mercoledì 11 gennaio 2023

«Signore, ti amo!» - don Elia

In memoriam di Joseph Ratzinger/Benedetto XVI accenti condivisibili e che interpellano. Personalmente condivido le sottolineature positive che da sempre mi hanno catturato mente e cuore; ma penso non debba corrersi il rischio di confondere un sano e anche sofferto realismo, fondato su studio e preghiera, con l'assenza di carità di un tradizionalismo solo carnale...

Se scrivi, non mi sa di nulla, se non vi leggerò Gesù. Se discuti o disserti, non mi sa di nulla, se non vi risuonerà Gesù (san Bernardo di Chiaravalle, Sermoni sul Cantico dei Cantici, 15, 6).

La Provvidenza non manca mai di soccorrerci per indicarci la via da seguire o il modo di risolvere i nostri dilemmi. Possiamo certo scrivere o parlare, purché ciò abbia per oggetto il Signore oppure, qualora Egli non lo sia esplicitamente, porti a pensare a Lui, ad amarlo e a seguirlo. Il primato e la centralità di Dio nella vita umana è proprio quel che ha contrassegnato l’insegnamento e l’operato del compianto papa Benedetto XVI, la cui profonda vita mistica traspariva nello sguardo limpido e colmo di bontà, nel tratto attento e garbato con tutti, nella parola penetrante e capace di trasformare le persone. Se è vero che gli occhi son la finestra dell’anima, nei suoi brillava una luce soprannaturale che attraeva verso il Cielo e rassicurava l’interlocutore.

La rabbiosa e stupida guerra che gli mosse il mondo, fin da quando era prefetto del Sant’Uffizio, è un’indiretta conferma della sua fedeltà di uomo votato a Dio, che nulla poté far deflettere dalla linea della verità. Di sicuro nessuno è perfetto né rimane esente dal clima culturale in cui si è formato; nella sua impostazione intellettuale si può senz’altro lamentare un certo influsso kantiano, specie nella concezione della ragione, ed esistenzialista, in particolare nella visione della libertà di coscienza. Tuttavia lo studio dei Padri (soprattutto di sant’Agostino) e degli scritti di san Bonaventura preservò la sua mente da quelle derive immanentistiche e soggettivistiche cui si abbandonarono altri teologi del tempo, come Karl Rahner e Hans Küng, fino all’aperta eresia.

Non ignoriamo che, nel 1955, il dogmatico tedesco Michael Schmaus (1897-1993), correlatore della sua tesi di abilitazione all’insegnamento, ne richiese una revisione per via di quella che giudicò un’eccessiva soggettivizzazione del concetto di rivelazione, esigenza cui il candidato si adeguò del resto docilmente. La notizia che Schmaus lo abbia considerato un pericoloso modernista proviene però dal successore di Rahner, Eugen Biser (1918-2014), la cui testimonianza potrebbe peccare di partigianeria. In un’epoca di irrigidimento difensivo, in ogni caso, il sospetto si abbatteva – senza distinguere abbastanza tra chi lo faceva in buona fede, sulla base di un’educazione genuinamente cattolica, e chi invece indulgeva a suggestioni gnostiche – su chiunque tentasse di aprire nuove vie per comprendere la verità rivelata e renderla accessibile alla mentalità del tempo.

Ciononostante, certi circoli tradizionalisti non esitano a liquidare Joseph Ratzinger come modernista e rivoluzionario, seppur moderato. Questo ingeneroso giudizio denuncia un atteggiamento mentale distorto dal pregiudizio e incapace di cogliere sia la complessità del reale, sia l’opera della grazia in un’anima: non è vero che tra il pensiero del giovane teologo e quello del papa non vi sia differenza. È innegabile che l’uomo maturo non abbia mai sconfessato gli scritti precoci, ma ciò non autorizza a giudicare le intenzioni di qualcuno che tenne sempre a mantenere aperto un dialogo con la cultura contemporanea per non abbandonarla a se stessa, nonché per evitare che la Chiesa si rinchiudesse in un ghetto, a detrimento dell’una e dell’altra.

La prospettiva angusta e meschina di chi senza remore appiccica ad altri l’etichetta di eretico, come se l’errore fosse immancabilmente volontario, è uno degli effetti di quel tomismo manualistico che non fa certo onore all’Aquinate, ma lo deforma paradossalmente in una variante del razionalismo moderno. La teologia ridotta a fredde formule e banali sillogismi sa tanto di decadente nominalismo, nel quale i termini non designano più se non concetti astratti che non hanno rapporto con la realtà, ma servono solo a nutrire l’illusione di possedere il divino col ragionamento. Tale impostazione del pensiero impoverisce la mente e sterilizza l’anima; quel che è più grave, reifica il mistero e lo tratta, in modo tendenzialmente blasfemo, alla stregua di un oggetto creato.

È da tale prigione mentale che il giovane Ratzinger cercò la via d’uscita, sicuramente in maniera più equilibrata dei suoi contemporanei. Possiamo anche non condividere alcune delle sue prime opere, così come non riceviamo in eredità l’ermeneutica della continuità e della riforma, con cui credette di risolvere l’aporia del Vaticano II, ma non possiamo certo negarne l’eccelsa statura intellettuale, alla quale i suoi detrattori, da un estremo all’altro del ventaglio, non sanno opporre altro che volgari insulti o giudizi sommari. Pur non amando affatto le visite alle sinagoghe o ai templi protestanti, né tantomeno i raduni interreligiosi, non consideriamo questi elementi sufficienti per giustificare un bilancio totalmente negativo, bensì li collochiamo nel quadro storico di una generazione – diversa dalla nostra – che a suo modo ha provato a disincagliarsi dalle secche.

Di sicuro ci accuseranno di storicismo e relativismo, ma la coscienza non se ne turberà più di tanto, giacché non possiamo, per evitare tale rimprovero, isolarci in una bolla fuori del tempo. Se poi in uno scritto o discorso leggiamo o udiamo Gesù, non possiamo certo concludere che l’autore Gli sia completamente estraneo. Potrà eventualmente disturbarci, a volte, un certo quale sbilanciamento sul soggetto, da cui ci ha felicemente disintossicato la salutare frequentazione di san Tommaso; ciò non ci autorizzerà, tuttavia, a classificare quel difetto come voluto cedimento al soggettivismo, ma come involontario limite dell’impostazione culturale di una data fase della teologia contemporanea. Se crediamo realmente alla grazia di stato, d’altronde, dobbiamo anche riconoscerne l’azione, cui pone ostacolo la volontà perversa, non quella retta… a meno che la grazia non sia per noi un puro nome da utilizzare in uno sterile gioco intellettuale. Qui sta il punto: un certo modo di far teologia pretende che ci si limiti a ripetere, sistematizzandolo, quanto affermato dal Magistero, aggiungendovi magari qualche deduzione e puntellandolo con dotte citazioni. Le sintesi chiare e ordinate, certo, sono un ottimo ausilio per i principianti, ma ciò non implica che ci si debba arrestare a quelle proibendo qualunque sviluppo o elaborazione. Quante volte i buoni teologi hanno dato impulso al progresso della dottrina, alla sua esplicitazione e al suo approfondimento! Ciò non ha impedito che, su determinate questioni, ci fossero a volte rischiose oscillazioni, ma il Magistero ha sempre riportato l’ago della bussola nella giusta direzione; così avverrà pure con il personalismo, le cui buone intenzioni hanno coperto le trappole mortali che si son poi manifestate nel lungo periodo.

La giusta reazione, tuttavia, non può consistere nel ritorno del pendolo a un rigido scolasticismo. Pur senza idealizzare nessuno sotto l’onda dell’emozione, non possiamo misconoscere l’apporto di papa Benedetto alla riscoperta della relazione personale con Dio, senza la quale la dottrina diventa ideologia e il culto si riduce a mera esecuzione di rubriche. Il peggiore dei tradimenti non è quello di chi distorce palesemente la verità, ma quello di chi disdegna l’intima amicizia col Signore e aspira all’autosufficienza. Si ritrova qui, trasposta nella religione stessa, l’opposizione paolina tra spirito e carne: «Quelli che sono secondo la carne capiscono le cose della carne; invece coloro che sono secondo lo spirito percepiscono le cose dello spirito. […] Quanti però sono nella carne non possono piacere a Dio» (Rm 8, 5.8). Per quanto ciò possa sembrare paradossale, si può essere tradizionalisti in modo del tutto carnale, cioè rimanendo estranei all’unione con Dio e combattendo con odio chi la vive e la insegna.

Al fondo di tale disposizione si subodora qualcosa di luciferino: il rigetto della luce e dell’amore, seppur mascherato da ragioni apparentemente irreprensibili, di cui l’assenza della carità dimostra però la falsità. Anche la cattiva qualità dei frutti manifesta quella dell’albero: quell’accanirsi senza requie contro chiunque non corrisponda ai propri stereotipi non fa altro che danneggiare ulteriormente la Chiesa e scuotere la fede dei pochi che ancora la conservano. Chi si ostina su questa via non può esser mosso dallo Spirito Santo né amare davvero la Sposa di Cristo, ma è guidato da un altro spirito e opera in modo settario a beneficio della propria fazione, non del Corpo Mistico. In questo, in ultima analisi, modernisti e tradizionalisti finiscono con l’assomigliarsi: gli estremi opposti si toccano. Noi preferiamo seguire l’esempio del mite Benedetto ripetendone le ultime parole, sigillo e sintesi di tutta la sua esistenza sulla terra: «Signore, ti amo!».

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