Nota a margine alla morte
del papa emerito Benedetto XVI
di Andrea Zhok
Sin dalla scelta dei nomi, gli orientamenti di Ratzinger e Bergoglio erano evidenti ed evidentemente divergenti.
Rifarsi a Benedetto da Norcia, fondatore dell’ordine monastico dei benedettini, significava rifarsi a quella spina dorsale della cultura cristiana ed europea che erano i monasteri come luoghi di preghiera e lavoro ("ora et labora"). Questi monasteri conservarono la cultura degli antichi e costituirono un modello di comunità ancora oggi esemplare. Studio, contemplazione, lavoro, spiritualità, conservazione e comunità sono qui i riferimenti fondamentali.
Rifarsi a Francesco d’Assisi invece significava rifarsi a un modello antiistituzionale, pauperistico, rivoluzionario della Chiesa. Non è un caso che la scelta di Bergoglio sia isolata: è stata la prima volta che un papa decideva di prendere questo nome, giacché S. Francesco è ‘ab origine’ un santo eccentrico, al limite dell’eresia, ma alla fine ricondotto nell’alveo della tradizione e della Chiesa. Rifarsi a Francesco significava idealmente muoversi in una direzione innovativa, di liberazione dalle incrostazioni del passato, “democratica”.
Naturalmente entrambe le figure storiche, sia quella di Benedetto da Norcia che quella di Francesco d’Assisi sono esempi grandiosi di virtù e visione, e dunque entrambi sono straordinariamente degni di una ripresa e riproposizione del loro messaggio profondo. Non siamo qui dunque certo a inscenare un “concorso di bellezza” tra santi per stabilire chi sia il “migliore”.
Tuttavia questa diarchia, che ha rappresentato una questione eminentemente politica, con le dimissioni di Benedetto e l’avvento di Francesco presenta un aspetto culturalmente di grande interesse se lo collochiamo, come è necessario fare, nel generale processo storico corrente, di imposizione della ragione liberale in Occidente.
Il teologo Benedetto rappresentava in certo modo il volto classico del ruolo della Chiesa: la Chiesa come àncora, roccia cui aggrapparsi, come istituzione antichissima e radicata nella storia, capace di integrare variamente istanze e culture plurali, senza però mai perdere di vista il senso della propria continuità.
L’accusa all’istituzione ecclesiastica di essere un “freno conservatore al progresso” è in qualche modo un ‘topos’, una figura dello spirito, e una tesi non senza motivazioni: non c’è alcun dubbio che la Chiesa non sia mai stata animata da alcuna pulsione rivoluzionaria (avendo una rivoluzione spirituale alle sue proprie origini) e al contrario, che abbia sempre fatto spazio con fatica, cautela e prudenza ad ogni innovazione, dalla dottrina sociale della chiesa, al modernismo, al Concilio Vaticano II.
Ma, come sempre, il ruolo di una visione o di un’istituzione cambia in modo essenziale a seconda del contesto in cui opera.
E qual è il contesto odierno, in cui opera la Chiesa del XXI secolo?
Si tratta, almeno in Occidente, di un contesto di frenetica accelerazione tecnologica, tecnocratica, soggettivista, scientista, di un processo di sistematico scioglimento dei legami, di sradicamento, di cancellazione del passato, di dissoluzione identitaria. Questa tendenza è strettamente legata a quel processo secolare che è stato l’evoluzione del capitalismo di matrice angloamericana, che nell’ultimo mezzo secolo ha raggiunto una connotazione di imperialismo culturale in tutto l’Occidente (e nelle parti occidentalizzate del resto del mondo, come il Giappone urbano).
Di per sé, tanto rifarsi alla tradizione di Francesco che a quella di Benedetto avrebbe potuto di principio rappresentare una mossa di distanziamento dalle tendenze contemporanee. Dopo tutto Francesco è il santo “anticapitalista” per eccellenza, nel messaggio e nell’esempio, e peraltro il sudamericano Bergoglio avrebbe potuto giovarsi della lezione dell’America Latina, dove la percezione popolare dell’Impero Americano come minaccia persistente è un tratto di fondo.
Ma il papa, non bisogna mai dimenticarlo, è sì un sovrano assoluto, ma non è onnisciente né onnipotente: come ogni sovrano deve agire affidandosi ad una struttura di consiglieri e informatori. Ciò che è apparso sempre più chiaro con il passare del tempo è che quell’entourage vaticano che aveva messo in grave difficoltà Ratzinger era ora nelle condizioni di orientare in sempre maggiore misura le posizioni e affermazioni del nuovo papa, che in quanto per disposizione e formazione “progressista” era disposto a dare ascolto ad orientamenti ‘up to date’. Scivoloni degni di Repubblica, come la stigmatizzazione della “crudeltà di ceceni e buriati” tra le truppe russe, sono il segno del fatto che l’entourage papale non confida più su fonti autonome, ma è manifestamente sintonizzato sulla pubblicistica delle agenzie di stampa dominanti (le statunitensi Associated Press e United Press International e la britannica Reuters).
L’apparente perdita di autonomia culturale della Chiesa, il suo farsi trascinare sempre di più dall’opinionismo alla moda, dalla ricerca di compiacere i mutamenti di costume, il suo farsi dettare l’agenda culturale dalla cosiddetta “comunità internazionale” è un segno dei tempi, un segno preoccupante.
In questi tempi di rimozione, dissoluzione e cancellazione generalizzata, il carattere conservatore dell’istituzione ecclesiastica avrebbe un grande ruolo da giocare. Questo ruolo non dipende, sia detto per chiarezza, dal fatto che la tradizione tomistica e le successive elaborazioni vaticane siano “sempre nel giusto”, o che abbiano sempre una risposta adeguata alle sfide correnti. Il punto sta nel fatto che un’istituzione millenaria, radicata, capace di conservare in vita un coacervo di tradizioni, sarebbe di per sé, con la sua stessa ingombrante esistenza, un fondamentale bastione di opposizione ad una tendenza storica corrente che si caratterizza per un'irriflessa accelerazione e un “progressismo” caotico.
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