al pubblico i cuori.

Ora, prima di procedere, vorrei richiamare tutti a riflettere sulla portata profetica di quest’ultimo paragrafo del Santo Padre. Lo ripeto: “Non deve forse anche la società civile tentare di prevenire le radicalizzazioni e di reintegrare i loro eventuali aderenti – per quanto possibile – nelle grandi forze che plasmano la vita sociale, per evitarne la segregazione con tutte le sue conseguenze? Può essere totalmente errato l’impegnarsi per lo scioglimento di irrigidimenti e di restringimenti, così da far spazio a ciò che vi è di positivo e di ricuperabile per l’insieme?” La risposta per il Cristiano è certa. L’opposto esprimerà dunque il parere del Mondo e del suo maligno Principe. L’umanità disorientata e lontana da Cristo è quella che suscita le radicalizzazione, isola gli esponenti scomodi, produce segregazione, favorisce irrigidimenti e restringimenti, sacrifica anche il recuperabile alla causa dominante. Stiamo descrivendo il mondo in cui ormai siamo immersi e che negli ultimi tre anni si palesato sempre più. La cultura LGBT, l’idolatria ucraina, la segregazione dei novax, lo stigma per i sovranisti: ecco alcuni esempi concreti, tra i tanti che sempre più strozzano il nostro tempo. E tutto questo, alla luce del Magistero benedettiano, indica un percorso che dimentica la lezione della Carità, attenua ed estingue la credibilità della fede, disgiunge gli uomini da Dio e condanna l’umanità alla confusione e alla dispersione.

Il tutto pende come spada di giudizio grave particolarmente su quei cattolici che, disdegnando l’insegnamento pontificio, scelgono di avallare anche solo in parte questa logica mondana e divisiva (diabolica).

Ho precisato ‘anche solo in parte’, perché la carità cristiana è totalizzante e l’amore di Cristo non permette sacche di neutralità. Così lo esprime Benedetto XVI in un passaggio che reputo di altissima levatura teoretica, seppur apparentemente marginale: “a volte si ha l’impressione che la nostra società abbia bisogno di un gruppo almeno, al quale non riservare alcuna tolleranza; contro il quale poter tranquillamente scagliarsi con odio”. E ahimè questo vale anche per troppi cattolici. Troppi credono di esser buoni, perché accolgono in modo indiscriminato, senza verificare di essere pienamente nella Luce di Cristo e mentre si ostinano a coltivare spazi di odio nel proprio cuore. Spazi piccoli, certamente, ma sufficienti ad inficiare la credibilità del loro amore e della loro fede.

E mi avvio a concludere dunque. La tesi iniziale era che la carità fosse uno dei contenuti strategici dell’insegnamento del Pontefice tedesco. Spero di aver fatto intendere in che senso ciò vada compreso. Benedetto XVI è stato autentico maestro di carità, in quanto ha fermamente testimoniato l’imprescindibilità dell’amare cristiano, con tutte le sue esigenze, di totalità verso il prossimo, e al contempo di schietta radicazione nella verità e nella fede, che della verità è manifestazione piena, quale via di risanamento dell’umanità.

Che altro manca a questo quadro? Manca la dimensione etica del coraggio. Perché l’amore cristiano è eroico, chiede coraggio, coraggio per essere vissuto nonostante le ostilità del mondo e i tradimenti dei fratelli. Ma anche tale elemento è stato riconosciuto dal Papa, che ben sapeva di dover pagare personalmente il prezzo della propria autentica missione petrina: “A volte si ha l’impressione che la nostra società abbia bisogno di un gruppo almeno, al quale non riservare alcuna tolleranza…

E se qualcuno osa avvicinarglisi – in questo caso il Papa – perde anche lui il diritto alla tolleranza e può pure lui essere trattato con odio senza timore e riserbo”. Ci si è giustamente lamentati delle critiche rivolte a Papa Francesco nel corso dell’ultimo decennio; chissà quanti di tali censori hanno anche appreso la lezione di Benedetto XVI e quanti invece a suo tempo furono protagonisti non di generiche critiche ma di vibrante “odio senza timore e riserbo” nei confronti del Papa stesso.

Benedetto XVI doctor caritatis, perché ha riportato alla sua radice il vero senso dell’amore cristiano, contestualizzandolo nelle tensioni del mondo contemporaneo (laico ed ecclesiale), e perché ha incarnato tale amore nonostante l’onda di odio che ne sarebbe derivata dai lupi rapaci. La marginale lettera ai vescovi lefebvriani è un gioiello, perché ricorda che la radicalità dell’amore cristiano si mette alla prova nelle piccole cose, nei dettagli, capaci peraltro di svelare quanto grande possa essere la cattiveria che pur solo nei dettagli si intrattiene. Benedetto XVI, che ha affrontato questa cattiveria senza cedervi e anzi bacchettandola, e che all’avanzata dell’odio ha risposto nell’amore sia pur con una resa delle armi, come il beato Pio IX alla presa di Porta Pia, è per molti aspetti il più autentico dottore, condottiero ed esempio di carità, di quella carità non falsa e non ideologica, della verità carità di cui si sente sempre più la nostalgia dentro e fuori la Chiesa. Carità che è la presenza di Cristo stesso nei cuori degli uomini e non uno slogan ideologico da agitare contro i fedeli coscienziosi e gli uomini di buona volontà. In calce, per i lettori più affezionati dell’Osservatorio, non dimentichiamo mai che la Carità è uno dei quattro valori della Dottrina Sociale della Chiesa, vera chiave di volta che garantisce stabilità definitiva allo sforzo per il bene comune. L’approfondimento di tale principio, nella sua vastità teologica e nella sua proiezione pastorale è dunque tutt’altro che irrilevante per il nostro campo di studi. Precisazioni di tale calibro (mi riferisco al testo pontificio e non alle mie chiose sbrigative) aiuteranno meglio in futuro a rettamente intendere e applicare concetti altrimenti vaghi (se intesi in senso marxisticheggiante) e perniciosi (se intesi in senso gnosticheggiante) come quello di ‘atto d’amore’.
Don Mattia Rosa
Collegio degli Autori - Fonte

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